Riforme istituzionali e principi fondamentali della Costituzione
Lectio magistralis pronunciata al Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Ferrara
Buongiorno a tutti.
E' un piacere essere con voi oggi per condividere alcune considerazioni sul delicato tema delle riforme istituzionali.
La storia di questo prestigioso Ateneo e l'autorevolezza accademica degli interlocutori contribuisce senza dubbio a impreziosire questo nostro momento di approfondimento su questioni destinate a definire gli equilibri e l'assetto del nostro Paese.
Saluto il Magnifico Rettore, il Direttore del Dipartimento di Scienze Giuridiche, i componenti del Senato Accademico e il corpo docente.
Saluto inoltre tutto il personale amministrativo, gli studenti e le autorità presenti.
Affrontare il tema delle riforme istituzionali significa calarsi in un dibattito ultratrentennale in cui molto spesso le prospettive di ammodernamento della Costituzione si sono intrecciate con le vicende politiche contingenti.
Circostanza che ne ha inevitabilmente condizionato il percorso parlamentare o l'entrata in vigore.
Eppure il dibattito in materia continua ad essere di persistente attualità.
Ed è proprio alla luce di questo dibattito che il primo interrogativo da affrontare riguarda le ragioni storiche, giuridiche e politiche che sono alla base dell'esigenza rinnovatrice della seconda parte della Costituzione.
Un interrogativo che ci obbliga anzitutto a guardare alla Costituente e allo spirito che ne ha animato i lavori.
E guardare alla Costituente significa richiamare alla memoria un Paese che usciva lacerato dal secondo conflitto mondiale, provato dall'esperienza del fascismo.
Un Paese che attraverso il voto aveva espresso la propria preferenza per la Repubblica, ma che appariva ancora fragile nella tenuta del tessuto sociale e negli equilibri istituzionali.
Ecco perché in seno all'Assemblea costituente prevalse la volontà di modellare le istituzioni repubblicane in modo tale da prevenire e contrastare derive autoritarie o plebiscitarie.
Ecco perché la nostra architettura costituzionale si è fondata su un Presidente del Consiglio con compiti di coordinamento e di sintesi di un'attività di governo collegiale e non sulla figura di un Primo ministro o di un Cancelliere, come ad esempio avvenuto in Germania.
Ecco perché la necessità di instaurare il rapporto fiduciario con entrambe le Camere o di una figura come quella del Presidente della Repubblica chiamata a svolgere funzioni di garanzia e di controllo sugli altri organi costituzionali e sull'ordinamento giudiziario.
La necessità di assicurare la stabilità degli esecutivi e l'equilibrio nell'organizzazione dello Stato ha poi giustificato la decisione di mantenere un sistema parlamentare fondato sul bicameralismo.
Del pari, l'esigenza di garantire nel complesso la tenuta degli istituti di democrazia rappresentativa è stata alla base della scelta di contenere entro precisi limiti gli strumenti di democrazia partecipativa, quali l'iniziativa legislativa popolare e il ricorso al referendum.
Mentre nei primi decenni successivi all'approvazione della Costituzione gli sforzi comuni si sono concentrati sulla sua piena attuazione, è a partire dagli anni ottanta che comincia a prendere forma l'idea di una sua revisione.
E' evidente che le vicende storiche di quegli anni hanno profondamente influenzato questo processo.
Il crollo del muro di Berlino, la fine della guerra fredda, il processo di integrazione europeo, sono espressione di cambiamenti epocali dal punto di vista politico, sociale, culturale.
Cambiamenti che hanno ovviamente investito anche il nostro Paese, gli elettori, la classe politica, le istituzioni.
Occorre inoltre ricordare la crisi di rappresentanza dei partiti costituenti, legata anche alle vicende giudiziarie dei primi anni novanta, e gli effetti del referendum abrogativo che, nel 1993, ha portato all'abolizione del sistema elettorale proporzionale puro e all'approvazione di leggi elettorali a carattere prevalentemente maggioritario.
