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Il Presidente: Discorsi

Convegno per il trentennale della morte di Enzo Tortora

Discorso pronunciato nella Sala Atti parlamentari della Biblioteca del Senato

Un saluto affettuoso a Francesca Scopelliti che ringrazio per aver voluto organizzare in Senato questo incontro a trent'anni dalla morte di Enzo Tortora.
Consentitemi una premessa. Abbiamo sentito il ricordo di Gianfranco Spadaccia. Tra poco lasceremo la parola a Francesca. Non posso non cogliere l'occasione, data questa fortunata coincidenza, per rendere omaggio ad un grande parlamentare e un grande amico di Enzo Tortora: Marco Pannella.
L'Italia di oggi, con le sue contraddizioni e i suoi problemi, ma anche con gli aspetti positivi che diamo per acquisiti - e penso in particolare ai diritti civili - ha un grande debito di riconoscenza nei confronti di Marco Pannella, uno statista che manca tantissimo al dibattito politico.

Mi scuserete se per precedenti impegni istituzionali non potrò ascoltare tutti gli interventi previsti. La qualità dei relatori - che ringrazio per la loro autorevole presenza - è già un evidente segnale di quanto la vicenda umana e giudiziaria di Enzo Tortora sia ancora viva e presente nel nostro immaginario collettivo.
'Dunque, dove eravamo rimasti...'. Così, con queste parole asciutte, nel suo stile cordiale e dignitoso, Enzo Tortora tornava attraverso la televisione di Stato, da uomo libero e innocente, nelle case degli italiani. Era il 20 febbraio del 1987, quasi quattro anni dopo il suo incredibile arresto. Parole non casuali, evidentemente. Ma meditate, centellinate e soprattutto dirette a quello stesso pubblico che tanto lo aveva amato, che aveva contribuito ad accrescere la fama e il suo successo di presentatore e giornalista. Un pubblico con il quale Tortora sentiva di avere un legame particolare.

A trent'anni dalla prematura scomparsa di Tortora, ci chiediamo ancora 'dove eravamo rimasti?'. Cosa è cambiato da allora, quale è l'eredità del caso Tortora.
Interrogativi sullo stato di salute del sistema giudiziario italiano certamente, ma anche un'attualissima riflessione sulla pericolosa costruzione mediatica di un fatto inesistente - supportata in questo caso addirittura da un processo paradossale - concepito sulle pagine dei giornali prima ancora che nelle aule dei tribunali.
Mi consentirete di partire proprio da questo ultimo punto. Anche perché il caso Tortora non si può capire fino in fondo se non si ha una visione d'insieme dell'uomo Enzo e del personaggio Tortora, e della campagna stampa che tentò di dissacrare l'uno e distruggere l'altro.
Sull'uomo si è detto molto. Enzo Tortora era quello che appariva, che si manifestava attraverso il piccolo schermo. Colto, gentile, dotato di straordinaria intelligenza e fine ironia.
Aveva fascino, il fascino del gentiluomo. Tratto umano, modi garbati, eppure austero e fiero nel sostenere le sue tesi e difendere posizioni spesso anticonformiste nella vita come nella professione. Una dicotomia, potremmo dire, che gli aveva conferito tantissime simpatie, ma anche innumerevoli antipatie, invidie. E che lo segnerà per sempre, fino alla divisione della stessa opinione pubblica in innocentisti e colpevolisti.
L'uomo Tortora era quello delle delicate lettere alla sua compagna, a Francesca, la cui lettura scuote le coscienze per la sensibilità con cui sono state scritte.
Sul personaggio pubblico forse non si è detto ancora abbastanza. Eppure a Tortora, giornalista, presentatore, divulgatore, si deve una delle pagine più creative e rivoluzionarie della storia della televisione italiana. Le sue idee rivivono ancora oggi in tanti programmi televisivi, tutti debitori nei confronti di chi, per primo, colse le potenzialità di una televisione sempre più in grado di interagire con il pubblico.
Diede voce alla gente e attuò nei fatti il servizio pubblico. Fu lui ad intuire le potenzialità di quella che sarebbe diventata la televisione commerciale privata e a prestare volto ed esperienza per autentiche sfide imprenditoriali. Fu Tortora, uomo libero e liberale, a battersi tra i primi in Italia per la libertà d'antenna.

