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Il Presidente: Discorsi

Dal Senato Regio al Senato Repubblicano

Autorità, Signore e Signori,
con emozione prendo la parola in questa sala simbolo e sede delle libere istituzioni del Comune di Firenze che ospitò poi la Camera dei deputati del Regno d'Italia.

Si coronava così l'aspirazione di tanti grandi fiorentini da Dante a Machiavelli per l'unità nazionale del nostro Paese.
Lo Stato unitario nacque insieme alle istituzioni parlamentari, anzi per certi versi ne fu il prodotto.
Il Parlamento subalpino, disegnato nello Statuto del 1848, ebbe origine sul modello inglese bicamerale. Lo stesso modello inglese, aveva ispirato, permettetemi di ricordarlo, la costituzione siciliana del 1812.
E in particolare, il Senato rispecchiava il modello inglese anche nella forma rettangolare dell'aula di Palazzo Madama a Torino.

Nella sua prima formazione il Senato era un vero Senato della Corona, rifletteva la società piemontese del primo Risorgimento, in esso ancora avevano un peso rilevante gli ecclesiastici, i funzionari del re e gli esponenti dell'aristocrazia terriera.
Fu questo Senato a sfidare più volte il Governo con posizioni rigidamente conservatrici.

Grazie alla flessibilità ed all'elasticità dello Statuto, i rapporti tra Governo e Parlamento si assestarono spontaneamente su una nuova architettura costituzionale, che inevitabilmente imponeva al Senato di nomina regia la ricerca di un diverso spazio politico istituzionale.
Decisivo, in questa prospettiva, fu il progressivo spostarsi del potere sostanziale di nomina dei senatori dal Sovrano al Governo, uno spostamento che fu formalizzato nel 1855 e permise così le cosiddette "infornate".
Nominando numeri consistenti di senatori il Governo riuscì infatti a fare del Senato una Camera solidamente governativa.

In modo profetico lo stesso Cavour, sin dal 1848, aveva ipotizzato di affiancare al sistema della designazione regia quello della selezione popolare dei senatori.
Questo dibattito entrò nel vivo dopo il 1882, l'anno della prima riforma elettorale voluta da Depretis, che portò l'estensione del voto per la Camera da 600.000 aventi diritto a oltre 2 milioni.

L'apertura del suffragio per la Camera bassa pose con maggior forza la questione della rappresentatività del Senato.
Si sviluppò un dibattito che offre ancor oggi spunti e riflessioni interessanti.
Il costituzionalista Luigi Palma ipotizzò un sistema misto in cui ai senatori nominati dal re si affiancassero senatori scelti con un'elezione di secondo grado dai collegi che avrebbero dovuto ricomprendere gli appartenenti alle 21 categorie previste dallo Statuto albertino.

Queste idee furono riprese nei vari progetti di riforma che lo stesso Senato elaborò.
Il Senato regio, secondo l'efficace espressione di uno dei suoi presidenti, Giuseppe Saracco, poteva essere un freno, ma mai un ostacolo all'adempimento della volontà del paese.
Grazie al prestigio di molti suoi membri, il Senato sviluppò una delicata funzione di organo di riflessione cui si doveva ricorrere nei momenti di particolare tensione della vita del paese.
Più che un organo di ritardo costituì una garanzia contro mutamenti bruschi.

Come ha ben descritto Arturo Carlo Jemolo, i contrasti tra le due Camere si ridussero nel tempo; sempre più marginali erano le modifiche apportate dal Senato alle leggi approvate dalla Camera, mentre al Senato venivano presentati in prima lettura essenzialmente progetti con un accentuato carattere tecnico.

Il fallimento di ogni riforma circa la sua composizione finì per condizionare il ruolo dell'Assemblea di Palazzo Madama rispetto alla profonda trasformazione della vita politica dell'inizio del XX secolo.
Un ruolo criticato dai nuovi partiti: il partito socialista e il partito popolare.

Luigi Sturzo avrebbe voluto rinnovare il Senato trasformandolo in una Assemblea elettiva con rappresentanza diretta degli organismi nazionali, accademici, amministrativi e sindacali.
Vi era chiara in lui l'esigenza di avere un Senato capace di frenare il Governo espressione della Camera.
Questa tendenza fu ripresa e sviluppata nel corso dei lavori dell'Assemblea costituente.
Subito minoritaria apparve l'opzione monocamerale sostenuta dalla sinistra marxista.