Dalle elezioni politiche del 1994, svolte con metodo maggioritario, è emerso, infatti, un sistema partitico completamente rinnovato, caratterizzato da un bipolarismo di coalizione che avrebbe assunto forma più definita nelle successive tornate elettorali.
Un nuovo modello di partecipazione politica che nell'esigenza di una revisione della Costituzione e dei suoi equilibri istituzionali, rinviene la via preferenziale per meglio integrarsi e rispondere alle esigenze della collettività.
Che sono poi l'esigenza di una maggiore stabilità degli esecutivi, di una più efficiente e rapida azione legislativa, di una più ampia responsabilizzazione delle Regioni e degli Enti locali, di una più diretta partecipazione degli elettori al processo democratico.
Abbiamo quindi assistito alla stagione delle commissioni bicamerali e, nel 2005 e nel 2016, alla elaborazione di riforme complessive dell'intero assetto istituzionale, approvate dal Parlamento e bocciate dai rispettivi referendum popolari.
Sia i progetti di riforma votati nelle passate legislature che quelli attualmente in atto, seppur con percorsi parlamentari e approcci metodologici e soluzioni differenti, si sono mossi nel perimetro del percorso di revisione fissato dall'articolo 138 della Costituzione.
Norma che pone il problema del rapporto tra potere costituente e potere di revisione costituzionale.
Come è stato autorevolmente osservato, infatti, "se si rimane all'interno di una concezione "legale" della revisione costituzionale come potere costituito e derivato dalla Costituzione, allora possono ammettersi anche estese revisioni del testo costituzionale, a condizione però che si preservi il nucleo fondamentale della Costituzione originale".
Ciò significa che travalicare questo limite porrebbe il Parlamento di fronte all'esercizio, inammissibile, di un potere che la Costituzione non gli riconosce.
Ed è proprio la Costituzione stessa ad indicare il confine entro il quale è possibile elaborarne una sua revisione.
L'articolo 139 fissa in modo esplicito il divieto di sottoporre a revisione costituzionale la forma repubblicana dello Stato.
Con questa espressione non si fa riferimento solo alla necessità di preservare il carattere elettivo della carica di Capo dello Stato.
Anzi, come ha più volte riconosciuto la Corte costituzionale, la non modificabilità della forma repubblicana implica l'intangibilità di tutti quei principi che "appartengono all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana".
L'individuazione di questi principi costituzionali ha di fatto introdotto, attraverso l'elaborazione del giudice delle leggi, una gerarchia materiale interna alle stesse norme di rango costituzionale.
Più in particolare, sono stati individuati quali principi fondamentali:
- la sovranità popolare,
- l'unicità e indivisibilità della Repubblica,
- il diritto alla tutela giurisdizionale in ogni stato e grado del giudizio,
- l'autonomia e l'indipendenza della magistratura,
- i diritti inviolabili dell'uomo e, tra questi, la libertà personale nelle sue differenti forme e modalità di manifestazione, dalla libertà di movimento e circolazione, alla segretezza della corrispondenza sino all'inviolabilità del domicilio.
Fissata l'intangibilità di questi valori, occorre quindi volgere lo sguardo alle proposte di riforma all'esame delle Camere.
A tale riguardo, è necessario preliminarmente evidenziare che l'esperienza degli anni passati sembrerebbe avere suggerito l'adozione di un approccio differente alla questione delle riforme.
L'adozione cioè di un metodo di lavoro parlamentare teso a modificare singoli istituti della Costituzione, piuttosto che pensarne una sua riforma organica.
Così è stato, ad esempio, per la legge costituzionale di riduzione del numero dei parlamentari, approvata in seconda deliberazione l'8 ottobre scorso.
Così è per il disegno di legge costituzionale in materia di iniziativa legislativa popolare e di referendum, già approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati e attualmente in corso di esame presso il Senato.
