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Il Presidente: Intervento in Assemblea

Pera: ormai vedeva l'azienda fuori dal tunnel

La Stampa

L'ultimo incontro risale a tre mesi fa, a Palazzo Madama. «Umberto Agnelli mi era venuto a trovare e avevamo parlato a lungo, soprattutto della situazione della Fiat. Mi aveva raccontato i progres­si dell'azienda in quell'anno diffici­le. Mi aveva spiegato che vedeva l'uscita dal tunnel vicina». Marcel­lo Pera aveva stabilito con il presi­dente del gruppo del Lingotto un rapporto che presto è andato oltre la formalità istituzionale per appro­dare a qualcosa di molto vicino a una «affettuosa sintonia». Una sin­tonia fatta anche di «periodiche telefonate, fino alla fine».

Presidente Pera, quando è sta­to l'ultimo suo incontro con Umberto Agnelli?

«È successo direi tre mesi fa, a Palazzo Madama, dopo un periodo in cui i nostri legami si erano fatti più stretti. Avevamo familiarizzato assai, Umberto era un uomo con il quale scoprivo ogni giorno maggio­re sintonia. Ci siamo incontrati tan­te volte, ricordo per esempio una cena simpatica l'anno scorso, al Praemium imperiale, anche con le rispettive mogli. Era un uomo col quale si poteva parlare di tutto».

L'ultima volta che l'ha visto le è sembrato più fiducioso rispetto a un anno fa sulle sorti dell'azienda che guida­va?

«Mi disse che vedeva la fine del tunnel ormai prossima. Disse che a quell'ottimismo lo autorizzavano i primi risultati del lavoro di Mor-chio. Io gli ricordai qual era stato un po' il suo destino: lui non era l'uomo della Fiat ma l'uomo della finanza, e invece proprio a lui era toccato il compito industriale più difficile. Si era assunto questa missione dimo­strando grande coraggio, innanzi­tutto, e senso di responsabilità. Forse in quel progetto, anni prima, non aveva completamente creduto. Di certo quando è servito ci si è dedicato con tutta la sua competen­za».

Un anno fa eravate andati insieme a Camporlecchio, Sie­na, assieme a D'Alema che lanciava un suo think tank. In quell'occasione Umberto Agnelli aveva espresso un desi­derio: che i poli la smettessero di farsi la guerra. Auspicava un'Italia meno conflittuale e lacerata. Un suo tema, no?

«Quella volta Umberto parlò di due cose. La prima è che non capiva un Paese in guerra politica perenne, e si rifiutava di stare da una parte o dall'altra di questa polemica che c'era allora e c'è purtroppo ancora oggi. La seconda è che Umberto aveva compreso i problemi e la sfida della modernità. In questo era d'accordo con il discorso tenuto dalfratello Gianni in Senato sulla globalizzazione. Ecco, credo che in que­sta sfida modernizzatrice, anche al timone dell'azienda, avesse riversa­to tutta la sua filosofia».

Parlavate di Europa e Usa? Quel giorno Agnelli disse che il problema della leadership «è un dibattito che si pone in tutte le grandi capitali, com­presa quella americana», ma aggiunse anche che gli Stati Uniti «non vogliono essere più i soli gendarmi del mondo».

«L'Europa per lui era un processo irreversibile, e l'integrazione una battaglia da vincere senza tentennamenti. Quanto agli Usa, certo avver­tiva che le responsabilità del coman­do globale devono essere condivise. Ma è sempre rimasto un uomo profondamente e fondamentalmen­te americano».

Come suo fratello Gianni, dal quale peraltro lo separavano altri tratti. In che cosa si asso­migliavano, e in cosa le sono sembrati diversi?

«Forse in Umberto si coglieva una maggiore spontaneità e una minore timidezza. L'Avvocato era più timi­do e al tempo stesso più riservato. Ma su questo può anche pesare la familiarità che si era stabilità con Umberto, con il quale era piacevole discutere di tutto, anche di arte. Quella sera a Roma restammo a chiacchierare a lungo di scultura moderna: ne trattava da esperto, come se stesse discutendo della struttura di una holding»