De Gasperi, che seguì da lontano, ma che ebbe un ruolo decisivo nelle scelte fondamentali della Costituente, si battè per un sistema bicamerale che ritenne essenziale poiché, come affermava, "contiene un principio di equilibrio".
Cocente era la memoria dell'incapacità del Senato regio di frenare l'ascesa del fascismo e comunque solo da quel Senato si levarono, negli anni in cui il regime si fece più duro, voci di dissenso.
L'opzione bicamerale dunque apparve subito, sin dall'inizio dei lavori della Costituente, come un obiettivo, un postulato, un fine essenziale, un valore da salvaguardare.

La questione invece su cui si aprì un grande dibattito fu, ancora una volta, quella della composizione del Senato, in continuità con quello che si era sviluppato negli anni dello Statuto.
Il dibattito della Costituente mostra tutte le difficoltà di costruire tipi di rappresentanza diverse da quella politica.

Prima la difficoltà di combinare la rappresentanza politica con la rappresentanza di interessi, poi quella di combinare quest'ultima con la rappresentanza delle entità territoriali.
Un grande dibattito vi fu sulla scelta di quali realtà territoriali rappresentare (le regioni, le province, i comuni), in quale proporzione e con quali modalità.

Alla fine le difficoltà di costruire un efficace sistema di elezione di secondo grado, la disomogeneità del corpo elettorale, i rischi di una contrapposizione tra gli enti territoriali, i pericoli di uno schiacciamento delle opposizioni, inevitabile in un'elezione indiretta, come mostra il caso del Senato francese, si rivelarono insuperabili e oggetto di veti incrociati.

Si arrivò così alla scelta di eleggere il Senato a suffragio universale e diretto, a base regionale, in sintonia con la scelta regionalista del nuovo ordinamento.
Si rinviò poi alla legge ordinaria la scelta del sistema elettorale, che per il Senato, nell'auspicio della maggioranza dei costituenti, avrebbe dovuto essere con sistema a collegio uninominale.

Fu questo non un semplice compromesso, ma piuttosto una scelta che voleva profondamente marcare la discontinuità tra l'assetto statutario e quello repubblicano.
Era stato il carattere non rappresentativo del Senato regio a limitare, secondo gli spiriti migliori, la funzione di questa assemblea.

Con la scelta del Costituente, per la prima volta nello Stato italiano entrambe le assemblee sono di derivazione popolare e così tutta l'istituzione parlamentare viene ad essere legittimata secondo i principi della democrazia politica.
E' un dato non solo storico, ma anche giuridico, che si impone alla riflessione di tutti e che ha segnato e segna tutti i tentativi di riforma della composizione e delle funzioni del Senato che pure vi sono stati nei sessant'anni di vita repubblicana.

Giovanni Spadolini, che oggi onoriamo, che fu studioso, eminente politico e Presidente del Senato, nel presentare il volume che raccoglieva gli atti della prima riforma del bicameralismo approvata dall'assemblea del Senato nel 1990, scrisse: "Quella data dal Senato è una risposta a tutti coloro che, da più parti, irridono alla capacità del Parlamento di saper modificare un quadro normativo istituzionale che - senza dubbio - ha bisogno di cambiamenti anche profondi". Ammoniva sempre in quell'occasione Spadolini che "duplicazioni, ritardi procedurali, ripetizioni del bicameralismo perfetto sono oramai incomprensibili e ingiustificabili".

La soluzione che allora il Senato elaborò con un'ampia condivisione fu quella del cosiddetto bicameralismo procedurale.
Ne fu relatore il professore Elia, allora presidente della Commissione Affari costituzionali del Senato, studioso e parlamentare che voglio in questa sede ricordare ad un anno dalla sua scomparsa.
Nel presentare il progetto all'Aula del Senato, Elia affermò che quella riforma avrebbe responsabilizzato il governo e la maggioranza che lo sostiene nel procedimento legislativo, nel segno di quella razionalizzazione del sistema parlamentare che i costituenti avevano auspicato.

Un auspicio cristallizzato nel celebre ordine del giorno Perassi, rimasto inoperante per tanto tempo per il sostanziale blocco del sistema politico italiano.
Secondo quella riforma infatti una legge si sarebbe perfezionata, tranne in alcune materie che sarebbero dovute rimanere oggetto di una legge perfettamente bicamerale, dopo la lettura di una sola Camera, salvo che la maggioranza assoluta dei componenti dell'altra Camera ovvero il Governo, non ne avesse richiesto il riesame.

