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Il Presidente: Intervento in Assemblea

Possiamo costruire un'Europa unita e senza un'identità antiamericana

Corriere della Sera

(f de b.) «Sorpreso e talvolta anche sconcertato». Da che cosa, presidente? «Dalla qualità, poverissima, del dibatti­to italiano sulla guerra, mentre la politi­ca e la diplomazia internazionale già si occupano del dopo Saddam». Marcello Pera, 60 anni, da due seconda carica dello Stato, è un tenace, seppur paca­to, sì-sì. Sì alle ragioni del conflitto in Iraq, sì all'America. Nel discorrere con un no-sì (no alla guerra, sì agli Stati Uniti), Pera ne ha per tutti. «Troppe fu­ghe in avanti e indietro. Fuga nell'ideo­logia ("la pace senza se e senza ma"). Fuga dalle responsabilità ("né con Bu-sh né con Saddam"). Fuga dall'atlanti­smo ("l'America imperialista in guerra per il petrolio"). Fuga nel diritto ("i pa­rà di Vicenza non possono partire, non possono tornare, possono tornare solo per curarsi, eccetera")».

Ma, presidente, la posizione del go­verno italiano è stata chiara e inappun­tabile? «Direi di sì. Una ferma scelta di campo; stiamo con gli anglo-americani e la coalizione di molti altri Paesi. Inol­tre si è scelta la non partecipazione atti­va, una posizione prudente, credo do­vuta alla giusta preoccupazione del go­verno di non mandare in frantumi l'Eu­ropa alla vigilia del proprio turno di pre­sidenza». Sembra di capire che lei avrebbe voluto un impegno più diretta nel conflitto? «No, date le circostanze, l'impegno a me è sembrato adeguato anche se talvolta la voce del governo è apparsa flebile. Adesso comunque dob­biamo augurarci che Saddam cada al più presto e anche l'Italia deve pensare alla ricostruzione democratica del­l'Iraq e ai nuovi equilibri internaziona­li». Ma in che modo, dopo aver rotto il tradizionale rapporto con Francia e Germania e aver firmato il famoso do­cumento degli otto favorevoli alla linea Bush? «Credo che tutti debbano fare un passo verso gli altri; lo ha fatto ve­nendo a Roma il francese Villepin; lo ha fatto il britannico Straw segnalando la preoccupazione di Blair sul futuro del-l'Onu; lo ha fatto Powell con il suo viag­gio in Europa. E il ministro Frattini si sta spendendo molto».

Pera intravvede per l'Italia una responsabilità immediata: «Dobbiamo ricomporre le divisioni dell'Europa e accelerare l'unificazione politica, con una identità non antiamericana. Fino a poco tempo fa la nostra politica estera era imposta dal muro di Berlino e quella di difesa era garantita dall'America e pagata dai suoi contribuen­ti. Oggi non è pìù così». Un ruolo quello di pontieri e me­diatori del dopoguerra che secondo Pera gli italiani pos­sono svolgere meglio di altri. «Abbiamo una grande tradizione atlantica, a partire da De Gasperi, siamo tra i soci fondatori dell'Europa. E possiamo con­tribuire anche al rilancio o alla rifonda­zione degli organismi multilaterali, co­me l'Onu e la Nato, facendo in modo che l'America non sia tentata troppo dalrunilateralismo»,

La bandiera dell'Europa che verrà, nota ancora il presidente del Senato, non potrà essere però quella della pa­ce che sventola in questi giorni in mol­ti balconi. Perché è così duro con il pacifismo, presidente?

«Guardi io ho sessant'anni e non ho conosciuto la guerra. Mi sono accorto di aver pensa­to per tanto tempo che la pace fosse una sorta di dirit­to naturale. Lo pensano in buona fede molti giovani. Ma non è così. Mio padre e mio nonno avrebbero ragio­nato diversamente. La pace è un valore che costa caro, a volte carissimo. E se è un va­lore assoluto, come dicono i pacifisti, allora bisogna esse­re disposti a pagare anche prezzi molto alti».

I suoi senatori a vita, Scalfaro, Cossiga, Andreotti, hanno un'opinione diversa, però.

«Sì, e non posso negare di provare ascoltandoli una certa amarezza, ma ho rispetto per le ragioni, peraltro tra loro differenti, con le quali hanno motivato il loro no alla guerra».

Chiedo al liberale Pera se abbia sen­so, parlando già del dopoguerra, espor­tare la democrazia presso popoli che magari liberamente sceglierebbero gli stessi integralisti islamici nemici del­l'Occidente.

