Lavoriamo per l'Italia della coesione
di Andrea Pietrobelli
Una legislatura all'insegna dei dialogo e delle riforme condivise. Per superare le tensioni che da più di dieci anni attanagliano la politica italiana e dare finalmente avvio concreto a una fase costituente. Non ha dubbi il presidente del Senato, Renato Schifani, che guarda con ottimisimo il momento storico che l'Italia sta attraversando. «Percepiamo tutti - spiega convinto - che il vento della Storia spinge in questa direzione». Un corso che, però, è necessario che sia accompagnato da una ferma volontà politica. L'Italia può e deve lasciarsi alle spalle il clima di scontro e cominiciare a lavorare sulle reali necessità dei cittadini. Come avviene in ogni altro Paese che si dica normale. «Ci sarebbe da chiedersi che cosa noi italiani intendiamo per Paese normale - si chiede ironico -. Ma questo forse è un tema più sociologico che politico. Certo, in termini di benessere morale e materiale abbiamo idee chiare e condivise e questa potrebbe essere una ragione in più per evitare sterili polemiche e rimboccarci le maniche per costruire una nazione nella quale identificarci e vivere bene».
Presidente, dopo un momento iniziale di apertura tra le parti, sembra che la politica sia ricaduta nel solito muro contro muro. Si tratta di una fase passeggera oppure quella dell'"eterna rissa" è per il Paese una maledizione?
«Credo fermamente nella possibilità del dialogo sulle riforme, condivise almeno da una larga parte dell'opposizione. Ci credo. È il tema che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano tiene al primo punto della sua agenda ideale e su cui non risparmia di richiamare l'attenzione delle parti politiche. Del resto, accanto al centrodestra che ha fatto delle riforme il cuore del proprio programma, anche il Pd mostra di possedere nel suo Dna la spinta riformatrice e Walter Veltroni ha confermato, anche di recente, l'esistenza di spazi di confronto. Oggi, dopo avere superato alcune prevedibili, ma inevitabili, conflittualità, possiamo ben sperare che si avvii quel tempo nuovo invocato soprattutto dagli italiani. Quanto all'"eterna rissa", penso che siano ormai pochi coloro che possano ritenerla utile al Paese o, più semplicemente, alle fortune di una parte politica. Del resto lo scenario partitico si è semplificato e, di conseguenza, le posizioni sono più chiare per tutti. Insomma, la politica è veramente sotto la lente d'ingrandimento dei cittadini e ciò fa crescere il senso di responsabilità».
A suo parere il clima di conflittualità quanto ha indebolito negli italiani il senso dello Stato e delle istituzioni?
«La sfiducia generica nei confronti di chi esercita il potere è una componente umana storica e, quindi, comprensibile. In Italia, però, abbiamo vissuto un lungo periodo di radicalizzazione dello scontro tra le parti che, se da un lato ha spinto i partiti alle recenti scelte di chiarezza, semplificazione e responsabilità, dall'altro ha finito con l'avvantaggiare i professionisti dell'antipolitica e cioè coloro che traggono profitto personale dalla moltiplicazione della sfiducia. Come sempre, invece, sarebbe utile diffondere equilibrio di giudizio e scrupolo nella conoscenza dei fatti reali. Credo, comunque, che la stagione di una rinnovata fiducia tra cittadini e istituzioni sia iniziata. Anche grazie al presidente Napolitano».
Crede che lo stato di necessità che stiamo vivendo, peggiorato dalla crisi economica internazionale, farà superare le attuali divergenze?
«Nessuno, neanche l'interlocutore più estremista, può desiderare un'Italia nel baratro. E la situazione economica mondiale è talmente incerta che la "chiamata" alla salvezza della collettività accomuna tutti gli uomini responsabili e cioè la stragrande maggioranza. Le riforme sono in Italia uno strumento di sviluppo non più rinviabile e su questa considerazione si basa la mia certezza sul percorso che ci aspetta. Non dimentichiamo che il cittadino è elettore il giorno in cui si reca alle urne. Poi, da qualunque parte politica stia, esige le soluzioni ai propri problemi, siano essi individuali o collettivi. Oggi più che mai le istituzioni sono consapevoli di essere al servizio di queste esigenze, perché viviamo una crisi veramente palpabile e per uscirne occorre il concorso di tutti».
La Giustizia è tornata a essere uno dei temi principali del dibattito politico. Intanto il Lodo Alfano è legge dello Stato. Crede che l'immunità per le quattro più alte cariche della Repubblica abbia finalmente normalizzato il rapporto tra i poteri?
«Il cosiddetto Lodo Alfano ha soprattutto garantito continuità d'azione all'esecutivo e ha evitato quindi che la governabilità potesse dipendere da ingerenze esterne non direttamente politiche. Ciò è una salvaguardia per la democrazia, per le scelte democratiche dei cittadini. Certo, il tema è stato conflittuale, ma alla fine anche questo passaggio si può considerare propedeutico ad affrontare con più serenità l'imminente stagione delle riforme».
Quali sono i motivi e le tappe che hanno portato a questa anomalia nel rapporto tra magistratura e politica?