Negli anni successivi vi sono stati altri tentativi di riforma, che oggi possiamo e dobbiamo considerare, con la giusta attenzione.
Il Senato ed anche la Camera approvarono in particolare un altro testo nella XIV legislatura, questa volta di organica riforma della II parte della Costituzione, che conteneva soluzioni, quanto alla composizione del Senato e alle sue attribuzioni, sulle quali dovremmo tornare a riflettere.
Sono soluzioni senz'altro meritevoli di ulteriori approfondimenti che si iscrivono tutte in una linea di continuità con il dibattito che aveva segnato i lavori dell'Assemblea costituente.

Riprendendo una felice espressione di Giovanni Spadolini, quello di cui noi abbiamo bisogno è "un bicameralismo paritario e non più un bicameralismo perfetto".
Abbiamo bisogno di una semplificazione delle procedure e di un aggiornamento del nostro sistema bicamerale che però conservi il valore di questa scelta voluta dai costituenti.

Io credo che la storia del Senato prima e dopo l'unità e tante proposte di riforma offrano ancor oggi spunti e motivi di riflessione. Di fronte a una società sempre più complessa e ad una maggiore articolazione dei livelli di governo (da quello locale a quello europeo), occorre elaborare una riforma del bicameralismo che assicuri una più efficace capacità rappresentativa, ma anche la possibilità di introdurre elementi di equilibrio, di più lungo periodo rispetto al ciclo politico che segna la vita e l'attività dei governi e delle maggioranze che li sostengono.

La riforma del titolo V della parte seconda della nostra Costituzione ci impone di sviluppare e rafforzare quella capacità rappresentativa del Senato delle realtà regionali, che è iscritta già oggi nel testo della Costituzione.
L'elezione diretta del Senato, come indicato in Costituzione, resta un principio valido, da conservare proprio perché il Senato può farsi punto di saldatura tra Regioni ed Europa.

L'evoluzione dell'integrazione europea e il significativo passo in avanti rappresentato dal Trattato di Lisbona, di cui, dopo il recente esito della consultazione irlandese, aspettiamo la prossima entrata in vigore, impone una più efficace partecipazione dei Parlamenti nazionali alla definizione della normativa europea, nel segno di un rafforzamento del meccanismo di controllo nel rispetto del principio di sussidiarietà.

In questa prospettiva, un "Senato dell'Europa e delle Regioni" rappresenterebbe un salto di qualità straordinario perché sintesi dei principi di sussidiarietà e solidarietà, in un quadro di rafforzamento della stessa unità nazionale, che grazie all'elezione diretta dei senatori, non sarebbe solo di facciata, ma reale.

In questo momento difficile per la vita delle Istituzioni, le riforme sono un atto di responsabilità, un vero e proprio dovere morale verso i cittadini e il Paese.
Per fare le riforme è necessario reciproco rispetto, consenso degli elettori, equilibrio. Nessuno di questi elementi può mancare.
Questo non è in contrasto con il diritto-dovere del Governo di presentare al Parlamento le sue proposte sulle giuste riforme per modernizzare il Paese.
Analogo diritto-dovere va riconosciuto alle forze di opposizione al fine di porre in essere il massimo sforzo possibile per individuare momenti di sintesi condivisa.
Bisogna voltare pagina, creare la nuova Italia moderna ed efficiente.
La politica del confronto e dell'ascolto deve caratterizzare l'impegno di tutti quei soggetti a cui sta a cuore il bene della Nazione.
Bisogna creare un clima non antagonista tra le parti, anche se a volte può apparire conflittuale, ma rispettando sempre le diverse sensibilità.
E' giunto il momento di aprire in Italia il grande cantiere delle riforme, siamo davanti ad un bivio e dobbiamo scegliere l'unica strada che guarda al futuro.

Lo ripeto sin dal mio insediamento: non bisogna perdere altro tempo; abbiamo un appuntamento con la storia e non lo dobbiamo mancare.
Ogni rinvio è una sconfitta per l'Italia e per le sue esigenze vitali di rinnovamento.
L'autorevolezza e la serenità istituzionali non sono il presupposto, ma il risultato di una attività, che non faccia sentire nessuna parte esclusa o emarginata.

Ciascuno, nel proprio ruolo, può e deve contribuire a ricostruire una tela di rapporti perchè le fratture siano al più presto ricomposte per la crescita e lo sviluppo del Paese che tutti noi auspichiamo.
Tre mi sembrano gli aspetti sui quali serve urgentemente il confronto di tutte le forze politiche del Parlamento: il bicameralismo, il ruolo del governo, la giustizia.

Temi che di fatto ricalcano le competenze ed i limiti dei tre poteri fondamentali: legislativo, esecutivo, giudiziario.
Il bicameralismo va riformato recuperando il principio della specializzazione, dove invece finora prevale quello della duplicazione di identiche procedure.

