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Il Presidente: Discorsi

Ricordo di Camillo Benso, conte di Cavour

Intervento del Presidente Renato Schifani nell'Aula del Senato

Onorevoli Colleghi,
la ricorrenza della morte di Camillo Benso, conte di Cavour, proprio nel cuore delle celebrazioni per il 150° anniversario dell'unificazione politica italiana, è una grande occasione non solo per ricordare lo statista che con il suo impegno e con le sue intuizioni è stato uno degli artefici dell'Unità ma anche per un'ulteriore riflessione sugli eventi fondativi dello Stato nazionale.
Pur «lontano dalla tradizione culturale italiana», secondo la definizione di Federico Chabod, e più attento alle grandi trasformazioni che investivano l'Europa occidentale, nel corso degli anni Cavour maturò una grande attenzione nei confronti della Penisola, i cui destini vedeva legati a quelli continentali: e il piemontese che si sentiva europeo grazie alla formazione cosmopolita divenne presto italiano, come ha ricordato Rosario Romeo.

Mosso da una fede quasi religiosa nel Progresso dell'umanità, riteneva che la libertà politica e quella economica, intimamente legate ai suoi occhi, dovessero essere il motore dell'opera di «incivilimento» delle società.
La libertà di commercio e lo sviluppo delle banche e delle ferrovie, a suo avviso, avrebbero generato una prosperità diffusa e aperto all'Italia le porte del mondo moderno, ponendo fine all'inquietudine che tormentava il Paese.

L'unificazione economica e il tramonto dell'egemonia asburgica erano quindi indispensabili alla formazione di uno Stato nazionale, a sua volta premessa necessaria al consolidamento di una società liberale.
Lasciando agli storici il compito di individuare l'ampiezza del disegno politico originario di Cavour - se cioè avesse in mente fin dai primi atti di governo una vera e propria «idea italiana» e dunque un progetto politico esteso all'intera Penisola - è certo comunque che egli, pur ritenendo «essere la storia una grande improvvisatrice», come affermò in un discorso parlamentare del 1857, non si fece sorprendere dagli avvenimenti.
Convinto della necessità di attuare profonde riforme per evitare dannose rivoluzioni, avviò nel Regno di Sardegna un rinnovamento dei gangli vitali dello Stato, anche mediante un massiccio avvicendamento del personale, soprattutto di vertice.
In questo modo favorì la creazione dei quadri politici e amministrativi della nuova Italia, pur ancora di là da venire, mentre le innovazioni economiche e finanziarie, non disgiunte da un utilizzo ardito del debito pubblico, aprirono la strada alla formazione di un ceto dirigente e di una realtà imprenditoriale che assicurarono il consenso sociale all'accordo politico del «connubio», da lui considerato il più bell'atto della sua vita politica.

Nell'operazione di rimodellamento dello Stato e di ricerca del consenso sociale fu attento a ricercare e ottenere l'appoggio della nuova realtà dell'opinione pubblica, alla quale spesso si richiamava, come a «una specie di fumo» che «tosto o tardi trasformandosi in vapore solleva i maggiori ostacoli e vince le maggiori difficoltà».
Consensi minori raccolse invece presso la popolazione la sua politica in materia ecclesiastica e soprattutto la soppressione degli ordini contemplativi e mendicanti e l'incameramento dei loro beni, giustificati - nel discorso parlamentare del 17 febbraio 1855 - sia da considerazioni di natura finanziaria sia dalla convinzione di saper discernere quali fossero gli ordini religiosi ancora «utili» alla Chiesa e alla società.

I grandi mutamenti sullo scenario internazionale gli consentirono di uscire dall'impasse della politica interna, nella corretta convinzione di poter ottenere risultati concreti solo agendo sul piano europeo, dove stava mutando il rapporto di forze fra rivoluzione e conservazione.
Abile nel giocare su più tavoli nei momenti decisivi - il Congresso di Parigi, l'armistizio di Villafranca, la spedizione dei Mille e l'occupazione delle Marche e dell'Umbria pontificie -, ebbe la felice intuizione di perseguire una «rivoluzione italiana con un re» - tanto temuta invece dal repubblicano Giuseppe Mazzini - per superare gli assetti territoriali fissati al Congresso di Vienna ed evitare al contempo il rischio di una deriva sovversiva.
In questo modo riuscì a «costituzionalizzare» la rivoluzione, anche assumendo rischi che non escludevano l'azzardo di fronte a fattori non previsti ma avendo sempre come stella polare il Parlamento.

