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Il Presidente: Discorsi

Convegno "Italiani di Libia 1970-2020”

Discorso pronunciato nella Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani

Signor Ministro degli Esteri,
Autorità,
Signore e signori,

è con vero piacere che porto il mio saluto personale e quello del Senato della Repubblica in apertura dei lavori di questo importante momento di riflessione sugli italiani di Libia.
Nell'anno in cui ricorrono i 50anni dal decreto ufficiale con il quale più di 20mila italiani vennero espulsi dal Paese, ritengo doveroso approfondire una pagina di storia per troppi anni dimenticata.
Una pagina di storia che, come purtroppo ci ricordano le quotidiane cronache di guerra, ha tuttora un impatto strategico sul presente e sul futuro dei Paesi del Mediterraneo, a partire proprio
dall'Italia.

Allora consentitemi un ringraziamento e un saluto a tutti i relatori che, sono certa, sapranno approfondire ed analizzare tutti gli aspetti storici, politici e ambientali di una terra che dall'inizio del secolo scorso ad oggi ha visto alternarsi, come nessun'altra, guerre e pacificazioni, sviluppo e distruzioni, speranze e paure.
Ringrazio sentitamente il Presidente Casini, che ha fortemente voluto l'organizzazione di questo convegno qui in Senato, e ringrazio per la sua presenza e per la sua instancabile attività Giovanna Ortu, presidente dell'Associazione Italiana dei Rimpatriati dalla Libia, da sempre in prima linea per il riconoscimento di migliaia di famiglie italiane che, dalla sera alla mattina, persero diritti, case, affetti. Persero tutto.

Mi scuso preliminarmente se non potrò assistere con voi alla proiezione del documentario "Il Mare della nostra storia", prodotto dall'istituto Luce, ma avendo avuto la possibilità di vederlo nei giorni scorsi vorrei proprio partire da qui per una riflessione su una terra che, come ci dice l'opera, "ha significato l'inferno della guerra, e l'eden di una nuova piccola patria".
Immagini, colori, emozioni, racconti, cronache, riflessioni: in questo documentario c'è veramente tutto. È un susseguirsi di emozioni che lascia senza fiato.
Dalle atrocità non taciute delle fasi belliche allo sviluppo di una terra desertica ma dalla bellezza assoluta; dalla convivenza laica di cattolici, ebrei e musulmani agli espropri e alle espulsioni; dalle cure per la scoperta e la valorizzazione del patrimonio archeologico alle devastazioni incomprensibili. Devastazioni che appaiono sin dall'inizio del filmato in tutta la loro inaccettabile realtà e che delineano una Tripoli ancora non sconvolta dall'attuale conflitto;
e ancora, il passaggio da una società rurale e artigianale al petrolio e alla chiusura internazionale; il racconto prosegue con le intese dei primi anni duemila e il conseguente ritorno in una visita dei rimpatriati - che poteva essere solo turistica -, fino alle immagini della rivolta e la destituzione di Gheddafi.

Si tratta in sostanza della cronistoria della vita reale che si è respirata in Libia in oltre un secolo di rapporti con il nostro Paese.
Attraverso le testimonianze dei protagonisti e dei loro discendenti si ricostruisce, partendo quindi dalle persone, l'evoluzione di un rapporto nel quale gli italiani, anche e soprattutto dopo la fase coloniale, hanno rivestito tanti e rilevanti ruoli nella vita sociale, culturale e amministrativa della Libia.

Per l'Italia, e per tutte le Istituzioni repubblicane, questo racconto è oggettivamente una chiamata alla conoscenza, alla responsabilità, al dovere della memoria.
Dall'iniziale presenza nella Tripolitania del nord e nella Cirenaica, fino alla costituzione geo-politica dell'attuale Libia, non possiamo infatti non avvertire la necessità e il dovere morale di fare i conti con gli accadimenti di quella che veniva non senza enfasi chiamata la "quarta sponda".

Nella lunga e travagliata storia degli italiani di Libia si intreccia quindi la ragion di Stato - vera o presunta - con gli equilibri di una delle aree più tormentate del pianeta.
Interessi dei grandi gruppi industriali ed energetici da un lato, la vita reale dall'altra, in una contrapposizione che ha inevitabilmente segnato i destini dei rimpatriati agli inizi degli anni 50 e, in maniera ancor più traumatica, nell'estate-autunno del 1970.
Già nei mesi precedenti alle espulsioni, sin dall'insediamento del regime di Gheddafi, il loro travaglio era stato caratterizzato da una condizione al limite della sopravvivenza. Tra indicibili paure e sofferenze.
I numeri delle confische effettuate non lasciano dubbi: 40 mila ettari di terra, 1700 case, 500 attività commerciali. Le Chiese trasformate in Moschee e i cimiteri profanati.
A fronte di tutto ciò, quello che si è poi registrato negli anni, pur tenendo conto dei parziali tentativi di risarcire economicamente gli esuli, è stata la mancanza di un riconoscimento storico, morale, simbolico.

Tre giorni fa, nell'Aula del Senato, abbiamo celebrato il Giorno del Ricordo in onore dei martiri delle foibe e dell'esodo giulianodalmata.
Non c'è alcun dubbio sul fatto che, affrontando ed approfondendo queste vicende dal lato dei civili, delle vittime, delle persone, emergano in tutta la loro evidente drammaticità parallelismi non isolati e non casuali.
L'Italia si dimostrò in entrambi i casi incapace di accogliere i propri figli di ritorno come cittadini titolari di pieni diritti e non, come troppo spesso accadde, come "fascisti", "collaborazionisti dei fascisti" o, per dirla con il linguaggio del documentario, "coloni fascisti".
Un'accoglienza negata, al punto che chi non poté contare su una personale rete di amici o parenti fu "collocato" nei campi profughi, tra l'indifferenza generale che spesso sfociava in aperto e conclamato
fastidio.

Ma i cicli della storia - per dirla con Giambattista Vico - ci richiamano però alla consapevolezza e la responsabilità delle nostre azioni.
Così come l'attualità ci impone quotidianamente di fare i conti con le tragedie, le devastazioni e le paure che dalla sponda Sud del Mediterraneo hanno eco in tutta Europa.

Il "rapporto particolare" che sanciva il legame tra italiani e libici in quello che giustamente veniva definito il "bel suol d'amore", vede oggi nella nostra politica estera - e contestualmente nel ruolo dell'Unione europea -, una speranza; la speranza dell'avvio di un processo di pacificazione che metta al centro, finalmente, le donne e gli uomini, i bambini e gli anziani di Libia.
Senza distinzioni, senza colorazioni, senza paura.



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