Con le parole di Spadolini, potremmo pensare al passaggio dal bicameralismo perfetto al bicameralismo paritario.
In questa prospettiva, e solo a titolo di esempio, la Camera potrebbe decidere in via definitiva sulle leggi ordinarie modificate dal Senato.

Il Senato, invece, sempre a titolo esemplificativo, potrebbe decidere in via definitiva su tutti gli altri profili, quali, ad esempio, le nomine delle autorità indipendenti, i meccanismi di controllo e di inchiesta dell'attività dello stesso esecutivo, i meccanismi di controllo e di impugnazione in sede di Unione europea e di raccordo con le realtà locali.
Sarebbe comunque del tutto ragionevole ipotizzare che su temi fondamentali, quali, ad esempio, le riforme costituzionali, le leggi elettorali, i diritti inviolabili, entrambe le Camere potessero conservare perfetta e piena competenza.

Il rafforzamento del Governo può avvenire proprio nell'ottica della parallela valorizzazione dei poteri di controllo da parte del Senato e di indirizzo da parte della Camera.

Sul tema della giustizia occorre tutti insieme, maggioranza e opposizione, chiudere la lunga fase di transizione che ormai dura da quindici anni, per ristabilire attorno a tutte le Istituzioni, nessuna esclusa, prestigio, autorevolezza, rispetto.
Non basta però dire solo dei no, serve una politica del si, propositiva e concreta.

Attori di un rinnovamento profondo possono essere gli stessi magistrati che in questo Paese sono stati molte volte eroi coraggiosi e sinceri contro la violenza criminale, fino all'estremo sacrificio della propria vita.
Il rinnovamento e la riforma della giustizia non sono contro la magistratura, ma devono essere da tutti interpretati e indirizzati verso l'obiettivo di esaltare e valorizzare il ruolo, l'autorevolezza, il prestigio di chi assolve la propria missione di servitore dello Stato.

Riformare la giustizia non contro qualcuno, ma a favore di tutti i cittadini.
Riformare la giustizia per impedire che si offuschi il lavoro instancabile e imparziale dei giudici.
Se ci sono errori non possono più essere tutti i magistrati a pagarne le conseguenze, anche solo in termini di immagine.
La giustizia deve essere vista da tutti come opera imparziale e indipendente di chi considera lo Stato e i suoi cittadini gli unici scopi del proprio lavoro.

E' il fallimento della politica e delle Istituzioni non ascoltare o, peggio, assecondare una visione non corretta del potere fine a se stesso.
Non è e non deve essere così. La virtù civica, la speranza, la credibilità di ciascun ruolo e di ciascuna persona sono un preciso dovere verso il Paese, da parte di tutti.
Serve credere in qualcosa di giusto, per realizzare qualcosa di buono.

Eletti e servitori dello Stato non eletti, tutti e senza distinzione, dobbiamo essere e apparire davvero servitori fedeli della Repubblica, avendo come unico scopo il superamento delle ingiustizie, il bene e la crescita dell'intero Paese.

La consegna del premio a lui intitolato è un'occasione preziosa per tornare a riflettere sulla lezione di Giovanni Spadolini.
Come uomo di Governo e Presidente del Senato, Spadolini si impegnò con convinzione per una riforma e un aggiornamento delle nostre regole istituzionali.
A lui dobbiamo, come Presidente del Senato, un'importante revisione dei regolamenti parlamentari il cui filo conduttore sta nel rafforzamento del ruolo del Governo in Parlamento, da un lato e nella parallela costruzione di uno statuto dell'opposizione, dall'altro.

A lui come Presidente del Consiglio dobbiamo poi l'avvio di quel processo di riforma legislativa e regolamentare che porterà nel 1988 alla famosa legge n. 400 sulla Presidenza del Consiglio.
Presentando il suo secondo Governo alle Camere il 30 agosto 1982, Giovanni Spadolini propose con chiarezza e con parole ancora oggi illuminanti la questione del funzionamento delle istituzioni come "questione nazionale".

Il punto di partenza doveva essere, nella visione di Spadolini, "il rapporto tra Parlamento e Governo".
Scriveva: " va capovolta l'illusione ottocentesca, pervicace, nonostante le grandi tragedie europee, che la forza dei Parlamenti sia nella debolezza dei Governo e viceversa. Il rapporto infatti è continuo e costante: a un governo istituzionalmente forte corrisponde un parlamento forte, a un governo istituzionalmente debole corrisponde un parlamento debole".