«Come sappiamo, tutto partì dalla funzione di supplenza della politica che, a seguito dell'esplosione-implosione dei partiti nei primi anni '90, la magistratura si trovò a svolgere in Italia. I fatti successivi sono noti e desidero passarvi sopra. Ribadisco, invece, che poiché è obiettivo della politica creare armonia reale tra i poteri, questa non penalizzerà certo la magistratura. Il tema, posso dirlo con consapevolezza, non nasce oggi. Da tempo, infatti, tutte la parti politiche, tranne alcune frange, avvertono l'esigenza di una riforma costituzionale del Csm. Il tema è delicato e presenta diverse possibili soluzioni. L'obiettivo, comunque, è affrancare il Csm dalle storture cagionate dall'influenza della politica».
Quali saranno le direzioni da prendere per raggiungere questo risultato?
«La naturale positiva conseguenza della riforma del Csm sarebbe la separazione delle carriere che, in verità e grazie alla legge in vigore, sta già cominciando a realizzarsi. Inoltre, accanto a questi obiettivi, si allinea l'esigenza di nuove norme, da approvare con una maggioranza qualificata, sull'obbligatorietà dell'azione penale, che oggi è soltanto sulla carta. E infine, ma non meno importanti, ci sono gli obiettivi da tutti auspicati e relativi sia all'insopportabile e iniqua durata dei processi che alla certezza della pena, oltre agli indispensabili interventi per una nuova edilizia carceraria. Ecco, quella della Giustizia è tra le riforme su cui necessariamente dovrà essere trovato un vero dialogo tra maggioranza e opposizione, o almeno parte di essa».
Più in generale, quali sono in questo momento le reali urgenze del Paese?
«I temi dell'economia e quindi del lavoro assorbono gran parte dell'impegno. Ma abbiamo già visto come si siano già affrontati altri nodi urgenti come la sicurezza. Tra breve, inoltre, saranno in Aula le grandi riforme del federalismo e della Giustizia. Sono temi per lo più comuni anche al programma del Pd e per questa ragione ho espresso ed esprimo grande fiducia in un dialogo proficuo tra i partiti».
E quelle della sua Sicilia?
«Sviluppo e legalità sono le parole chiave legate alla mia terra. E non da ora. Devo dire che guardo con ragionevole ottimismo al futuro non lontano della Sicilia. La lotta alla mafia ha raggiunto negli ultimi anni traguardi veramente importanti sia con la cattura dei latitanti ai vertici di Cosa nostra sia grazie alla coscienza antimafia che ormai permea attivamente la società siciliana, anche in quella parte più esposta ai rischi e alle vessazioni che è l'imprenditoria. La politica sta sostenendo magistratura e Forze dell'ordine con l'adozione di nuove norme a danno dei patrimoni dei boss con il 41 bis ancora più severo, con le nuove iniziative della Commissione antimafia e con l'intensificazione della tutela del territorio».
E per quanto riguarda lo sviluppo economico dell'Isola?
«In Sicilia è finita la stagione della passiva attesa delle risorse e si è avviata quella della razionalizzazione produttiva. Su questo fronte, anche le Grandi Opere avranno un ruolo di primo piano. Penso certamente al Ponte sullo Stretto, ma anche a tutti gli altri progetti indispensabili per rendere più attraente investire in Sicilia. Il governo, dopo il definanziamento adottato nella scorsa legislatura, ha già avviato il processo di recupero dei fondi relativi. Insomma, entro pochi anni potremmo dire che l'Isola è il cuore, non soltanto geografico e culturale, dell'Euromediterraneo».
Sempre durante il suo discorso di insediamento lei ha parlato della questione settentrionale e di quella meridionale come due sfide prioritarie del nostro Paese. In quali termini potrà essere realizzato un efficace federalismo fiscale senza che si allarghi drasticamente il gap tra Nord e Sud?
«Lo sviluppo complessivo e stabile dell'Italia passa dalla grande partita del federalismo. Abbiamo la consapevolezza che si tratta di ridisegnare il Paese, da un lato senza togliergli nulla di quanto conquistato, dall'altro aprendo scenari alla nuova economia. Ecco perché è indispensabile acquisire da subito una nuova mentalità e credo che si sia veramente sulla strada giusta. Il Nord rivendica giustamente il riconoscimento della sua capacita produttiva. Il Sud non chiede più assistenzialismo, ma infrastrutture e questo il governo lo ha recepito. La politica, di conseguenza, dovrà garantire al Mezzogiorno quell'efficienza amministrativa diffusa la cui carenza in passato ha fatto pagare costi alti. Il federalìsmo fiscale è una sfida che è obbligatorio vincere e come tale comporta un'elevatissima assunzione di responsabilità. Mi si permetta infine, da siciliano, una riflessione direi interessata: se la Sicilia potesse contare per intero sui redditi prodotti nel proprio territorio, sarebbe una regione in attivo. Di conseguenza credo che anche su questo tema la sua classe dirigente debba far sentire senza incertezze la propria voce».
Presidente, le priorità dei Paese sono tante e necessitano di scelte responsabili urgenti. Ma lei dove si vede tra 10 anni?
«A commentare con lei com'è andata».