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Il Presidente: Discorsi

Forum Ambrosetti settembre 2018

Discorso pronunciato nella giornata conclusiva del Forum

Signore e signori buongiorno,

è con vero piacere che ho accolto l'invito ad aprire i lavori della giornata conclusiva del Forum, un appuntamento diventato negli anni un vero e proprio punto di riferimento per confrontare le valutazioni di operatori economici e istituzionali sull'andamento dell'economia globale e non solo. Per questo intendo preliminarmente congratularmi con il dott. De Molli e tutta la sua struttura per l'organizzazione. Saluto il direttore Fontana che condurrà i lavori di questa sessione dedicata appunto alle prospettive dell'Italia nel contesto globale.

E allora è proprio da questo aspetto che intendo avviare la mia riflessione.

Sono Presidente del Senato da meno di sei mesi, un tempo forse troppo breve per poter fare una analisi dell'impatto delle proposte e delle iniziative parlamentari messe in cantiere in questo avvio di legislatura, ma sufficiente per poter riportare qui oggi alcune personali riflessioni sul ruolo e sulla considerazione di cui l'Italia gode a livello internazionale.

Credo di poterlo fare, anche sulla base di una esperienza diretta, sia nelle missioni internazionali che ho già potuto svolgere, sia a fronte di decine e decine di rappresentanti diplomatici e operatori stranieri che ho incontrato e con i quali mi sono confrontata.

È alla luce di questo che mi sono più volte soffermata su un aspetto che è a mio avviso non secondario: il fatto che all'estero, a tutti i livelli, l'Italia viene vista in maniera significativamente differente e migliore rispetto all'immagine che noi stessi abbiamo del nostro Paese.

Le nostre imprese fanno registrare in tutto il mondo risultati di assoluta rilevanza, spesso raggiunti nonostante l'assenza di un sistema in grado di sostenere e accompagnare le sfide imprenditoriali più all'avanguardia.

Il supporto all'internazionalizzazione delle nostre realtà produttive è a tutt'oggi riconducibile infatti ad iniziative tra di esse slegate e intraprese da soggetti pubblici e privati che non sempre dialogano tra loro. È evidente che manchi una regia unica e una visione d'insieme strategica che possano portare, di conseguenza, al varo di politiche pubbliche univoche e sistemiche.

Nonostante ciò, sia sotto il profilo della capacità di penetrazione di nuovi mercati, sia dal punto di vista della capacità di innovazione e sviluppo, le eccellenze italiane continuano a rappresentare un marchio ben visibile e ben riconoscibile.

Ciò avviene in tanti settori: dalla moda alla manifattura, dall'enogastronomia agli ambiti tecnologicamente più avanzati, ma anche in settori meno "appariscenti" come la meccanica industriale, segmento nel quale il nostro Paese vanta alcuni tra i più importanti produttori al mondo e numeri che, in termini di crescita, crescono anno dopo anno.

Queste sono considerazioni che, se da un lato possono giustamente farci sentire orgogliosi, dall'altro devono rappresentare anche un monito per coloro che hanno responsabilità istituzionali e di governo. Tutti noi abbiamo il compito di pensare e realizzare politiche di medio e lungo periodo, nella prospettiva di attutire le ciclicità sempre più stringenti dei mercati e favorire le espansioni nelle fasi in cui le opportunità superano i rischi.

A questo punto la domanda che, da Presidente del Senato, mi pongo è quali siano queste politiche, in quali tempi vadano perseguite e quali debbano essere i risultati attesi?

La sfida della competitività, nel contesto globale, per restare al tema di giornata, impone innanzitutto una riflessione attenta e non di parte sullo stato di salute del Paese.

Il livello di produttività reale non può prescindere quindi da una prima valutazione sulla capacità di raggiungere gli obiettivi che, quanto meno a livello comunitario, ci siamo dati.

Se i parametri di Europa 2020 non devono necessariamente rappresentare la linea di demarcazione rispetto alla quale far dipendere o meno il successo delle strategie del Paese, non possono in ogni caso essere elusi, nella consapevolezza della dimensione europea.

Elevato debito pubblico, un livello di partecipazione al mercato del lavoro ancora insufficiente - in particolare se riferito alle donne e ai giovani - investimenti per innovazione e sviluppo sotto la media comunitaria, criticità nella filiera del credito - soprattutto in relazione alle necessità delle imprese e nella gestione del volume dei crediti deteriorati.

È questa, in estrema sintesi, la fotografia che ci restituisce il parere del Consiglio europeo. Non mancano certo elementi congiunturali che hanno contribuito ad appesantire il quadro economico, come l'afflusso rappresentato dall'immigrazione degli ultimi anni - non solo riferita ai rifugiati - e gli interventi, anche di natura finanziaria, per fronteggiare i rischi e gli eventi sismici che hanno colpito diverse aree del Paese.

