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Il Presidente: Intervento in Assemblea

Commemorazione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

Discorso pronunciato a Palermo in occasione del 15° anniversario della strage di Capaci

Autorità, care ragazze, cari ragazzi,
sono particolarmente lieto di essere qui. Per questo ringrazio la presidente della Fondazione "Giovanni e Francesca Falcone", la professoressa Maria Falcone, per l'invito che mi è stato rivolto. Un sincero apprezzamento anche al Ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni per l'impegno a sostegno dei progetti e delle iniziative della Fondazione.

Oggi ci troviamo qui per ricordare, per fare memoria nel 15° anniversario della strage di Capaci. Ma il nostro intento è anche quello di dare alla memoria un'opportunità di costruire una nuova e più solida realtà per l'oggi e per il domani.
Questo del resto è il senso del passaggio delle generazioni: esplorare e meditare, trarre dall'esperienza, anche la più amara, la forza di andare avanti e migliorare le relazioni fra gli uomini, la sfera del pubblico, ciò che chiamiamo, forse troppo superficialmente: politica.

Del resto le parole che usiamo rischiano di essere usurate, logorate dall'assuefazione e smentite dai comportamenti che i giovani hanno sotto gli occhi.
Tutto ciò alimenta una certa difficoltà nel sentirsi parte di un progetto comunitario e una tendenza a lasciare il campo o meglio a lavorare solo nell'impegno diretto, d'assistenza, di volontariato.

Eppure senza i giovani, senza un grande patto culturale e politico con le generazioni che entrano nella vita pubblica noi non possiamo rinnovare la nostra democrazia, renderla più giusta, più attenta, più intelligente.
Abbiamo quindi bisogno di esempi. E per questo gli uomini che con il loro coraggio, la loro professionalità, la loro serietà hanno illustrato la nostra comunità, fino al sacrificio della vita, ci fanno da guida in questo percorso che dobbiamo svolgere insieme, come Paese, come popolo, come italiani delle diverse regioni, portandovi ognuno un contributo e tutti la nostra ricchezza.

Uomini delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno dato la loro vita perché la nostra convivenza fosse libera dalla mafia e sicura nei suoi fondamenti di libertà. Hanno vissuto e lavorato per la giustizia che era il loro particolare "mestiere", la loro professione e che divenne sacrificio e missione fino alla morte violenta.
Ma non sono state sradicate le loro idee che vivono nella coscienza civile e nel lavoro di tanti altri, donne ed uomini che, grazie anche alla loro testimonianza, scelgono quotidianamente di opporsi alla prepotenza, alla sopraffazione, alla negazione dell'ordine legittimo.

Per chi rappresenta le istituzioni libere e sovrane del nostro Paese, guardare alla loro vita ed ispirarsi al loro esempio, è esercizio doveroso e utile. Serve a ricordarci le ragioni per le quali abbiamo chiesto un mandato popolare; ragioni che non devono mai ridursi alla semplice carriera personale.
Si tratta di fare della memoria degli eventi e delle persone un fattore di trasformazione delle nostre vite e dei nostri comportamenti.

Come sempre accade, quando un'esperienza umana è vitale, essa incide sugli altri, incontra il profondo della vita e ne modifica il corso.A questo servono gli anniversari.
Non solo a curare la tristezza di coloro che hanno amato le persone scomparse, nè a farne un monumento distante proprio mentre lo si celebra. Ma a ricordarci che cosa significa essere servitori dello Stato e titolari di un potere che è anche una responsabilità. Un potere che è dato dalla legge per garantire sviluppo pacifico, sicurezza e benessere della società.
Essere uomini delle istituzioni significa dunque affermare nella prassi il primato della casa comune, della Costituzione Repubblicana, anch'essa frutto di sacrifici e di eroiche rinunce alla libertà individuale per una libertà più alta ed una più sicura convivenza.