Spadolini si batteva per una lettura delle disposizioni costituzionali che evitasse "quelle degenerazioni del parlamentarismo" che con tanta lucidità erano state paventate dai nostri costituenti, approvando il celebre ordine del giorno Perassi.
Certo, come ricordava Spadolini, sessant'anni fa il timore in alcuni settori politici di un "eccesso di forza dell'Esecutivo" impedì allora la scrittura di disposizioni costituzionali chiare, che dessero pieno sviluppo a quell'ordine del giorno. Così ricordava Spadolini.
Gli eccessi tuttavia di ingovernabilità che caratterizzavano i Governi di coalizione degli anni '70 e '80 mostravano a tutti, secondo Spadolini, la necessità di ritornare a quello che era il vero spirito dei padri costituenti e di lavorare quindi per un deciso rafforzamento del vertice dell'Esecutivo.

Ricordava Spadolini che "il problema della governabilità è un problema di tutte le società avanzate o postindustriali. La particolarità del caso italiano - proseguiva Spadolini - sta nel fatto che il nostro Governo è quello istituzionalmente più debole in Europa, sia per quello che riguarda il tempo delle decisioni legislative, sia per quel che riguarda tempi ed efficacia dell'azione amministrativa".

Spadolini fu protagonista di quelle riforme che, lungo gli anni Ottanta, portarono ad un oggettivo rafforzamento del ruolo del Governo in Parlamento: a partire dalla battaglia per l'abolizione della regole che imponevano il ricorso allo scrutinio segreto per l'approvazione delle leggi.
Ma in questo cammino vi è ancora della strada da fare, e anche qui, per noi, è illuminante la lezione di Giovanni Spadolini.

La prima proposta di riforma infatti, avanzata dallo statista fiorentino nel celebre "decalogo" illustrato alle Camere nel 1982 in occasione della presentazione del suo secondo Governo, è ancora all'ordine del giorno.
Si tratta del problema dei tempi della decisione parlamentare.

Denunciava allora Spadolini "la particolarità italiana per cui ogni sia pur modesta decisione economica rischia di essere comunque sbagliata per l'abisso temporale che spesso separa la deliberazione governativa dall'approvazione parlamentare e dall'attuazione governativa, per cui la decisione pubblica sembra muoversi in un universo temporale diverso rispetto ai tempi normali del lavoro, del mercato e della stessa vita dei cittadini".

Sono i temi del nostro dibattito odierno che ritroviamo qui esposti con lucida, direi profetica, chiarezza.
Il primo nodo sui cui incidere, secondo Spadolini, è un nodo ancora non sciolto, quello dell'"attuazione effettiva - sono parole di Spadolini - della previsione dell'articolo 72 della Costituzione di procedure abbreviate per provvedimenti legislativi urgenti, in particolare per iniziative collegate all'attuazione programmatica del Governo".

Un percorso, che si deve inserire, come auspicava lo stesso Spadolini, in un più generale processo di riforma delle nostre istituzioni.
Queste riforme e - torno a citare nuovamente Spadolini - "non sono affari di maggioranza, bensì investono la comunità politica nel suo complesso".

E della comunità politica riguardano - osservava Spadolini - una dimensione temporale che deve preoccupare l'opposizione: l'avvenire. Il sistema in cui i meccanismi di Governo sono bloccati per difetti istituzionali è un sistema senza avvenire e con scarse possibilità di ricambio democratico".

Con questo spirito auspico che venga ripreso in questa legislatura "il filo mai del tutto interrotto del processo di riforma delle nostre istituzioni" e portato a giusta conclusione il dibattito sulla riforma del bicameralismo, cui da storico e da uomo politico Giovanni Spadolini ha dato un contributo essenziale.
Con Giovanni Spadolini infatti anche "noi vediamo più chiaro che mai il concatenamento delle varie emergenze. Gli strumenti del governo, del legiferare e del controllare devono essere condotti ad una più alta soglia se vogliamo fronteggiare vittoriosamente i pericoli del presente, e di dominare con autorità democratica i complessi fenomeni dell'indecifrabile futuro. Ci sforzeremo - così concluse il suo discorso Spadolini nel 1982 -, nella fedeltà alla Costituzione nel culto della democrazia come ragione di cogliere tutti i segni del nuovo che avanza. Non ci faremo intimidire dai vecchi e nuovi terroristi, dai superstiti delle brigate rosse, o dai nuovi adepti della mafia e della camorra. Cercheremo di fare fino in fondo semplicemente il nostro dovere".



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