Qui consentitemi un breve inciso.

Sull'immigrazione: non c'è alcun dubbio sul fatto che l'Italia sia stata lasciata colpevolmente sola negli ultimi anni. Non si può fronteggiare un fenomeno globale senza un coinvolgimento attivo della comunità internazionale.

L'Europa, così attenta al rispetto dei parametri di bilancio, sull'applicazione dell'accordo per i ricollocamenti piuttosto che sulla necessità di una solidarietà concreta tra gli Stati partner, è stata quanto meno assente ingiustificata.

Ed è proprio per questo che nei giorni scorsi ho sottolineato la necessità che su questo tema le forze politiche possano accantonare le divisioni esistenti e dar vita ad un "tavolo di coesione", una sorta di "Partito Italia", per poter condividere una posizione unitaria ispirata unicamente all'interesse nazionale.

Restando alle rilevazioni comunitarie, l'aspetto a mio avviso più importante, più ancora delle singole criticità, è quello relativo alla nostra difficoltà nel mettere in campo politiche che possano liberare le tante energie oggi soffocate da un sistema troppo burocratizzato.

Permane infatti una inaccettabile dicotomia tra il momento della decisione e quello della realizzazione.

Lo stesso dibattito politico è stato per troppo tempo orientato alla gestione del presente, dell'oggi, senza sviluppare quella maturità necessaria per poter pensare, discutere e realizzare riforme di sistema in grado di far dimagrire la macchina pubblica e, allo stesso tempo, garantire maggiori standard di qualità nei servizi ai cittadini.

Il punto dirimente è quindi la capacità di perseguire politiche pubbliche virtuose in una logica di lungo periodo, che diano la possibilità agli operatori di orientarsi, agli investitori di trovare condizioni stabili, agli osservatori istituzionali di rinvenire una situazione di positiva stabilità.

In sintesi, oggi più che mai, è necessaria una visione condivisa e prospettica dell'identità economica che si vuole dare al Paese nei prossimi decenni.

Nel preparare questo intervento, ho avuto la possibilità di imbattermi in una serie di riflessioni, anche del passato, che hanno mantenuto tutta la loro forza.

Consentitemi allora una citazione:

«Solo un'economia di mercato può creare le condizioni ideali alla crescita, alla competizione e all'innovazione. In un Paese che riconosce e promuove il libero mercato, ognuno deve fare il proprio lavoro. Il compito delle imprese è quello di investire e di rischiare, di crescere e di rafforzarsi nel mondo, di garantire un ambiente dinamico e aperto al futuro. Lo Stato deve fare lo Stato».

Sono parole di Sergio Marchionne, pronunciate proprio qui nel suo intervento del 2014. Parole illuminanti, attuali, ispiratrici.

Lo Stato deve fare lo Stato e, aggiungerei, deve farlo nell'esclusivo interesse dei cittadini.

Personalmente, come ho avuto modo di affermare già in occasione del mio discorso di insediamento, ritengo ineludibile il tema del completamento del riassetto delle autonomie.

Un tema che investe direttamente la qualità e la quantità dei servizi pubblici, la razionalizzazione degli organismi territoriali, l'ottimizzazione della spesa pubblica e il coinvolgimento, dal basso, delle comunità territoriali.

Se la classe politica e l'opinione pubblica hanno condiviso, sostanzialmente all'unanimità, la necessità di costituzionalizzare il principio della sussidiarietà - principio peraltro fondante della comune casa europea - è arrivato il momento di svilupparlo e applicarlo.

Sui servizi pubblici locali la discussione è rimasta ferma alle intenzioni - sbandierate troppe volte - sulle sforbiciate delle partecipate pubbliche che però, nonostante il passare degli anni, sono per lo più ancora lì, spesso a loro insaputa. E, purtroppo, all'insaputa degli utenti.

Così come è evidente la necessità di intervenire sui livelli intermedi di governo, a partire dalle province, per restituire razionalità e funzionalità alla filiera istituzionale.

Non estraneo a tutto questo c'è poi il tema strategico delle infrastrutture.

Se la tragedia di Genova ha riportato drammaticamente l'attenzione sulla sicurezza e sulla gestione delle opere pubbliche, è arrivato il momento di compiere una riflessione approfondita su tutti gli aspetti che impattano sulla dotazione del Paese.

Progettazione, esecuzione, manutenzione.

Prima ancora di interrogarci sulle modalità gestionali, dovremmo avviare una mappatura della rete strategica infrastrutturale per capire dove è urgente intervenire, con quali modalità e sulla base di quali standard di sicurezza.

È inoltre auspicabile che sia le necessarie opere di completamento, sia quelle relative alla messa in sicurezza dell'esistente, possano essere valutate alla luce di una nuova e condivisa sensibilità ambientale, anche in riferimento alle conseguenze sempre più imprevedibili dei fenomeni climatici.

