Cerimonia in occasione del decennale della visita di Sua Santità Giovanni Paolo II al Parlamento
Intervento del Presidente del Senato, Renato Schifani, nella Sala della Regina di Palazzo Montecitorio
E' ancora vivo il ricordo della storica visita di Papa Giovanni Paolo II al Parlamento italiano, il 14 novembre di dieci anni fa, alla presenza delle massime autorità dello Stato.
Con profonda emozione rievoco, nella mia memoria, l'immagine di quel grande Pastore che, ormai stanco, segnato dalla malattia e dalla sofferenza, faceva il suo ingresso nell'Aula di Montecitorio, accolto dagli applausi di tutti i parlamentari presenti.
La fatica e - al contempo - la determinazione con cui Egli salì i gradini che lo avrebbero condotto fino allo scranno della Presidenza, dal quale avrebbe pronunciato il suo discorso, rappresentano il senso dell'indomabile afflato missionario che animò tutta la sua esistenza, spesa, fino all'ultimo giorno, per testimoniare lo "scandalo e la follia" del messaggio evangelico, come ricorda san Paolo.
Nel discorso che il Papa rivolse ai rappresentanti della Nazione italiana, in un'Aula silenziosa e attenta, traspariva innanzitutto un profondo amore per l'Italia, "l'ammirazione" - sono le sue parole - "per un Paese in cui l'annuncio evangelico, qui giunto fin dai tempi apostolici, ha suscitato una civiltà ricca di valori universali ed una fioritura di mirabili opere d'arte, nelle quali i misteri della fede hanno trovato espressione in immagini di bellezza incomparabile".
La consapevolezza delle tante tracce che la religione cristiana aveva impresso nel costume e nella cultura del popolo italiano induceva il Pontefice a riflettere sul ruolo del Cristianesimo nella definizione dell'identità sociale e culturale dell'Italia, sulla missione di civiltà che, proprio per il suo particolarissimo legame con la Sede Apostolica, l'Italia aveva adempiuto e continuava ad adempiere in Europa e nel mondo.
Questo amore, questa ammirazione furono profondamente ricambiati dagli Italiani che, fin dal giorno della sua elezione al Soglio di Pietro, al di là dell'appartenenza religiosa, si lasciarono conquistare dalla forza dirompente di quest'uomo che, venuto da un Paese lontano, era diventato Vescovo di Roma.
Quella visita al Parlamento della Repubblica, tanto attesa, maturata nel tempo, eppure così eccezionale per le suggestioni che fu capace di evocare nell'immaginario storico della Nazione, rappresentò uno degli eventi più alti e fecondi della storia del rapporto tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, un momento quanto mai significativo del confronto tra sfera civile e sfera religiosa, nel segno di una nuova e più consapevole percezione del principio di laicità.
D'altra parte, già il dibattito in Assemblea Costituente sulla formulazione dell'articolo 7 della Costituzione conteneva già i presupposti per un'evoluzione matura e feconda dei rapporti tra autorità civile e autorità religiosa.
La formula che fu approvata, frutto di una sintesi mirabile, nella quale si riconobbero laici e cattolici, al di là di pur profonde divergenze culturali, permise, fin dai primi anni di vita della Repubblica, una lettura originale del rapporto tra comunità politica e comunità religiosa.
La laicità dello Stato accolta dalla Costituzione repubblicana non è riducibile a un mero dovere di neutralità in materia religiosa, ma è un valore positivo, che permea tutto l'ordito costituzionale dei diritti di libertà. In questo quadro di riferimento ideale, i valori religiosi sono accolti quali grandezze di segno positivo, estrinsecazioni fra le più elevate della dignità dell'uomo.
L'intuizione dei costituenti fu quella di cogliere la positività dell'esperienza religiosa, la sua intrinseca bontà per la vita sociale, senza alcun cedimento sul carattere aconfessionale dello Stato.
La presenza del successore di Pietro nel Parlamento italiano segna, dunque, il definitivo tramonto di un'affermazione ideologicamente orientata della laicità.
Oggi più che mai una visione antagonista dei rapporti tra sfera pubblica e fenomeno religioso non sembra capace di interpretare il mondo contemporaneo, mostrandosi inadeguata a fornire risposte esaustive ad una società attraversata dalle spinte contrapposte del risveglio identitario, anche di matrice fondamentalista, e da un individualismo che, dietro l'apparenza del pluralismo valoriale, può nascondere un'insidia nichilistica dagli esiti antropologici potenzialmente distruttivi.
