Donne uccise dagli uomini: i numeri di una strage. Dove sbagliamo?
Discorso del Presidente Casellati al convegno promosso dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere
Buongiorno a tutti.
Ho accolto con piacere l'invito a partecipare a questo importante appuntamento promosso dalla Commissione di inchiesta del Senato sui femminicidi e su ogni altra forma di violenza di genere.
Saluto il Presidente dell'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa, i Parlamentari, i rappresentanti istituzionali e delle associazioni di settore.
Consentitemi, in apertura del mio intervento, di ringraziare la Presidente Valente e i componenti della Commissione per il prezioso lavoro che stanno svolgendo in questa Legislatura.
Un impegno a cui, come Presidente del Senato, assicurerò sempre il mio appoggio e il mio pieno sostegno.
E questo nella convinzione che quella che ci unisce anche oggi - alla vigilia della giornata internazionale contro la violenza sulle donne - è una battaglia di libertà, giustizia e civiltà che non possiamo permetterci di perdere.
Una battaglia da affrontare insieme in difesa di ogni donna costretta a vivere inaccettabili condizioni di paura, pericolo, solitudine o vergogna. A tutela delle famiglie.
A presidio di decenni di lotte contro disuguaglianze e discriminazioni e di conquiste sul piano dei diritti.
Perché i femminicidi non sono omicidi qualsiasi: sono donne uccise in quanto donne, vittime di una violenza che si nutre di ignoranza, pregiudizi e omertà.
La violenza di genere è probabilmente il tema di cui mi sono occupata di più in tanti anni di attività professionale, impegno politico e al servizio delle Istituzioni.
Come avvocato ho assistito molte donne che hanno avuto la forza di alzare la testa e di ribellarsi alle violenze ammirandone il coraggio.
Da Senatrice, l'ho fatto con iniziative legislative che ho sostenuto - ci tengo a sottolinearlo - in un contesto di forte condivisione con tutte le forze politiche.
Me ne sono occupata attivamente da Sottosegretario di Stato - prima alla sanità e poi alla giustizia - e quindi come membro del Consiglio Superiore della Magistratura.
Esperienze che mi hanno permesso di toccare con mano il lavoro di tanti magistrati, avvocati, rappresentanti delle forze dell'ordine, delle istituzioni e della società quotidianamente impegnati a fronteggiare questo fenomeno.
Un lavoro non facile, come del resto ci conferma anche la relazione della Commissione sulla risposta giudiziaria ai femminicidi negli anni 2017 e 2018 che oggi viene presentata.
Un documento che oltre ad essere un importante strumento di approfondimento sull'efficacia delle misure di contrasto alle violenze di genere, ci consente soprattutto di riflettere sul loro reale impatto in chiave preventiva e sulle falle che ancora persistono nella rete delle tutele e delle misure di protezione.
Certo le leggi si possono sempre migliorare.
Ed è auspicabile, in tale prospettiva, anche un più efficace coordinamento legislativo nella cornice degli obiettivi programmatici della Convenzione di Istanbul.
Occorre però essere consapevoli che le leggi da sole non bastano se prima non cambiano le menti.
Perché, come questa relazione ci ricorda, i femminicidi non sono quasi mai delitti d'impeto, ma l'apice di un'escalation di violenze, prevaricazioni e soprusi che troppo spesso vengono ignorati, sottovalutati o - peggio - non denunciati.
Ed è questa la principale debolezza del sistema.
Una debolezza che possiamo sanare solo intervenendo sul piano sociale e culturale prima ancora che su quello normativo.
Altrimenti continueranno a prevalere paura e solitudine.
Continueranno a vincere vergogna e timore del giudizio sociale e la violenza di genere continuerà ad essere in molti casi un nemico invisibile che riusciremo a intercettare solo quando ormai sarà troppo tardi.
Se le donne non denunciano i loro aggressori perché non hanno fiducia in una tempestiva risposta di protezione da parte delle Istituzioni e della società, è necessario porvi rimedio.
E questo significa mettere tutti i soggetti istituzionali coinvolti - a partire dagli organi di polizia, dalla magistratura e dagli operatori sociosanitari - nella condizione di riconoscere la violenza di genere in ogni sua forma, sin dai primi segnali; di non sottovalutare la pericolosità e la gravità dei reati in cui si può manifestare e di attivarsi rapidamente ed efficacemente.
Ma significa anche lavorare con ostinata determinazione sul piano della comunicazione chiamando in causa il ruolo insostituibile degli organi di informazione e della stampa in particolare.
Perché non mi stancherò mai di ripetere che femminicidi e storie di violenze di genere vanno raccontate sempre con le giuste parole, senza cadere nell'errore di usare termini come "amore malato" o "delitto passionale".
Questi sono inferni personali che nulla hanno a che vedere con la passione, con l'amore o con qualunque altro sentimento.
Ma ancora più importante è raccontare le storie che si risolvono positivamente - che sono sempre di più - e dare voce alle testimonianze delle donne che hanno detto "NO" e si sono ribellate alle violenze, salvando se stesse e i loro figli, perché siano di esempio e infondano coraggio.
Soprattutto, è necessario portare il tema della violenza di genere nelle scuole e all'interno di ogni contesto educativo; promuovere occasioni di dialogo, confronto e riflessione come questo e mettere in campo ogni idea, iniziativa o progetto perché nessuno si volti più dall'altra parte pensando che la violenza sulle donne non sia un suo problema.
Perché non è così.
E' un problema di tutti.
Questo vuol dire cambiare le menti: costruire una consapevolezza collettiva fondata sulla solidarietà reciproca, sulla tutela della dignità e sull'inviolabilità della vita umana.
Un obiettivo di cui ciascuno di noi - ognuno per la sua parte - deve farsi carico se davvero vogliamo garantire a ogni donna vittima di violenza una reale alternativa, una concreta speranza e il diritto a una vita nuova.
Una vita libera dal pregiudizio, dalla paura e dalla sofferenza.
Grazie a tutti.