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Il Presidente: Discorsi

Cinquantesimo anniversario dell’ingresso di Giovanni Spadolini in Senato

Discorso pronunciato all'evento organizzato dalla Fondazione Spadolini - Nuova Antologia.

Buongiorno a tutti.
Saluto il Ministro Franceschini, i parlamentari, gli autorevoli relatori, il Presidente e tutti gli ospiti della Fondazione Spadolini Nuova Antologia.
Ho accolto con grande favore l'iniziativa della Fondazione che ricorda con questo incontro la figura del Presidente del Senato a cinquant'anni dal suo ingresso a Palazzo Madama. Spadolini e il Senato diventano da allora un binomio che resterà inscindibile fino alla sua scomparsa, dapprima a seguito della rielezione anche nelle successive tornate elettorali e poi, il 2 maggio 1991, con la nomina a Senatore a vita da parte del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

Saranno anni molti intensi nei quali Giovanni Spadolini sarà chiamato a rivestire molteplici ruoli istituzionali con alti compiti di responsabilità tanto nell'ambito parlamentare quanto in quello governativo, lasciando sempre una sua impronta originale e inconfondibile. Già nel luglio 1972 è eletto Presidente della Commissione istruzione del Senato; quindi, nel 1974 è Ministro "fondatore" del Ministero per i beni culturali e ambientali, nel 1979 Ministro della pubblica istruzione, nel giugno 1981 è nominato Presidente del Consiglio dei ministri (il primo Presidente non democristiano) e l'anno successivo è chiamato a formare un secondo Governo; ancora, dal 1983 al 1987 è Ministro della difesa.

A coronamento del profondo legame con il Senato, ad inizio della X Legislatura, nel luglio 1987, e nuovamente all'inizio della Legislatura successiva, nel 1992, è eletto Presidente dell'Assemblea di Palazzo Madama, che guida con grande autorevolezza e imparzialità per sette anni.

Torniamo al 1972. Giovanni Spadolini approda alla politica senza nessuna pregressa militanza di partito, direttamente dalla società civile, dagli studi storici, dalla cattedra e dalla esperienza del giornalismo culminata con la direzione di importanti quotidiani, da ultimo Il Corriere della Sera.
Egli è espressione di un filone culturale che lo ricollega a protagonisti della storia nazionale che hanno contribuito a creare - sono sue parole - "una certa idea dell'Italia". È il filone gobettiano del "Risorgimento senza eroi" e della "rivoluzione liberale" mancata, il cui mito - egli ebbe a scrivere - serviva "a soddisfare una domanda e un imperativo politico 'contemporaneo' nel senso vero della parola".

A sintetizzare l'intensa e multiforme opera di Giovanni Spadolini negli anni del suo impegno pubblico, il professor Ceccuti ha utilizzato, nell'introdurne i discorsi parlamentari, un'espressione particolarmente efficace: "Tre vite in un'una: fra giornalismo, storia e politica".
La realtà è complessa e necessita degli "attrezzi" dello storico per essere scandagliata nelle sue radici più profonde, analizzata nei nessi che possano restituire il senso di interdipendenza fra ambiti apparentemente distanti, rivelata come il risultato di idee, azioni, condizioni.

Ma la realtà è anche in continuo divenire, si modifica costantemente sotto i nostri occhi. E qui soccorre l'attitudine del grande e raffinato giornalista nel cogliere i segni del presente, nell'intuire per tempo e segnalare gli sviluppi, a volte davvero imprevedibili, degli eventi politici, economici, sociali, culturali.
Dinanzi alla realtà, infine, non si può rimanere semplici spettatori; urge l'impegno, ispirato da una visione alta e nobile della politica, proiettata verso un continuo miglioramento dell'esistente e in grado di "inalveare" i processi in atto nella società, di gestirli - anche grazie alle conoscenze dello storico -, trovando le risposte più adeguate, mediando fra gli interessi contrapposti, dopo averli però analizzati e compresi nella loro intima essenza.

La ricerca dello storico, quindi, unita all'impegno politico, secondo l'insegnamento mazziniano di "pensiero e azione". "Non c'è opera storica che non assolva in qualche modo a un'azione civile", scrive Spadolini nella prefazione de "Gli uomini che fecero l'Italia", che significativamente presenta al tempo stesso come "il ripensamento dell'Italia di un secolo e più" ma anche come "l'apertura al dibattito, e alla ricerca dentro noi stessi, dell'Italia di oggi, dell'Italia che è intorno a noi, piena di contraddizioni e di tensioni laceranti, ma anche di vitali fermenti di revisione e di critica".