«Io credo che con il parlamento si possano fare molte cose che sarebbero impossibili per un potere assoluto», scrisse nell'ottobre 1860; un'affermazione che tuttavia non escludeva comportamenti più audaci, come in occasione degli accordi di Plombiéres, quando confidò al fidato collaboratore Costantino Nigra: «Controfirmando un trattato segreto che comporta la cessione di due province, io commetto un atto altamente incostituzionale», aggiungendo tuttavia: «Credo di poter garantire moralmente l'adesione del parlamento. Il re e io non ne dubitiamo».
L'annessione del Mezzogiorno fu il suo capolavoro politico.
Duttile e pragmatico, di fronte a vicende il cui esito non era affatto scontato, riuscì a tenere sotto controllo tutte le forze in campo, eterogenee e fra loro divergenti, e a indirizzare gli avvenimenti verso la conclusione unitaria, così imprevista da fargli dichiarare, nel dicembre 1860: «Ora che la fusione delle varie parti della Penisola è compiuta, mi lascerei ammazzare dieci volte prima di consentire a che si sciogliesse».
Si accinse quindi ad affrontare le grandi questioni sorte con l'Unità, di cui vedeva la complessità: «Il mio compito - ebbe a scrivere nel febbraio 1861 - è più laborioso e penoso ora che per il passato. Costituire l'Italia, fondere insieme gli elementi diversi di cui si compone, mettere in armonia il nord e il mezzogiorno presenta tante difficoltà quanto una guerra contro l'Austria o la lotta per Roma».

Più che di fare gli italiani, che esistevano da secoli come nazione, si trattava di fare l'Italia, cioè di costruire lo Stato unitario nelle sue articolazioni.
Potenzialmente favorevole a forme di autogoverno delle autonomie locali, non intendeva mettere a repentaglio l'Unità faticosamente conseguita e, a scanso di equivoci, dichiarò in Parlamento: «Dopo tutto quello che d'impensato e d'insperato avvenne nella penisola, ognuno indovina che noi non siamo federalisti».
Si arenò dunque l'idea di una «scentralizzazione» e il modello dello Stato burocratico e centralizzatore prevalse per ragioni politiche, legate soprattutto alla grande resistenza all'annessione in atto nell'ex-Regno delle Due Sicilie.
Cavour, infatti, era molto scettico sull'opportunità di salvaguardare l'autonomia dell'antico regno, come si espresse in una lettera scritta al fedele collaboratore Costantino Nigra due settimane prima della proclamazione del Regno d'Italia, dove giudicava necessaria «la distruzione di quella fatale autonomia» del Mezzogiorno «che rovinerà l'Italia se non ci rimediamo».
Convinto, come tanti, della ricchezza naturale delle regioni meridionali, a suo giudizio abbrutite da secoli di malgoverno, confidava negli effetti positivi che sarebbero derivati dall'unificazione del mercato nazionale ma non poté assistere alla disillusione degli anni postunitari e alla nascita della Questione Meridionale.

Quanto alla Questione Romana, capitolo della più ampia questione cattolica, nei discorsi parlamentari del marzo 1861, dopo aver sostenuto che solo Roma - dove però non volle mai recarsi - poteva essere la capitale del nuovo Stato unitario perché era l'unica città che non avesse memorie solo municipali, proclamò la formula «libera Chiesa in libero Stato», cui era sottesa la scelta della separazione.
Questa impostazione, com'è noto, è stata superata nel tempo da una politica di conciliazione che ha prodotto fra le due istituzioni rapporti equilibrati e fondati sulla collaborazione e sul rispetto.
Cavour scomparve il 6 giugno 1861, all'età di cinquant'anni, senza poter contribuire allo sviluppo e al consolidamento di quella costruzione politica, non esente da crepe ma tuttora salda, che in modo determinante ha contribuito a erigere.

Alla sua memoria, l'Aula del Senato rende oggi omaggio, per la testimonianza di un uomo delle Istituzioni, di autentico e coraggioso servitore dello Stato, che ha accettato di lavorare per l'Italia, sapendo che altri avrebbero raccolto i frutti della sua instancabile opera.



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