Abbiamo festeggiato un mese fa la Liberazione del nostro Paese dalla dittatura e dall'orrore della guerra. In quell'occasione, all'altare della Patria, il Capo dello Stato ci ha ricordato quanto quest'evento tuttora vitale abbia comportato in termini di rinascita spirituale, materiale ed economica del nostro Paese.
Quel giorno, il 25 aprile del '45, furono poste le premesse per la ricostruzione, per la Repubblica, per la Costituzione E tutte queste opzioni si riassumono nella promessa solenne di non tornare mai più sotto il tallone di un potere non controllabile, di ristrette oligarchie che sopprimono la libertà di coloro che non si uniformano, della mancanza di fiducia, di libertà, di diritti fondamentali come quello alla proprietà, alla parola, alla critica.

La mafia è la negazione di questi valori. Per sua intrinseca natura, come ci hanno spiegato proprio coloro che oggi ricordiamo, considera gli uomini come oggetti di sfruttamento, li asservisce ai propri interessi, li domina e li soffoca.
Combatterla perciò, ovunque essa si annidi e soprattutto nella sua ricchezza e nella paura che è il principio che la perpetua, significa affermare la legalità repubblicana, lottare per la libertà, lavorare per la giustizia.

Uomini con un grande senso della giustizia e della sovranità dello Stato non potevano che battersi, con gli strumenti che la Costituzione e la legge davano loro, per ridurre il potere mafioso e far vincere la legalità repubblicana.
Lo disse con grande semplicità proprio Giovanni Falcone a chi gli chiedeva se valesse la pena di lottare per questo Stato. Rispose che questo è l'unico Stato che abbiamo e lo si può migliorare solo se lo si difende, lo si può cambiare e correggere proprio perché lo si riconduce costantemente alla sua natura di stato democratico, libero ed indipendente da ogni altro potere.

Credo che si possa dire di questi uomini che ad essi, in un momento delicatissimo, fu affidato e spesso senza la necessaria convinzione e sicuramente senza i mezzi adeguati, il compito di resistere rispetto ad una infiltrazione che minaccia sempre di corrompere i fondamenti della nostra vita comunitaria.
Un'infiltrazione che per troppo tempo è stata sottovalutata, magari per ignoranza e molte volte per convenienza.

Vorrei dire a voi ragazzi che nessuno che sia veramente nobile, vuol morire. Che la vita è amabile e val la pena di essere vissuta, specialmente da coloro che la sentono come un dovere e una ricchezza.
A questa schiera appartenevano certamente Falcone e Borsellino, dichiarati ufficialmente eroi, come tanti altri che in questa bellissima e sfortunata città hanno pagato con la vita la loro fedeltà e la loro onestà.

I giusti, a differenza degli esaltati che hanno sempre bisogno di eventi eclatanti per sentirsi vivi, vorrebbero che non accadesse mai niente di straordinario, che la vita scorresse nella sua seducente normalità quotidiana, senza mai essere messi nella necessità di comportarsi da eroi. Ma, con il loro forte sentire, sanno pure che la vita è pienamente godibile solo se illuminata da un significato superiore che, in sciagurate e deprecabili circostanze, può esigere di sacrificarla per non perderne il senso e dunque per non perderla.
Avvisati, minacciati, nel mezzo di un terrore crescente dopo avvenimenti che essi avevano compreso in tutta la loro portata, non arretrarono, non mollarono l'impegno, pur consapevoli del costo che questo loro coraggio avrebbe comportato.

Ebbero, umanissimamente, il sentimento della loro fragilità e spesso anche quello di una solitudine insopportabile. Tuttavia per loro il diritto e lo Stato furono ragioni sufficienti per continuare ad indagare, a proporre soluzioni spesso contrastate, a combattere una battaglia che non avevano per niente la certezza che potesse essere vinta in quella fase storica.
Erano sicuri che alla fine lo Stato avrebbe prevalso ma niente affatto certi che lo Stato non avrebbe potuto perdere altre terribili battaglie. E che in quelle battaglie essi avrebbero potuto perdere la vita.