«Io non userei il verbo esportare, meglio dire creare le condi-' zioni perché si sviluppi una democra­zia, affinché un popolo sia artefice del proprio destino. Ciò del resto è già acca­duto dopo la Seconda guerra mondiale in Giappone e persino in Europa. Ed è stato innegabilmente un bene».

Un filosofo del diritto austriaco a lei caro, Hans Kelsen, scriveva però che rara­mente fare la guerra è «la sanzione giu­sta del torto subito», tanto meno una guerra preventiva, aggiungerei.

«Non sempre è vero. Se avesse prevalso il pa­cifismo del '39, quanto a lungo la Ger­mania sarebbe rimasta nazi­sta, l'Italia fascista e la Fran­cia collaborazionista?».

In questi giorni abbiamo visto molte immagini di mor­ti civili. C'è un limite morale oltre il quale il sacrificio di persone comunque innocen­ti non giustifica il persegui­mento di un fine giusto?

«Io credo che gli americani e gli inglesi adottino tutte le pre­cauzioni possibili, anche per­ché l'opinione pubblica in­ternazionale, non solo la lo­ro, su questo punto è giustamente sensibile. Molto dipende anche da come il dittatore e il regime si difendono, usando per esempio i civili come scudi umani, nascondendo armi e obiettivi militari fra le case».

Una democrazia in guerra segue delle «regole d'in­gaggio» etiche che sono tra i valori essenziali dell'Occidente liberale. Usare per esempio le cluster bombs, le bombe a grappolo, non appare a molti osserva­tori leale.

«Condivido, le democrazie si danno delle regole e le seguono, anche in guerra, le dittature sanguinarie co­me quella irachena non si fanno il mini­mo scrupolo. Ma a proposito di regole è evidente che l'equilibrio fra sicurezza e libertà, tra difesa e garanzie, è stato scosso da quello che è accaduto 1'11 set­tembre con l'attacco proditorio di un nemico terrorista invisibile. Faccio fati­ca come liberale ad accettare la logica dei prigionieri di Guantanamo, ma os­servo che anche noi davanti alla minac­cia delle Brigate rosse in Italia non esi­tammo ad adottare una legislazione speciale».

E la guerra preventiva che fondamen­to giuridico e morale può avere?

«Il di­ritto di uno Stato a difendersi da un pe­ricolo nuovo, devastante e incomben­te. L'Onu nacque con 50 Stati, 15 mem­bri del Consiglio di sicurezza di cui cin­que grandi con diritto di veto, quando il pericolo era una guerra fra nazioni o tra blocchi. Oggi i membri sono più di 190, sono nati nuove potenze e organi­smi sovranazionali come l'Unione euro­pea. Non c'è più la guerra fredda, ma c'è una minaccia nuova, il terrorismo con armi di distruzione di massa, che non è uno Stato ma può essere appog­giato, finanziato o semplicemente tolle­rato da più Stati. La differenza è tutta qui. E la dottrina della guerra preventiva, che piace poco anche a me, nasce da questo dato di fatto».

L'atteggiamento della Chiesa, del Pa­pa, così determinato, duro: «la guerra è un crimine contro l'umanità»?

«Rispet­to le ragioni morali e spirituali della Chiesa, ma mi limito a dire sommessa­mente che anche il Papa è attento alle contingenze storiche. Nel '91 il suo no non fu così netto. E ancor meno netto fu per il Kosovo, in quella che, in viola­zione delle regole dell'Onu e della Na­to, fu definita una guerra umanitaria: un ossimoro, una contraddizione in termini inaccettabile per molti pacifisti, anche cattolici. Oggi capisco e apprez­zo che il Vaticano voglia evi­tare guerre di religione e con­trapposizioni forti con altre fedi. E' anche la mia preoc­cupazione».

Sul televisore dello studio del presidente del Senato scorrono confuse le immagi­ni di guerra di questi giorni. Crude e angoscianti. Certo presidente, noi tutti do­vremmo chiederci dove era­vamo quando Saddam gasa­va i suoi nemici, uccideva gli oppositori, cacciava gli ispettori dell'Onu. Dov'era allora l'Occidente liberale? Pera richia­ma l'insegnamento del vescovo irlan­dese George Berkeley: l'essere è quello che si vede e si percepisce «e noi per molti anni non abbiamo visto, purtrop­po, nulla. Non è una buona ragione per continuare a farlo».