Una stretta connessione, quella tra storia e politica, che emerge del resto fin dal suo primo intervento in Senato, in occasione del dibattito sulla fiducia al Governo Andreotti il 13 luglio 1972. "Nelle riforme e nei rinnovamenti che si impongono c'è una tradizione che tutti noi dobbiamo salvare: la tradizione del Risorgimento, la tradizione per cui l'Italia si è trasformata in un Paese civile e moderno". Laddove il riferimento è ai valori della ragione e della tolleranza nel confronto politico fra opposte visioni.
Una questione nella quale i profili di metodo e di merito appaiono assolutamente inscindibili e che rappresenta una sorta di manifesto del suo impegno politico e istituzionale.

E' il richiamo all'"Italia della ragione" che si ritrova sviluppato, su un terreno istituzionale, nel suo discorso di investitura come Presidente del Senato il 2 luglio 1987 in una difesa forte del primato del Parlamento: "Il difficile governo dello Stato sarebbe impossibile se qui in Parlamento non si realizzassero quelle condizioni di lavoro critico, fatto di progetti e controprogetti, nutrito della cultura di governo e della forza propositiva dell'opposizione che rende vivo e vitale il regime parlamentare". Rivendica le ragioni costituzionali della centralità parlamentare "contro ogni tentativo di ridurre il valore del passaggio parlamentare a mera ratifica, ad adempimento formale o a stanza di mediocri e particolaristiche negoziazioni".
Cita Hegel, richiamando l'immagine del Parlamento "come istituzione-porticato" tra lo Stato e la società civile, ammonendo che "non solo la legittimità democratica ma la stessa efficacia tecnica delle decisioni politiche è profondamente condizionata dal lavoro delle Camere".

Il Presidente è il "garante istituzionale" del Senato, "custode del Regolamento, dei diritti della maggioranza e di quelli delle opposizioni" e si impegna a difendere il bene della centralità parlamentare "con la persuasione che il lavoro delle Camere non è mai inutile, neppure quando sembrano più facili o politicamente più redditizie le scorciatoie dell'Esecutivo o, all'estremo opposto, le tecniche plebiscitarie".

Sembra riecheggiare quanto aveva affermato il 30 agosto 1982, nel discorso di investitura del suo secondo governo, laddove aveva ricordato che "a un governo istituzionalmente forte corrisponde un Parlamento forte, ad un governo debole corrisponde un Parlamento debole".
Gli appare pertanto chiaro che spetta al Parlamento saper trovare le risposte adeguate ai molti "cambiamenti intercorsi, in quarant'anni, nella costituzione materiale: nei partiti, nei loro rapporti con le Istituzioni, nella economia e negli istituti che la governano, nella percezione diversa dei diritti e delle libertà individuali e sindacali da parte dei cittadini".

Sono due i momenti principali che caratterizzano, negli anni della sua presidenza del Senato, lo sviluppo di quello che potremmo definire un "programma istituzionale".
Anzitutto l'avvio della riforma del bicameralismo, la soluzione che emerge dai lavori del Senato è quella del cosiddetto bicameralismo procedurale.
"Camera e Senato restano componenti eguali di un Parlamento concepito - come nella volontà dei costituenti - in modo unitario, con identici poteri e con identica dignità, eliminando però quella duplicazione, quei ritardi procedurali, quelle ripetizioni ormai incomprensibili e ingiustificabili". In sintesi, solo per un numero limitato di leggi è richiesta necessariamente la doppia lettura (leggi costituzionali, elettorali, di delegazione legislativa, di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali, di approvazione di bilanci e consuntivi, di conversione di decreti-legge). Per gli altri provvedimenti invece sono stabilite forme semplificate di esame, prevedendo la seconda lettura solo su espressa richiesta. "Corrisponde - sottolinea con orgoglio Spadolini - alla prima forma di autogiudizio e di autocorrezione che il Parlamento ha dato di sé stesso in oltre quarant'anni".

