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Il Presidente: Intervento in Assemblea

Il sistema delle garanzie nel quadro dei principi costituzionali

La Lectio Magistralis del Presidente del Senato

Buongiorno a tutti.
Ho accolto con vero piacere l'invito di questo storico e prestigioso ateneo a condividere alcune considerazioni sul sistema delle garanzie nel nostro ordinamento costituzionale.
Si tratta, peraltro, di un tema cui ho sempre guardato con attenzione, per formazione professionale e, soprattutto, in relazione al mio percorso all'interno delle istituzioni, dal Parlamento al Ministero della giustizia, al Consiglio Superiore della Magistratura, alla Presidenza del Senato.
Saluto il Magnifico Rettore, il Direttore del Dipartimento di giurisprudenza, i componenti del Senato Accademico e il corpo docente.
Saluto inoltre il personale amministrativo, gli studenti e le autorità presenti.

Affrontare le articolate questioni legate al sistema delle garanzie significa partire dalla Costituzione e dagli epocali cambiamenti politici, sociali, culturali e - conseguentemente - giuridici in cui si sono svolti i lavori dell'Assemblea costituente.
Significa ricordare come, dopo la fine della seconda guerra mondiale e il crollo dei regimi totalitari, si sia andata rapidamente affermando una cultura giuridica fondata sul riconoscimento e la tutela dei diritti inviolabili dell'individuo.
Una cultura tesa a contrapporre le garanzie individuali, l'imputabilità, la certezza del diritto e la legalità della pena ad una impostazione politica precedentemente orientata alla difesa sociale e alla prevalente tutela degli interessi dello Stato.
Una cultura che ha ispirato i lavori dell'Assemblea costituente e da cui derivano le principali norme attinenti ai diritti dei singoli in rapporto alla giurisdizione.
Ecco quindi il riconoscimento del diritto di azione tra i principi supremi del nostro ordinamento costituzionale: perchè rende possibile ed effettiva la tutela giudiziaria mediante una norma di garanzia.
Una norma che il legislatore non può violare, né eludere.

Ecco quindi - a esplicazione del più generale principio di legalità - l'affermazione dei principi della precostituzione del giudice, della riserva di legge, della irretroattività della legge penale, della necessaria determinatezza delle fattispecie incriminatrici.
L'adesione dell'Italia alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali ha poi contribuito ad allargare il perimetro delle tutele introducendo, con l'articolo 6, il concetto di "equo processo" all'interno del nostro ordinamento.

Un concetto, un principio che progressivamente si è affermato nella giurisprudenza costituzionale e di merito, nel mondo accademico, nel dibattito politico.
Ed è grazie a questa sensibilità comune che si è potuti arrivare alla riforma del processo penale che, nel 1988, ha consentito di superare il codice Rocco per abbracciare un modello processuale basato sul rito accusatorio.
Soprattutto, è grazie a questa sensibilità che si è realizzata una larga condivisione parlamentare in occasione dell'approvazione, nel 1999, della legge di revisione dell'articolo 111 della Costituzione.
Non una semplice integrazione della sua formulazione originale, ma un'autentica rifondazione costituzionale del nostro diritto processuale.

E questo perchè il concetto del giusto processo integra un vero e proprio modello processuale che non si esaurisce nelle previsioni pur dettagliate dell'articolo 111, ma che informa di sé l'intero impianto della Costituzione. Un modello i cui elementi essenziali, più volte riassunti dalla Corte costituzionale, sono:
- il pieno rispetto del contradditorio;
- lo svolgimento di un'adeguata attività probatoria;
- la possibilità di avvalersi della difesa tecnica;
- la facoltà dell'impugnazione della decisione;
- l'attitudine del provvedimento conclusivo del giudizio ad acquisire stabilità.

In tale prospettiva, la formula del giusto processo costituisce una norma di apertura delle garanzie costituzionali che eleva al rango costituzionale valori condivisi dalla collettività.
Garanzie che devono essere riconosciute nel processo penale, ma anche nel processo civile, così come nel processo amministrativo e tributario.
Emerge, tuttavia, una sostanziale differenza tra il modello tracciato dall'articolo 111 e quello desumibile dall'articolo 6 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo.
Quest'ultimo, infatti, configura il giusto processo in chiave soggettiva: riconosce cioè un diritto dell'individuo al processo e tutela i suoi diritti all'interno del processo.
L'articolo 111, per contro, pone la tutela dei diritti individuali ad un altro livello: quello oggettivo della struttura ordinamentale del processo, cui affida la piena realizzazione delle garanzie costituzionali.
Una struttura la cui architrave si rinviene nel canone di indipendenza e imparzialità del giudicante e al conseguente il principio di parità delle parti processuali.