E' progressivamente maturato, proprio tra gli anni Novanta del secolo scorso e l'inizio di questo millennio, una più consapevole comprensione del rapporto tra società civile e religione.
Quest'ultima viene sempre più concepita come un fattore determinante di integrazione storica e culturale, soprattutto perché, attraverso il costante riferimento ad un'entità trascendente e ad un ordine di valori morali, è suscettibile di svolgere una funzione orientativa.
La necessità che tra fede e ragione vi sia una reciproca attitudine all'ascolto è un tema che attraversa da sempre l'alto magistero di Benedetto XVI che il 17 settembre 2010, davanti al Parlamento di Westminster, ebbe a dire: "il mondo della ragione e il mondo della fede hanno bisogno l'uno dell'altro e non dovrebbero avere timore di entrare in un profondo e continuo dialogo, per il bene della nostra civiltà".
L'interrogativo sul "fondamento etico per le scelte politiche"
richiama un altro passaggio essenziale del discorso che Giovanni Paolo II pronunciò, in quest'Aula, il 14 novembre del 2002. Al centro di ogni giusto ordine civile - ammoniva Giovanni Paolo II - deve esservi il rispetto per la persona, per la sua dignità, per la sua autentica libertà e per i suoi inalienabili diritti, nella consapevolezza che esiste una "verità sull'uomo", naturale e oggettiva, alla quale, pur nella assoluta autonomia delle opzioni etiche e religiose di ciascuno, occorre costantemente richiamarsi, per non smarrire il senso profondo del nostro agire.
Nell'incertezza dei valori si insinua il rischio dell'alleanza fra democrazia e relativismo etico, che toglie alla convivenza civile ogni sicuro punto di riferimento morale - affermava Giovanni Paolo II nel suo discorso ai parlamentari italiani - richiamando alcuni passi della sua enciclica Veritatis Splendor.
Siamo al cuore di una questione essenziale per la tenuta dei nostri ordinamenti, un fattore non eludibile, un nodo antropologico decisivo al quale occorre porre attenzione, in ragione delle funzioni delicatissime alle quali, a tutti i livelli, siamo chiamati.
"Se i principi morali che sostengono il processo democratico non si fondano, a loro volta, su nient'altro di più solido che sul consenso sociale, allora la fragilità del processo si mostra in tutta la sua evidenza" ricorda ancora Benedetto XVI che, in occasione della sua visita al Bundestag di Berlino, il 22 settembre 2011, affermava: "Come riconosciamo che cosa è giusto? Come possiamo distinguere tra il bene e il male? Tra il vero diritto e il diritto solo apparente?".
Certamente è solo attraverso la democrazia che può essere realizzata una razionalizzazione morale della politica.
E' trascorso un decennio dall'incontro che oggi celebriamo. Nelle parole del Papa era ben presente la lucida consapevolezza di una crisi, innescata dai tragici eventi dell'11 settembre 2001, che avrebbe investito l'economia, le istituzioni, le relazioni internazionali, la politica, la nostra stessa quotidianità, nonché i valori essenziali.
Ma Giovanni Paolo II, in quel discorso ai rappresentanti della Nazione, indicava profeticamente la strada verso un tempo nuovo. Il Papa ci invitava ad improntare la dialettica dei rapporti politici ad una sincera e leale solidarietà che servisse a neutralizzare i contrasti infecondi, valorizzando al contempo le differenze.
Auspicava che l'attività di legislatori si qualificasse in tutta la sua nobiltà, in quanto sostenuta da un autentico spirito di servizio ai cittadini, dalla tensione ideale e dall'agire concreto e quotidiano per l'edificazione del bene comune della Nazione.
Giovanni Paolo II richiamava i parlamentari e gli uomini di Stato ad ispirare la loro azione ai valori fondamentali dell'uomo e dell'umanità, quegli stessi valori che i Costituenti hanno riconosciuto e trasfuso, quali principi fondamentali, nella nostra Carta costituzionale, i valori che fondano la fede cristiana, che ispirano l'alto magistero degli uomini di Chiesa e che formano l'intima identità della Nazione italiana e dell'Europa.
Solo il rinnovato ancoraggio a questi valori fondamentali può condurre ad una rifondazione dello spirito pubblico, ad una nuova dimensione partecipativa, capace di rinsaldare il rapporto tra i cittadini e le Istituzioni.