Il Regolamento risultante dalle modifiche mantiene fermo in ogni caso il ruolo del Presidente dell'Assemblea, al quale sono attribuite "funzioni ora propulsive, ora di controllo, ora di mediazione, ora di garanzia di tutte le forze politiche: il tutto nell'interesse di assicurare la piena funzionalità del Senato e dei suoi organi".
Sono poteri e funzioni che Spadolini esercita fino in fondo, apportando un contributo di equilibrio e confronto ragionato.

"Il mio sforzo - ricorderà nel discorso di insediamento alla Presidenza del Senato dell'XI Legislatura - è stato costantemente quello di individuare punti di equilibrio fra tesi divergenti e inconciliabili, opponendo la linea della mediazione e del raccordo a quella della contrapposizione e della rottura, secondo quelle caratteristiche super partes che sono proprie e connaturate alla funzione istituzionale di Presidente del Senato".

Forte di questa auctoritas, in quella medesima occasione egli sottolinea con preoccupazione che c'è una frattura profonda da ricomporre fra società politica e società civile, che si traduce in una crisi della partecipazione politica, nella consapevolezza peraltro che non si tratti di un fenomeno tutto e solo italiano. E ancora una volta l'analisi dello studioso è il punto di partenza e il fondamento dell'azione politica.

È dovere del Parlamento, a suo avviso, continuare a rappresentare un punto di riferimento saldo e autorevole, capace di ricostruire il patto incrinato tra i cittadini e le istituzioni, con uno sforzo reale di comprensione delle emergenze in essere. Sono tanti i temi che gli stanno a cuore e sui quali ritorna più volte segnalando l'urgenza dell'agire: la questione dell'unità nazionale, la lotta ai terrorismi e alle mafie, il risanamento economico e gli squilibri sociali e territoriali, la questione morale, la ferma condanna e la lotta ad ogni forma di razzismo e antisemitismo, la tutela dei beni culturali, la conquista di più avanzati livelli di integrazione europea.

Giovanni Spadolini ama il dialogo con il passato. Sente, in Palazzo Giustiniani, la presenza ancora viva di Enrico De Nicola, ma al medesimo tempo egli vive ben immerso nel presente. Apre le porte a studiosi italiani e stranieri per accogliere dibattiti che siano di supporto alle decisioni parlamentari con riflessioni critiche profonde e accurate. Tesse una fitta rete di rapporti con università, istituzioni culturali e di ricerca, in molte delle quali riveste anche ruoli istituzionali di guida. Imprime un forte impulso alla cosiddetta diplomazia parlamentare, viaggiando molto e ricevendo autorità e delegazioni straniere con le quali stabilisce legami destinati a durare.
E di tutta questa intensa attività lascia traccia in articoli, elzeviri, saggi che poi riunisce in volumi che restituiscono il divenire di un mondo in costante trasformazione.

"Un italiano" è la scritta che egli volle si incidesse sulla sua tomba a San Miniato, da dove lo sguardo abbraccia tutta Firenze. E permettetemi di dire che a giusto titolo Giovanni Spadolini potrebbe esser definito "un italiano europeo", nel segno dell'antica tradizione mazziniana.
"L'Italia - egli scrisse - nacque come parte essenziale dell'Europa, sentita come civiltà comune". E più volte sottolineò l'esigenza di un'Europa sempre più unita sul piano politico quale ubi consistam necessario per essere all'altezza delle numerose sfide che si andavano profilando all'interno dei singoli Paesi e sul piano internazionale. Ma sempre nella consapevolezza che "senza le Patrie, assise sul loro fondamento morale, non ci sarebbe l'Europa. Questa parola misteriosa e indecifrabile, che trae la sua luce dalle componenti che concorrono, ognuna, a formarla".

Il pensiero corre all'illuminante analogia tratteggiata da Benedetto Croce nella "Storia d'Europa nel secolo XIX" che Spadolini - da italiano europeo - amava citare: "a quel modo che, or sono settant'anni - scriveva Croce nel 1931, in un momento storico già molto critico e alla vigilia di terribili eventi - un napoletano dell'antico regno o un piemontese del regno subalpino si fecero italiani non rinnegando l'esser loro anteriore ma innalzandolo e risolvendolo in quel nuovo essere, così e francesi e tedeschi e italiani e tutti gli altri si innalzeranno a europei e i loro pensieri indirizzeranno all'Europa e i loro cuori batteranno per lei come prima per le patrie più piccole, non dimenticate già, ma meglio amate".
Un auspicio e una speranza che risuonano ancora attuali.



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