Come è noto, il provvedimento integra l'articolo 71 della Costituzione. Prevede infatti che una proposta di legge popolare, sottoscritta da almeno cinquecentomila elettori e non approvata dal Parlamento entro diciotto mesi dalla sua presentazione, possa essere sottoposta a referendum, eventualmente in alternativa con una diversa proposta di legge avanzata dalle Camere.
E ciò previo giudizio di ammissibilità della Corte costituzionale sulla ricorrenza di determinati presupposti.
Come comprenderete, il mio ruolo non mi consente di entrare nel merito di un dibattito che, in questo momento, è prerogativa assoluta delle assemblee parlamentari.
Ciò che tuttavia mi preme sottolineare è che la forza degli istituti di democrazia diretta risiede sicuramente nella loro capacità di offrire nuove possibilità di partecipazione, ascolto e coinvolgimento dei cittadini.
Opportunità indispensabili per scongiurare il rischio di procedimenti legislativi autoreferenziali o scollati dalla realtà, ma anche per ridurre il divario tra governanti e governati.
Ma occorre procedere con grande cautela e valutare con prudenza la piena compatibilità con i principi fondamentali della sovranità popolare e della democrazia rappresentativa.
Una democrazia che trova nel momento elettorale la fonte primaria della legittimazione degli organi detentori del potere politico.
E' necessario quindi non confondere l'urgenza di riformare con la fretta di una legislazione che, ove non adeguatamente ponderata, potrebbe invece favorire una logica di contrapposizione tra le istituzioni della rappresentanza e la fonte della democrazia diretta.
Vi è poi un'altra questione di particolare attualità che, pur senza mettere mano al dettato costituzionale, reca in sé i presupposti per caratterizzarsi come una significativa "innovazione" negli attuali equilibri istituzionali.
Mi riferisco, come immaginerete, al dibattito sulle forme di autonomia differenziata previste dall'articolo 116, terzo comma.
Questa disposizione consente infatti alle Regioni a statuto ordinario di acquisire forme e condizioni particolari di autonomia legislativa e amministrativa in una specifica serie di materie previste dalla Costituzione.
Attribuzione che può avvenire con una legge approvata dal Parlamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti e attraverso un procedimento che ha come momento cardine il raggiungimento di un'intesa - ovvero di un accordo - tra lo Stato e le Regioni.
Un iter complesso, i cui passaggi richiedono una riflessione approfondita sotto il profilo delle relazioni tra gli organi coinvolti.
Dare attuazione alle previsioni dell'articolo 116 della Costituzione rappresenterà infatti un momento di straordinaria importanza per l'assetto istituzionale del Paese.
Credo infatti che l'autonomia differenziata, così come prevista dalla Costituzione, debba essere valutata come una opportunità per garantire maggiori e migliori servizi ai cittadini.
Un'opportunità da cogliere, in ogni caso, salvaguardando il principio di sussidiarietà e continuando a garantire allo Stato centrale quelle attribuzioni che tradizionalmente afferiscono alla sua sovranità e all'esercizio del potere legislativo e del potere esecutivo nelle materie fondamentali.
In conclusione, proseguire sul cammino delle riforme per dare al nostro Paese istituzioni efficienti ma anche istituzioni capaci di rispecchiare i valori del pluralismo e del confronto democratico è un dovere comune.
Tuttavia, mettere mano alla Costituzione, anche solo per modificarne singoli aspetti, esige che ciò avvenga attraverso un dibattito che - al di là delle procedure formali previste - implichi il coinvolgimento concreto di tutte le forze politiche e un'apertura costante al dialogo con la società.
Perché la Costituzione è il patto fondativo della convivenza civile nei cui principi fondamentali tutti hanno il diritto di identificarsi e nei cui equilibri istituzionali ciascuno deve sentirsi garantito.
Grazie a tutti.