"Riformare il Paese, le Province si confrontano con l'Italia che cambia"
Autorità.
Signore e Signori.
Saluto il Presidente dell'Unione Province d'Italia e tutti i presenti.
L'Unione Province d'Italia ha il merito e anche il coraggio di aver promosso un'iniziativa che mette in stretta correlazione due questioni troppe volte apparse fatalmente disgiunte tra loro: la riforma del Paese e le riforme istituzionali.
Riformare le Istituzioni significa infatti riformare l'intera organizzazione dello Stato, non solo sotto il profilo dell'architettura costituzionale, ma soprattutto sotto il profilo della rete di rapporti e delle strutture che costituiscono quel tessuto connettivo tra realtà ed istanze diverse e che sono il motore dello sviluppo e della coesione sociale.
Senza le riforme istituzionali il Paese resta fermo, immobile, incapace di fare quello scatto d'orgoglio, quel salto di qualità che merita e che lo può rilanciare sul piano internazionale.
Mi auguro che dopo le fisiologiche tensioni pre-elettorali di questi giorni, si possa registrare nel mondo politico uno spirito costituente che coinvolga tutti i partiti in un percorso di grande responsabilità nell'interesse del Paese, il cui funzionamento va migliorato e modernizzato nelle sue regole, nei suoi meccanismi, nelle sue Istituzioni.
Dico con convinzione che non si può attendere altro tempo: è il tempo delle riforme.
Le idee centrali del dibattito sulle riforme istituzionali si snodano lungo un percorso che comprende alcune questioni fondamentali: sistema maggioritario, sistema dell'alternanza, stabilità di governo, stato federale, integrazione europea.
Abbiamo vissuto una ricchissima e prolungata stagione costituente successiva al secondo dopoguerra e la rapida, forse ancora non pienamente compresa e certamente incompiuta, stagione di riforme elettorali dei primi anni novanta.
Da allora non siamo ancora riusciti a dare compiutezza al passaggio dallo stato dei partiti allo stato maggioritario, dallo stato centralista allo stato federale, dallo stato che guardava verso l'Europa allo stato che è già in Europa, anzi, di più, ad uno stato che sia già Europa.
Dobbiamo tutti interrogarci sulle cause di questo insuccesso, perché nessuno di noi può cedere alla frustrazione di considerare il tema delle riforme come un tema privo di prospettiva o peggio come una questione che serve all'occorrenza o a prolungare le sorti di governi e maggioranze, ovvero a nascondere la mancanza di altre problematiche rilevanti.
Le riforme istituzionali non sono la stampella di una politica debole, di maggioranze poco coese, di governi gracili.
Le riforme presuppongono una Politica forte, credibile e autorevole; maggioranze coese che sappiano parlare con le opposizioni; minoranze fiere e non timorose di lavorare insieme lungo la prospettiva del rilancio del Paese.
Fino a quando le riforme sono interpretate o strumentalizzate come fattore di legittimazione o, se pregiudizialmente rifiutate, come elemento di delegittimazione dell'avversario politico, non producono coesione, ma disgregazione, scontro, paralisi.
A tutt'oggi sussistono ancora veri e propri pregiudizi storici e culturali.
Il primo pregiudizio riguarda il rafforzamento dell'esecutivo nell'assetto istituzionale.
In origine era più che comprensibile la diffidenza a dare al governo poteri e funzioni privi di un insieme di pesanti contrappesi, perchè il rischio di derive autoritarie rappresentava il ricordo di un periodo storico travagliato e drammatico dal quale si diramava la stessa stagione costituente.
Oggi il rafforzamento del ruolo e delle funzioni del governo è un dato acquisito e richiesto dalla stessa opinione pubblica, che valuta l'efficienza dell'azione degli esecutivi proprio in relazione alla capacità di risolvere tempestivamente ed in modo efficace i problemi dei cittadini.
Non possiamo rinchiuderci dentro la finzione dell'indicazione del candidato Presidente del Consiglio che però non è ancora elezione diretta del premier.
