Conferenza "Quale città - identità, dimensioni, bellezza e diritti di cittadinanza"
Buongiorno a tutti. Saluto i Ministri, i Parlamentari, il Presidente della Regione, il Sindaco, tutte le Autorità e tutti i presenti.
Sono molto contenta di trovarmi oggi a Pescara per questo bel convegno organizzato dal sen. Luciano D'Alfonso.
Voglio rivolgere subito due ringraziamenti al nostro padrone di casa. Il primo è per avere organizzato un "circolo del buon pensiero" che riunisce i più alti livelli istituzionali insieme a tanti imprenditori, accademici, intellettuali, professionisti.
La definirei una scelta strategica di metodo. Che sicuramente saprà offrire a tutti noi, importanti stimoli e sollecitazioni.
Il secondo ringraziamento è per la scelta del tema, un grande quesito sulla città che vogliamo ... ma senza punto interrogativo.
Mi sono chiesta inizialmente se fosse una dimenticanza.
In realtà, il sottotitolo e le diverse sessioni sembrano rivelarci che "Quale città" è prima di tutto una visione programmatica.
Una visione su uno spazio pubblico capace di conciliare "identità e dimensioni, bellezza e diritti di cittadinanza".
Una visione che sembra quasi volere riscoprire, in una forma contemporanea, il mito della "città ideale" che dai classici greci e latini al Rinascimento ha affascinato intere generazioni di filosofi, pittori, architetti e politici.
Vi è un comune pensiero che lega Vitruvio e Leon Battista Alberti, Ippodamo da Mileto e Piero della Francesca, Platone e Leonardo Bruni.
È la ricerca, all'interno dello spazio urbano, dell'armonia tra le diverse sfere - quella sociale, economica, politica, religiosa e culturale - che plasmano la vita comune.
Una ricerca fondata sull'ideale sodalizio tra l'arte del buon governo e l'equilibrio architettonico, urbanistico e paesaggistico, sul rapporto indissolubile tra luoghi e persone.
Un rapporto in costante evoluzione, che a partire dalla seconda metà del XX secolo ha portato ad interrogarsi sulle evidenti degenerazioni della città contemporanea.
Penso all'impoverimento della qualità di vita dei cittadini, alla crisi dello spazio pubblico, al degrado di tante periferie che diventa fattore di alienazione di intere comunità.
Contro questa crisi diffusa, si è invocato (penso soprattutto al pensiero di Lefebvre e Harvey) un vero e proprio "diritto alla città", un ritorno ad uno spazio caratterizzato da identità, significato e complessità dove oggi c'è incuria e confusione.
Ma è oggi, dopo un anno di terribile pandemia, che dobbiamo interrogarci su cosa significhi davvero avere diritto alla città.
La pandemia è stata prima di tutto un fenomeno urbano. È nei grandi centri che il contagio si è diffuso prima e più rapidamente.
È nelle aree urbane che l'isolamento, la chiusura di uffici, negozi, bar e ristoranti, perfino degli spazi pubblici come i parchi, hanno prodotto gli effetti più devastanti.
Le città sono andate avanti a fari spenti. Come se, da un giorno all'altro, strade, piazze, centri storici fossero andati in corto-circuito. Come se il Covid avesse rubato loro l'anima.
Ora, con la ripartenza, le città tornano lentamente a riassaporare il fluire della vita.
Ma attenzione agli effetti di medio e lungo periodo!
Non vorrei che alcune soluzioni, come il telelavoro, che certamente potevano essere utili nell'emergenza, diventino una regola universale per l'organizzazione del lavoro e per la definizione degli stili di vita.
Questo cambierebbe irrimediabilmente il volto delle nostre città. Uffici chiusi, centri svuotati, pubblici esercizi senza più mercato, servizi, terziario e immobiliare con i relativi indotti in crisi irreversibile.
È davvero questa la città che vogliamo?
Io penso che la risposta alla pandemia debba nascere anche dalle città.
Dobbiamo restituire alla città una vera centralità demografica, sociale ed economica.
Perché per chi vive la societas la città è tutto. È casa e vita di relazione. È lavoro, servizi, scuola, cultura, salute, amministrazione, politica e tutela dei diritti. È lo spazio e il tempo in cui si svolge la dinamica quotidiana della vita di ciascuno di noi.
Città significa partecipazione e crescita. Crescita di idee, di idee innovative. E anche crescita economica. Perché la città è un moltiplicatore di PIL.
E allora davvero serve riscoprire "quale città".
Forse non esiste la città ideale, ma sicuramente può esistere una città intelligente.
Una città incentrata su qualità e sostenibilità.
Qualità nel rapporto con il tempo e lo spazio, nelle risposte ai bisogni individuali e collettivi, nell'interazione con la bellezza e la natura.
E poi sostenibilità. Sostenibilità sociale e sostenibilità ambientale.
Le città sono per definizione i primi polarizzatori di sostenibilità perché sono le realtà che maggiormente ne sopportano le sfide.
E puntare su una urbanizzazione sostenibile significa lotta alla povertà, alla disuguaglianza, alla disoccupazione, al cambiamento climatico. Significa affrontare tutte le fragilità, quelle materiali e quelle immateriali, che oggi indeboliscono il nostro collettivo.
Come ha fatto Pescara, una città che ha saputo credere davvero nella sostenibilità. Che ha continuato ad investirci, anche durante la pandemia.
Penso agli 11 progetti di rigenerazione urbana approvati lo scorso maggio.
Penso alla spinta verso la mobilità verde, che ha visto Pescara in prima linea anche a livello europeo nel promuovere il trasporto ecologico.
Penso alla scommessa della strada ciclabile più bella d'Europa, una grande finestra sul mare Adriatico attraverso 131 km di pura emozione. Uno straordinario connubio di turismo, sport, cultura.
Le città possono davvero essere generatori di benessere, di lavoro, di sviluppo.
E il tempo è ora, nella cornice del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza. Per fine mese attendiamo la prima tranche delle risorse dell'Unione europea.
Una straordinaria opportunità. Che deve vedere la sfida urbana al centro. Perché le azioni e le missioni per le politiche della città sono, come dice il Presidente Draghi, debito buono.
Un debito speso bene, che sostiene occupazione e produzione, che rilancia i fattori strutturali di crescita, che sa fare funzionare bene la nostra casa comune.
Concludo. Un tempo le città si difendevano con le mura e con i rituali religiosi che infondevano un carattere quasi sacrale all'area urbana. Perché questo significava tutelare le comunità che vi risiedevano.
Oggi non abbiamo più mura, né riti sacrali. Ma il bisogno di fondo rimane lo stesso. Spetta a noi saperlo interpretare ed attuare.
Sono certa che il dibattito odierno saprà offrire importanti spunti in questa direzione.
Grazie e buon lavoro a tutti.