Salone della Giustizia 2018
Discorso pronunciato alla 8a edizione del Salone della Giustizia a Roma
Signor Presidente, autorità, signore e signori presenti,
è con vero piacere che ho accolto l'invito degli organizzatori, degli amici del Salone della Giustizia, per questo intervento conclusivo dei vostri lavori. Sono stati tre giorni di incontri e dibattiti che, mettendo a confronto personalità di diversa formazione culturale e professionale, hanno certamente dato un contributo importante allo sviluppo dei temi più attuali legati alla giustizia e non solo.
Le sue conclusioni, caro Presidente, nel trarre il significato più profondo di questa edizione, confermano come, in questo settore in modo particolare, ci sia estremo bisogno di coltivare e valorizzare i luoghi di discussione.
Il tema che ha animato l'ultima sessione, e cioè il rapporto tra magistratura e media, è a me particolarmente caro, in quanto lo ritengo uno degli aspetti nodali da sciogliere per poter concentrare gli sforzi sul reale miglioramento della qualità del lavoro degli uffici giudiziari. Una considerazione che nasce dall'oggettiva rilevanza dell'argomento e, consentitemelo, dalla mia personale esperienza.
Da Sottosegretario alla Giustizia, da componente della Commissione Giustizia del Senato e, da ultimo, da componente del Consiglio Superiore della Magistratura, ho avuto infatti l'opportunità di approfondire e trattare tale questione da differenti angolazioni, tutte utili e complementari per avere un quadro il più possibile realistico. Non è un caso che ai vostri lavori, oltre al Presidente dell'ANM e ad una qualificata rappresentanza di giornalisti e comunicatori, abbiano partecipato le due figure apicali del CSM, il vice presidente Giovanni Legnini e il Presidente della Corte Suprema di Cassazione Giovanni Mammone, ai quali rivolgo un mio personale e sempre affettuoso saluto.
Entrando nel merito dei vostri lavori, non posso non ribadire che ogni volta che le indagini o i processi diventano oggetto di dibattiti sui quotidiani o in televisione, per le motivazioni più disparate, non si fa mai un buon servizio alla giustizia.
Per questo sono convinta che il rapporto tra gli uffici giudiziari ed il sistema dell'informazione sia non "uno" dei temi, ma "il tema" focale per quanto riguarda la qualità del servizio reso ai cittadini.
Troppo spesso la sovraesposizione, più o meno volontaria, ha prodotto un corto circuito in grado di autoalimentarsi, senza risparmiare persone terze che nulla avevano a che fare con le ipotesi criminali avanzate dagli uffici inquirenti.
E' in tal senso che plaudo all'indicazione fornita dal presidente Malinconico, e cioè alla implementazione degli sforzi, ovviamente anche di natura economica, nella direzione della criptazione dei fascicoli, probabilmente uno dei più efficaci strumenti per evitare l'inaccettabile - ma non per questo rara - fuga di notizie.
In questi anni alcuni significativi passi in avanti sono oggettivamente stati fatti. Sia in merito ad una maggiore razionalizzazione nella gestione delle trascrizioni e delle intercettazioni stesse, sia per quanto riguarda l'aspetto della diretta responsabilità dei Capi degli uffici.
Mi riferisco in particolare ad alcuni significativi interventi messi in campo anche direttamente dal CSM e che si rivolgono in maniera chiara a quei principi deontologici che non possono mai venir meno se vogliamo una giustizia efficiente ma attenta alla vita delle persone, efficace ma non scevra da un'etica evidentemente irrinunciabile.
Un altro elemento che non può essere sottovalutato, riguardo al rapporto tra magistratura e media, è quello che coinvolge il mancato rispetto del segreto istruttorio. Violarlo, significa da un lato ledere il diritto alla riservatezza di coloro che, venendo chiamati indirettamente in causa, sono a tutti gli effetti estranei alle ipotesi criminose e, dall'altro, mettere a repentaglio la stessa dinamica delle indagini o, quanto meno, il loro completamento. Non meno importante è, ovviamente, la possibile - e come sappiamo non rara - spettacolarizzazione della giustizia.
Una sorta di processo nel processo il cui esito, il più delle volte, finisce per essere contraddittorio. Il rischio è che all'opinione pubblica, dopo una soprabbondante dose di informazioni e immagini di tutti i tipi, interessi sempre meno la reale dinamica dei fatti, e sempre più ciò che appare come verosimile.
Quanti innocenti, già condannati dagli improvvisati tribunali mediatici non hanno più potuto riprendere la loro precedente vita?
E, al contrario, quanti condannati hanno potuto addirittura trarre giovamento dalla loro sovraesposizione, con tanto di inaccettabili ritorni economici?
Su questo il rischio concreto è che si passi da un eccesso all'altro.
Ritengo inaccettabile ad esempio il fatto che i magistrati possano dissertare sulle loro indagini o processi in corso, dando vita ad una sorta di auto-promozione del proprio operato. Così come ritengo altrettanto ingiusto pensare a forme più o meno generalizzate di bavagli, laddove si impedisca loro di esprimere idee anche sui casi in corso ma riguardanti i più generali temi delle regole, del diritto e della giustizia.
Consentire alle toghe di poter arricchire una discussione seria e costruttiva sulle storture e sulle criticità del sistema, è quindi un bene prezioso.
La garanzia costituzionale della libertà di espressione non può e non deve essere confusa con una visione che potremmo definire anarchica del proprio ruolo.
I magistrati, i primi giuristi per definizione, hanno fornito e debbono poter continuare a fornire al Paese idee, riflessioni, pareri. Devono farlo certamente al di fuori di qualsiasi inopportunità e devono farlo con la serietà e severità che il ruolo impone.
Un aspetto vicino, per certi versi sovrapponibile, è quello del rapporto tra la politica e la magistratura, con evidenti ripercussioni sulla questione della candidabilità dei magistrati e sulle modalità del loro rientro in ruolo nella fase successiva all'impegno politico o istituzionale.
Anche qui non sfuggono i principi costituzionali della libera partecipazione alle elezioni politiche, alle quali sarebbe impensabile non consentirla alle toghe.
Ma non può essere sottovalutato il rischio che proprio a seguito di una voluta e cercata sovraesposizione mediatica, il magistrato, nel frattempo diventato personaggio pubblico, finisca per utilizzare tale visibilità per accedere all'impegno diretto in politica, facendo venir meno il principio di terzietà.
Anche qui è bene ricordare che tanto è stato fatto ma, evidentemente, non basta. Anche perché, a mio personale avviso, la soluzione di queste problematiche potrebbe finalmente liberare il dibattito sull'efficientamento della giustizia da posizioni pregiudizialmente contrapposte, rimettendo nei giusti binari un percorso che deve puntare esclusivamente a garantire più diritti, in tempi più brevi, con le dovute modalità. In una parola: più giustizia.
Grazie a tutti