L'elezione diretta del Presidente del Consiglio - che non c'è sul piano formale, ma da tutti i cittadini è avvertita come già operante nel sistema - rappresenta un punto di chiarezza che non deve più spaventare.
Anzi proprio in quanto formalizzata è l'occasione per rafforzare, parallelamente all'esecutivo, gli stessi poteri di controllo del Parlamento.
Poteri che oltre ad essere rafforzati, devono, soprattutto, essere effettivi.
Uguale concretezza è auspicabile sul tema della legge elettorale.
Non esiste un modello astratto e perfetto di legge elettorale. La migliore legge elettorale è quella che dà chiarezza, che permette di comporre la moltiplicazione partitica e consente ai cittadini di conoscere, una volta chiuse le urne, qual è il loro governo e da quali forze è sostenuto.
Sul Parlamento e, segnatamente, sul bicameralismo, si innesca il secondo, per molti aspetti paradossale, pregiudizio. Da un lato, si parla di un nuovo Senato federale, Camera delle Autonomie, che dovrebbe concentrarsi sui rapporti tra Stato e Governi del territorio; dall'altro, di una Camera che dovrebbe semplicemente conservare le attuali competenze.
Alla lunga un simile approccio porterebbe a fare del Senato una nuova Conferenza Unificata, svuotando - e quindi svilendo - o duplicando le competenze dell'attuale Conferenza.
E a fare accentrare sulla Camera un elevato numero di competenze dove la rincorsa delle priorità e delle emergenze porterebbe inevitabilmente a tralasciare aspetti rilevantissimi come il controllo e la vigilanza.
Non si riforma il bicameralismo per sottrazione, tagliando da una parte e non tagliando dall'altra. Questa sarebbe una logica sterile.
Viceversa, il passaggio da un bicameralismo perfetto ad un bicameralismo paritario - secondo l'efficace espressione contenuta nel decalogo delle riforme di Giovanni Spadolini - rappresenta la chiave di volta del sistema.
Il Senato può essere l'elemento di raccordo tra la dimensione territoriale più piccola e la prospettiva più ampia dell'Unione Europea. Punto di saldatura e di sintesi tra sussidiarietà e solidarietà, il "Senato dell'Europa e delle Regioni" sarebbe il volano per imprimere al Parlamento la forza di una presenza vera, costante, incisiva su tutti i processi che toccano le esigenze più vicine alle realtà territoriali presenti nel Paese.
Un Senato riformato sarebbe l'interlocutore privilegiato della Conferenza Unificata, ma non un suo non richiesto e improbabile supplente.
Per questo un Senato riformato dovrebbe conservare l'elezione diretta dei propri membri; la possibilità di esercitare in via esclusiva o prevalente il controllo nei confronti sia del Governo sia degli organi comunitari sulle materie di propria competenza.
Inoltre, per chi rappresenta lo snodo tra sussidiarietà e unità nazionale, possono riconoscersi poteri di scelta dei componenti di tutti gli organismi di controllo, comprese le Autorità Indipendenti e poteri di decisione in via definitiva anche su provvedimenti legislativi che riguardano le proprie materie specifiche.
Non sfugge a nessuno che senza il coraggio di riforme innovative daremmo avvio ad una stagione di riforme permanenti e quindi inconcludenti.
E' necessario uscire da facili scorciatoie e comprendere il ruolo strategico dei punti di raccordo tra territori, governo, Europa.
Quanto sia di strettissima attualità una riforma profonda dell'assetto istituzionale lo dimostrano i dati inviati dall'Italia all'Unione europea sulla situazione dei fondi sociali europei destinati al sud e al centro-nord dell'Italia.
I dati sono stati pubblicati dal Ministero dell'economia sul sito regioni.it.
La spesa a valere sul fondo sociale europeo per il periodo 2007-2013, ammonta a 14 miliardi di euro
Emerge, ancora una volta, un notevole divario tra il sud d'Italia e il centro - nord d'Italia.
La capacità di utilizzazione delle somme, infatti, è di gran lunga superiore al nord rispetto al sud.