Ci vuole un grande senso della propria dignità per affrontare momenti così tragici. Per continuare a credere nella superiorità dello stato democratico nonostante le sue imperfezioni, le sue fragilità, le sue compromissioni.
Questo è il messaggio che a noi tutti viene consegnato.
Lo Stato è nella sua essenza più schietta, un compito che c'è stato affidato.
Nessuno può disinteressarsene, allegando come giustificazione le complessità, i difetti evidenti, le promesse non mantenute. Non si può dire mai: né con lo Stato né con la mafia. Come non si poté dire, anche quando costava la vita di un uomo grande e per certi aspetti indispensabile come Moro: né con lo Stato né con le Brigate Rosse.
Perché questo cedimento è già l'inizio della fine dell'avventura umana di costruire un ordine democratico. Se lo Stato appare come una macchina, un'oligarchia, un complesso di apparati e funzioni senza senso e spesso senza ragione, allora la sua vita comincia a declinare.
Lo spirito pubblico si allenta, il principio della democrazia cessa di essere la virtù come ci ha insegnato Montesquieu e subentra l'indifferenza, l'apatia, la paura. Che sono i presupposti dell'abbandono e della rinuncia, del prevalere di coloro che nello Stato vedono solo un modo per soddisfare le loro ambizioni o uno strumento da piegare ai loro interessi.

L'unico modo per evitare questo decadimento è prendere esempio da chi ha pensato che lo Stato siamo noi e che ognuno è chiamato a dare e a fare perché lo Stato sia forte, serio e credibile. Rigoroso con coloro che lo contrastano, affabile con i cittadini rispettosi, efficiente e limpido, accogliente con chi viene da noi in cerca di pane e lavoro.
In questo modo di pensare si erano formate le persone che sentiamo vicine oggi più che mai: che le loro idee ed i loro valori camminino sulle gambe di tutti noi, di ciascuno di noi, del popolo per il quale essi prestarono la loro azione.

Per finire occorre dare una risposta alla domanda che soprattutto dai giovani ci viene proposta: come dare alla democrazia, che è pur sempre una procedura per la scelta dei governanti, una forza d'attrazione permanente.
Nel suo testamento spirituale, il nostro più grande studioso della politica, Norberto Bobbio ci ha ricordato, ed ha ricordato ai giovani, che i capisaldi della democrazia contemporanea sono il frutto di grandi lotte ideali degli ultimi trecento anni. La tolleranza, ancora così essenziale in un mondo globale in cui si spostano milioni di persone di fedi, culture, abitudini diverse. Tolleranza che non significa apatia, indifferenza, relativismo, ma dialogo, accettazione dell'altro, comprensione e persuasione, nella ricerca della pace.

In secondo luogo la non violenza. Il cambiamento dei governi senza spargimento di sangue. Nemmeno di quel sangue simbolico cui spesso la polemica politica fa inutilmente ricorso.
Solo dove vigono sul serio le regole della democrazia, l'opponente è un avversario che domani potrà prendere il nostro posto e non un nemico da sopprimere a tutti i costi.

Terzo, l'ideale del rinnovamento graduale della società, della trasformazione attraverso riforme che possono liberamente affermarsi in società non poste tutte sotto la direzione di una sola regia, ma pluraliste e pluricentriche. Basti pensare al rapporto tra i sessi, ai nuovi lavori, alla disponibilità all'ascolto ed alla cura degli altri a scala internazionale. O al costruirsi di nuove sovranità più larghe come l'Europa in nome delle libertà e della pace.

Ed infine la fratellanza come criterio guida della convivenza, che significa solidarietà non solo tra persone ma tra popoli e aree geografiche. Che significa impegno per lo sviluppo di chi è rimasto indietro, per dare a tutti opportunità di lavoro e di vita, per dare dignità al lavoro ed all'impresa, per incoraggiare le persone a stabilire legami stabili e costruire assetti familiari e amicali che contribuiscano allo sviluppo comune.

Care ragazze, cari ragazzi,
l'appello sincero che mi sento di rivolgervi è: amate le istituzioni, amate la Repubblica. Nonostante le imperfezioni, nonostante le contraddizioni, nonostante gli errori e, spesso, l'inadeguatezza degli uomini in cui esse prendono forma e realtà.
Amatele non solo nel ricordo delle donne e degli uomini che come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e i tanti altri martiri di questa vostra terra hanno pagato con il prezzo più alto, la vita, la propria dedizione.
Amatele perché esse sono il fondamento del nostro stare insieme ordinato e giusto, rispettoso di ognuno e di tutti, garante della libertà, della possibilità di progresso.
Grazie.