Sul recupero di competitività è sempre il Consiglio europeo a mettere nero su bianco alcuni punti che ci vedono in forte e ingiustificato ritardo: giustizia, pubblica amministrazione, sistema del credito, politiche attive del lavoro, investimenti in innovazione e ricerca.

Se l'Italia vuole vincere la sfida globale è da qui che deve ripartire una riflessione attenta per mettere in campo interventi concreti, razionali, funzionali.

Sulla giustizia sono diversi i nodi che, pur essendo al centro del dibattito politico da tanto - forse troppo -, non sono ancora stati sciolti.

Dalla definitiva soluzione del rapporto tra magistratura e politica alla carenza di personale, dalla geografia giudiziaria fino al tema della certezza del diritto, non mancano gli aspetti che potranno e dovranno essere affrontati.

Restando però al nostro focus diventa strategico tutto ciò che ha un impatto diretto sull'economia, sulla vita delle imprese, sul funzionamento del nostro mercato interno: mi riferisco ovviamente ai tempi della giustizia, in particolare di quella civile, e a tutto ciò che a questo punto si ricollega.

L'efficienza del sistema giudiziario impatta, oltre che sui diritti individuali di milioni di cittadini, sulla competitività del sistema Paese.

Secondo la Banca Mondiale, il ritardo nelle cause civili ha infatti ripercussioni dirette sull'attrazione di investimenti dall'estero, sulla disponibilità al rischio di impresa e sulla stessa effettività delle imprese di vedersi riconosciuti fidi bancari. In sostanza sulle condizioni di fare business in Italia.

Senza contare i costi diretti e indiretti che le aziende devono sostenere per contenziosi e ritardi burocratici. Costi altissimi e non deducibili, che creano distorsioni contrarie allo stesso principio di concorrenza e che spesso rappresentano un deterrente insormontabile per chi vuole farsi carico di rischiare, di provare, di intraprendere.

Sin dagli anni '90 è stato fatto uno sforzo generale per ispirare il funzionamento dell'apparato pubblico ai principi di funzionalità di matrice anglosassone.

Eppure tutte le statistiche ci dicono che siamo ancora chiusi nella morsa della burocrazia. Un Paese avvitato su troppe norme, infiniti passaggi di mano e di competenze, un Paese troppo complicato, poco attrattivo.

Il tutto in una prospettiva che ci vede ancora stretti tra un passato in cui si pensava che lo Stato dovesse occuparsi di tutto - persino di produrre beni di largo consumo - e una transizione in cui lo Stato si è posto l'obiettivo di essere il regolatore del sistema, esercitando al contempo la funzione di stimolo e di incentivazione.

Un percorso mai concluso, con distorsioni che sono ancora oggi di tutta evidenza e, molto spesso, di difficile comprensione.

Liberare queste energie e queste risorse potrebbe al contrario essere la vera chiave per realizzare quella modernizzazione infrastrutturale - materiale e immateriale - che cittadini, famiglie e imprese chiedono per poter vivere meglio, avere servizi adeguati, poter sviluppare le proprie attività.

Solo così potrà essere vinta la sfida dell'occupazione.

Al di là delle singole misure, che possono essere più o meno apprezzate e più o meno positive, il lavoro resta la più stringente emergenza nazionale. Ed è chiaro che solo un'azione in grado di contemperare le esigenze e le priorità sia delle imprese che dei lavoratori, potrà portare ad una significativa ripresa economica.

Tutti gli indicatori ci dicono che in Italia c'è una tassazione eccessiva e inaccettabile sul lavoro. Non si tratta quindi solo di una partita di giro. Il Paese ha bisogno di recuperare risorse per mettere in circuito buone prassi, investimenti, per "far fare".

Restituire competitività alla produzione si può e si deve fare soprattutto attraverso una profonda riforma della fiscalità; ed accompagnando tale percorso con una altrettanto radicale azione di snellimento dell'apparato statale, delle sue articolazioni interne ed esterne, recuperando - in sostanza - credibilità.

Rispetto invece alle legittime preoccupazioni del mondo delle imprese così come ad un certo possibile scetticismo attendista dei soggetti economici internazionali, mi corre l'obbligo di sottolineare, in conclusione, l'assoluta sostenibilità istituzionale del nostro Paese.

Un dato che poggia la propria base sui pesi e contrappesi di un'architettura che ha dimostrato di poter affrontare e superare anche le fasi di cambiamento più inedite.

L'Italia è un grande Paese; un Paese liberale, democratico, solidale.

Ha un grande potenziale: economico, sociale, culturale.

Avrà un grande futuro. Sta a noi, a noi tutti, conquistarlo giorno per giorno; mettendo a frutto le idee, valorizzando il sapere, liberando le energie.



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