Ricordo del giudice Rocco Chinnici
Una mattina di venticinque anni fa, sulla porta della sua casa, cadeva barbaramente assassinato il Consigliere Istruttore Rocco Chinnici.Per la prima volta, nella tragica storia di questa città, la mafia aggiungeva viltà a viltà, affidando ad un ordigno esplosivo il truce compito di dilaniare le carni di un grande servitore dello Stato, quindi un acerrimo nemico del potere criminale.
Accanto al magistrato cadevano, in quel giorno terribile, altre tre persone: due componenti della sua scorta, il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi e l'appuntato Salvatore Bortolotta, ed il portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi.
Rocco Chinnici stava offrendo un contributo determinante alle prime azioni giudiziarie in grado di colpire efficacemente lo strapotere mafioso: sotto la sua direzione, l'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo divenne il fulcro di nuova stagione della lotta alla criminalità organizzata; forse - possiamo dire - della prima vera lotta condotta dall'autorità giudiziaria con tutti gli strumenti a sua disposizione. Una parte di questi strumenti fu forgiata dall'entusiasmo e dall'inventiva di quel grande magistrato, come il pool antimafia, di cui fu l'inventore e - fino alla morte - l'instancabile animatore.
Per ottenere dal Legislatore gli strumenti normativi adeguati alla sua lotta, Chinnici non esitò a levare la sua voce, come fece nel 1982 al Convegno di Castelgandolfo, quando chiese con forza l'introduzione nell'ordinamento del reato di associazione mafiosa. La sua straordinaria capacità di analisi e le sue intuizioni, unitamente all'innegabile coraggio dell'uomo, lo resero naturalmente - e direi quasi inesorabilmente - un profeta e un pioniere dell'antimafia.
Paolo Borsellino, nella prefazione alla raccolta dei suoi scritti pubblicata nel 1990, riconosce che già nel 1981 Chinnici mostrava una visione del fenomeno mafioso non molto diversa da quella svelatasi più tardi, dopo la sua morte, con le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e lo storico risultato del primo maxiprocesso. Altrettanto lucida e ferma, però, era la sua analisi nel rifiutare qualsiasi confusione tra il popolo siciliano e la mafia, ritenendo quest'ultima una realtà oppressiva ma minoritaria, in grado di imporsi esclusivamente attraverso la paura.Anche per questo, Chinnici fu antesignano di una lotta alla mafia non esclusivamente giudiziaria, ma aperta a tutte le iniziative capaci di diffondere la cultura della legalità.
Non esitava mai ad incontrare i giovani, gli studenti e le associazioni, per raccontare la realtà oppressiva del potere criminale e lanciare il suo instancabile allarme contro la droga, nella cui diffusione vedeva un vero e proprio crimine mafioso contro l'umanità, ancor più odioso perché compiuto ai danni delle giovani generazioni. Il suo impegno era motivato da queste semplici parole: «Da soli non ce la faremo mai».
Se oggi vediamo balenare all'orizzonte il traguardo della vittoria finale, un traguardo ancora lontano ma - finalmente - realmente possibile, lo dobbiamo anche al suo straordinario contributo.
«Sono i morti che uccidono i vivi»: si legge in un verso di un grande tragediografo greco nato in Sicilia. Quella cultura di morte ha voluto sopprimere quattro uomini liberi e vitali, ma non è riuscita ad ucciderli fino in fondo. Essi sono vivi nella lotta quotidiana della Magistratura, delle Forze dell'ordine e di tutte le Istituzioni, e nella dolorosa memoria di Giovanni, Elvira e Caterina Chinnici e dei familiari degli altri valorosi caduti. A tutti costoro rivolgo il mio saluto commosso.
L'omaggio e la riconoscenza delle Istituzioni della Repubblica vanno inoltre all'autista Giovanni Paparcuri, che fu ferito gravemente nell'adempimento del suo dovere e ancora porta, nel corpo e nello spirito, i segni indelebili di quella violenza. Per tutti loro - caduti e sopravvissuti - valgono, oggi più che mai, le parole che il cardinale Pappalardo pronunziò nell'omelia funebre, citando il Salmo 36: «Conosce il Signore la via dei buoni, la loro eredità durerà nei secoli».