Un principio, quello di parità, che non può non portare a interrogarsi in ordine alla possibilità di giungere al riconoscimento costituzionale dell'avvocato, quale titolare della difesa tecnica nel processo.
Questo interrogativo si ricollega, peraltro, alla considerazione di come nel tempo la professione forense abbia acquisito una valenza irrinunciabile tanto sul piano dell'assistenza legale quanto - e soprattutto - sul fronte della sua stessa necessità sociale.
Per queste ragioni guardo con particolare attenzione al percorso parlamentare che sta per avviarsi - proprio in Senato - in relazione al disegno di legge di modifica integrativa dell'articolo 111 della Costituzione.
Si tratta, in verità, di costituzionalizzare principi già formalmente sanciti nella legge sulla professione forense che, nella mia precedente funzione di Sottosegretario di Stato alla giustizia, ho fortemente voluto e sostenuto.

Principi che trovano puntuale riscontro nel diritto internazionale e nella legislazione sovranazionale che riconoscono alla difesa tecnica una funzione imprescindibile per l'esplicazione del più generale diritto di difesa.
Principi richiamati inoltre dalla Corte costituzionale, che ha più volte evidenziato la rilevanza pubblica del ruolo dell'avvocatura anche in relazione all'articolo 24 della Costituzione e alla sua finalità essenziale di garantire a tutti la possibilità di agire in giudizio a tutela delle proprie ragioni.

Questa modifica dell'articolo 111 introdurrebbe peraltro in costituzione la possibilità per l'avvocato di esercitare la propria attività in posizione di libertà, autonomia e indipendenza. Condizioni imprescindibili per garantire proprio quella parità tra le parti coessenziale alla natura del giusto processo.
Acquisito quindi il perimetro delle garanzie analiticamente previste dalla Costituzione o comunque desumibili dal modello processuale definito dall'articolo 111, anche alla luce di sue possibili future integrazioni, questo nostro momento di riflessione non potrebbe dirsi completo se non si volgesse uno sguardo anche alla capacità di garantirne la loro attuazione sul piano sostanziale.
E sul piano sostanziale occorre prendere atto che, purtroppo, nessun ordinamento giuridico può dirsi perfetto o immune da errori o anomalie.
Errori che possono verificarsi anche indipendentemente dalla sussistenza di profili di responsabilità in capo a chi li commette o dalla presenza di garanzie formali a difesa dei diritti dei soggetti coinvolti.
Da questa prospettiva, dare attuazione alle garanzie costituzionali significa certamente consentire l'accesso a più gradi di giudizio o predisporre un'efficace disciplina per la revisione dei processi.
Così come vuol dire limitare il ricorso alle misure cautelari personali ai casi di assoluta necessità e alla presenza di rigorose condizioni procedimentali.
Ciò nonostante, i dati più diffusi ci dicono che dal 1992 ad oggi sono oltre ventiseimila - quasi mille all'anno - gli individui che hanno subito una illegittima detenzione prima di essere definitivamente assolti con sentenza passata in giudicato.

Numeri pesanti, che ci obbligano a una scrupolosa riflessione sulla efficacia degli strumenti normativi finora predisposti per tutelare il massimo rispetto del diritto alla libertà personale e per preservare il nostro sistema dal rischio di errori suscettibili di produrre conseguenze nefaste sulla vita degli imputati e delle loro famiglie.
Non dimentichiamolo mai: dietro a ogni singolo caso di errore giudiziario o di ingiusta detenzione vi è un dramma umano. Vi sono donne e uomini illegittimamente privati della propria libertà, della propria dignità; la cui vita affettiva, sociale e lavorativa è stata fortemente pregiudicata.
Ancora più allarmanti sono poi i dati relativi alla durata dei processi.
Secondo gli ultimi monitoraggi sullo stato delle pendenze penali, pubblicati dal Ministero della giustizia, circa il 20% dei procedimenti incardinati nei Tribunali e oltre il 40% di quelli presso le corti di appello sarebbe infatti a rischio di legge Pinto.
E qui l'anomalia è ancora più grave, perchè non coinvolge solo i diritti dell'imputato. Anzi, il mancato rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo nuoce soprattutto alle aspettative e ai diritti parti offese.
Vittime del reato tanto quanto di un sistema giudiziario incapace di dare una risposta rapida alla loro legittima domanda di giustizia.

Certo, la costituzione e le leggi ordinarie riconoscono e assicurano tutele risarcitorie.
Ma dobbiamo essere consapevoli che dare attuazione alle garanzie costituzionali, riconoscerle come diritti inviolabili degli individui, significa prima di tutto assicurarne la loro piena efficacia.
Questa è la direzione in cui bisogna guardare: quella di una piena condivisione delle problematiche della giustizia e di un confronto collaborativo sulle possibili soluzioni per porvi rimedio.
Senza questa fondamentale azione comune, l'efficienza del sistema giudiziario, e con essa l'efficacia delle garanzie costituzionali, diventano traguardi illusori o comunque troppo lontani.