Il caso Tortora è un caso che ha smosso, smuove e continuerà a smuovere le coscienze di tutti noi. Per quello che è accaduto, ma soprattutto per come è accaduto.
Nulla fu lasciato al caso.
Perfino il suo arresto fu una messa in scena. Addirittura i tempi apparvero perfettamente calcolati per dare l'opportunità a tutta la stampa di poterlo immortalare mentre usciva ammanettato e trasportato poi a sirene spiegate verso il carcere.
Lui stesso, nelle sue lettere a Francesca, ritornerà più volte su quei tragici momenti. Su quello che ebbe a definire il momento dello 'schianto'. Non si capacitava del tempo perso, delle ore che trascorrevano senza che nessuno si degnasse di dargli una spiegazione.
Solo dopo capì che tutto era funzionale alla costruzione di quella campagna stampa di quei 'pennaruli' che lo aveva condannato prima ancora che lui stesso venisse a conoscenza dei capi di imputazione.
Ebbene, per quanto sconcertante possa sembrare, dobbiamo ammettere che quegli avvenimenti potrebbero ripetersi e potrebbero interessare chiunque. Ed è un bene che anche oggi in un luogo istituzionale come il Senato se ne parli. Perché non si dimentichi mai quello che accadde trent'anni fa e perché soprattutto i più giovani, in una società digitalizzata dove la costruzione del mostro conosce mezzi di diffusione nuovi e più rapidi, vengano a conoscenza di un vero atto di barbarie sociale.

Dove eravamo rimasti, cosa è cambiato da allora? Forse troppo poco, probabilmente non abbastanza, anche a causa di un'opinione pubblica che resta tendenzialmente accusatoria, che si fa influenzare dai toni roboanti e non analizza, non si interroga. Quella stessa gente che, d'altra parte, se mal indirizzata, scriveva Tortora a Francesca, 'è un gregge, non un popolo'.
Prevale la sensazione che la presunzione di innocenza non sia un principio del diritto riconosciuto e tutelato; e non sono rari i casi - anche di stretta attualità - in cui il lavoro dei giornalisti si intrecci con quello dei magistrati per la costruzione di una campagna basata su teoremi preconfezionati.
Ci si chiese allora, ma ci si chiede ancora oggi, se il processo non diventi in talune circostanze lo strumento per affermare un potere al punto da spingersi fino all'inverosimile nella difesa di un errore investigativo, come accaduto nel caso Tortora.
Il processo Tortora, anche dal punto di vista delle conseguenze, è emblematico. La carriera di quei magistrati non ebbe alcun danno da quel clamoroso errore. Perfino le scuse giunsero tardive.
Quello che non dobbiamo disperdere è però anche l'insegnamento che ci viene fornito dalla conclusione della vicenda giudiziaria di Enzo Tortora.

Prima accusato e condannato da magistrati.
Poi assolto e scagionato da altri magistrati che, incuranti delle pressioni mediatiche, ebbero il merito e il coraggio di far prevalere la verità. Da questa assoluzione piena bisogna trovare la forza per ristabilire l'equilibrio necessario ad un sistema che si articola su più gradi di giudizio e che, in taluni casi, rinviene al proprio interno la capacità di auto-correggersi. E' sufficiente? Probabilmente no. E' comunque un punto di partenza dal quale si deve partire per ripensare, riformare, migliorare il sistema della giustizia italiana.
Per questo è giusto ricordare e approfondire. Il caso Tortora resta e resterà una pagina di vergogna della storia giudiziaria ma anche civile italiana. Tortora ne uscì provato nel fisico, ma ancora più risoluto nell'animo perché aveva potuto dimostrare la sua totale estraneità ai fatti. Ma quanti Tortora ci sono nelle carceri italiane? Quante persone subiscono il torto di non potersi difendere, di non poter parlare? Quanti si scontrano di fronte a un muro di incomunicabilità che troppo spesso divide i cittadini dalle amministrazioni, dalle istituzioni, dalle ottusità delle burocrazie. A queste persone Tortora voleva dare voce.
'Hanno proprio sbagliato uomo. Per mettermi in ginocchio ci vuole altro che un esercito di Pulcinella' scriveva Enzo a Francesca. Quell'esercito c'è ancora. Sta a tutti noi, istituzioni e liberi cittadini, sfilargli la maschera.



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