Il Mezzogiorno utilizza poco i fondi sociali europei.
Basta vedere i dati percentuali dai quali si evidenzia che la Sicilia, con il dato registrato del 2,26 per cento è ultima, seguita da Campania (2,37 per cento) e da Puglia (5,96 per cento).
Se si guarda invece al centro-nord, il confronto si rileva impietoso.
Spiccano infatti gli esempi del Veneto ed Emilia Romagna, che hanno già raggiunto una percentuale di fondi impegnati superiore al 40 per cento e della provincia autonoma di Trento che registra il record del 52 per cento di fondi già impegnati.
Il controllo sull'efficienza e l'utilizzo dei fondi europei è il banco di prova delle potenzialità delle stesse Province, che, per quanto di competenza, possono contribuire a sostenere l'utilizzo di fondi tanto più indispensabili quanto decisivi per il recupero di realtà economicamente più fragili e svantaggiate.
Esorto pertanto tutte le amministrazioni regionali e locali ad adoperarsi al massimo per utilizzare con più efficacia e celerità queste risorse che, proprio in un momento di difficoltà economica, costituiscono un aiuto fondamentale.
Ma anche per un esercizio reale dei propri poteri, le Province chiedono giustamente di essere inserite in un circuito flessibile e istituzionalizzato capace di garantire confronto, approfondimento, tempestività delle decisioni.
Va senz'altro accolta con favore la proposta di prevedere Conferenze tra i vertici esecutivi di Regione, Province e Comuni come sedi permanenti di confronto politico istituzionale e appare urgente individuare proprio nella realtà provinciale l'occasione per dare sintesi e offrire momenti di raccordo delle istanze che provengono dai comuni dei rispettivi territori.
In altri termini, occorre potenziare le forme di coordinamento dello sviluppo locale non solo nei settori della scuola, della formazione, del lavoro, ma anche del governo del territorio, dalle infrastrutture, all'ambiente, fino al coordinamento nei processi di programmazione economica.
I diversi Enti possono solo in un'azione sinergica offrire risorse e attivare le leve di uno sviluppo locale duraturo nel tempo.
Senza sinergia e coordinamento il rischio è quello di vedere disperso un patrimonio umano ed economico con un'azione disordinata.
Non possiamo cadere nella trappola di un federalismo disgregante o moltiplicatore della spesa pubblica.
Dobbiamo insieme gettare le fondamenta di un federalismo solidale che valorizza l'interesse nazionale nell'ottica della trasparenza e della responsabilità dei pubblici amministratori.
Responsabilità che i cittadini devono poter verificare e rispetto alla quale possono chiedere e pretendere chiarimenti, motivazioni, correzioni e anche inversioni di rotta.
La rinascita della fiducia nelle Istituzioni non può maturare senza il pieno coinvolgimento dei cittadini in una logica di massima apertura dei palazzi della politica al confronto e alla stessa critica di una cittadinanza attiva.
Ogni riforma vive nella realtà e rifugge l'utopia. Ci sono i tempi e i luoghi delle riforme.
I tempi e i luoghi delle riforme istituzionali sono quelli del Parlamento. Non si sono sedi alternative plausibili. Anzi, se le proposte e i dibattiti si moltiplicano senza un corrispondente e penetrante approfondimento nel Parlamento, si potrebbe ingenerare un meccanismo di discussione sterile che non realizza alcun risultato positivo.
Ogni contributo è utile, ma senza il raccordo con le aule parlamentari può rivelarsi effimero.
Le riforme sono necessarie, anzi indispensabili.
L'attuale sfida del nostro Paese è quella di essere al passo con gli altri Stati d'Europa.
Non disperdiamo la preziosa occasione che ci offre questa legislatura e poniamoci tutti con atteggiamento positivo per realizzare in tempi rapidi e con spirito costruttivo da parte di tutti gli schieramenti politici, quanto gli stessi elettori ci chiedono.
Sarebbe un prezzo troppo alto per il Paese ingenerare il sospetto che parlare delle riforme sia un parlare a vuoto per non cambiare nulla.