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Il Presidente: Discorsi

XXVII edizione del Meeting per l'Amicizia fra i popoli

"La ragione è esigenza di infinito e culmina nel presentimento che questo infinito si manifesti" - Discorso pronunciato all'Auditorium della Fiera di Rimini

Care amiche e cari amici, care giovani amiche e cari giovani amici, non sono qui a parlarvi di infinito, come potrebbe fare un filosofo o un teologo. Ma neanche solo a parlarvi di ragione, come farebbe un politico immerso nella dialettica quotidiana. Questo tempo di agosto, che almeno in apparenza sospende molte attività, mi ha consentito di riflettere con più attenzione.

Forse mi aiuta anche il nuovo impegno di Presidente del Senato della Repubblica, perché mi spinge anche ad una visione più ampia e complessa della situazione. Cercherò, allora, di chiarire quello che secondo me - nella mia vita personale e politica - è il nesso fra infinito e ragione.

Confesso di aver provato una qualche emozione quando mi avete invitato. Ammetterlo mi costa qualcosa, ma con voi lo faccio volentieri.

Il motivo per cui lo faccio volentieri è perché, con il vostro movimento, ho una conoscenza e un legame antico. Ho seguito la strada che avete percorso e, in più di una occasione, mi sono trovato d'accordo con le vostre posizioni.

Ma veniamo al tema di oggi: infinito e ragione.

Per noi cristiani l'idea di infinito è diversa da quella degli uomini di scienza, non ha riferimenti con la teoria della relatività, o con la ricerca della misurabilità dell'infinito o con la sua stessa conformazione fisica. L'infinito, per chi crede - io ne sono convinto - è piuttosto una dimensione della fede, del rapporto con la presenza di Dio e con l'eternità.

Dunque è il sentire - o meglio, come dice bene il tema del Meeting - un presentimento di una certezza religiosa.

Siamo, però, almeno in apparenza, ancora lontani dalla dimensione della ragione. Vediamo di avvicinarci di più.

Chi crede ha un sentimento della presenza di Dio, e ha, soprattutto, una speranza di incontrarlo. La speranza di incontrare Dio si traduce, poi, nella nostra vita concreta, in un impegno di ricerca continua.

La ricerca è, allora, secondo me, la chiave di relazione tra infinito e ragione. La ricerca di infinito entra nella vita di tutti giorni, nel concreto delle cose che abbiamo di fronte. Il cristiano ricerca Dio nella vita quotidiana, nella dimensione umana, anche in quella civile e politica. Infinito ed eternità si alimentano dentro di noi, ogni giorno.

Non in una astratta proiezione futura, lontana dalla realtà, come pensavano i mistici medievali o, potremmo anche dire, come pensano taluni fondamentalisti contemporanei.

Dunque, l'infinito si può trovare dentro di noi, ma anche dentro le cose parziali che viviamo, quelle che facciamo, ogni giorno.

Ecco, allora, che per muoversi ogni giorno tra le cose, serve la ragione. La ragione diventa elemento essenziale per stare dentro le cose, per capirle, per orientarle.

La ragione diviene così, per il cristiano, anche responsabilità delle cose della vita, dentro quello che facciamo e viviamo. Ognuno nella sua realtà concreta.

Vi avevo detto, in apertura, che non avrei parlato di infinito o di ragione in senso teologico o filosofico. Ho voluto, però, raccontarvi, sinteticamente, quello che è il mio approccio personale, in genere quello che tengo per me, ma che ho voluto parteciparvi.

Capite così, anche il senso della mia emozione, con voi, perché mi avete un po' costretto a darvi conto di quello che sento. Infatti avete dato a questi vostri incontri, nel corso degli anni, un bisogno di sincerità, che non è usuale nei rapporti sociali e politici.

La bellezza del Meeting è proprio in questa sfida di stare con Voi, di incontrarvi, con semplicità e concretezza. Trovandoci così, insieme, rafforziamo la nostra comunità. Una comunità che, anche se non si manifesta nella quotidianità della vita, tocca certamente molti dei comuni ideali più profondi.

Prima di venire ho, a lungo, pensato a cosa dirvi, con il mio bagaglio di impegno sociale e politico. So bene, infatti, che il Meeting non è un luogo di Conferenze accademiche, né uno dei tanti convegni politici estivi. E', per voi, un appuntamento nel quale confrontarsi, nel quale ascoltare, nel quale conoscersi. E' una occasione per dire qualcosa di vero e di concreto al tempo stesso.

Ho capito, infatti, che avrei dovuto parlarvi di me, non solo delle mie idee, ma di come ho cercato in questi anni di attuarle.

Quando mi avete invitato la mia memoria è subito andata ai primi incontri con voi, alle vostre prime esperienze di presenza universitaria.

Era il 1977, e quelli di voi, che hanno qualche anno (forse non i più giovanissimi, che non hanno vissuto quel periodo), sanno cos'è stato il '77 nelle Università italiane. Voi vi presentavate allora con una novità, una novità dirompente.

Per alcuni di noi, che operavamo nella società, nel lavoro, nei sindacati, nella politica, fu qualcosa di nuovo e di importante. Per altri, che avevano posizioni dominanti nella scuola e nell'università, la mobilitazione di questi giovani vivi e attivi, la nascita di CL, fu vissuta quasi come una provocazione.

Io, ricordo, ero uno dei dirigenti nazionali della CISL. Furono gli anni in cui Lama fu cacciato dall'Università di Roma La Sapienza dai movimenti estremisti. Ricordo, in quel periodo, che si diffuse, una sera, nella sede del Sindacato, la notizia che avevano aggredito un gruppo di giovani di CL all'Università di Roma. Alcuni erano stati feriti.

E allora - non ricordo bene per iniziativa di chi - si decise di organizzare, il giorno dopo, una manifestazione di solidarietà all'Università di Roma. Ricordo che fu invitato, allora, l'on. Zaccagnini, segretario della Democrazia Cristiana, e chiamarono me che non ero ancora segretario della CISL, ma ero già un sindacalista noto perché in anni in cui, in clima di unità sindacale, ci chiamavamo nelle assemblee sindacali (qualcuno dei più anziani di voi lo ricorda) "amici e compagni", io mi accorsi che, da un certo momento in poi, anche settori della CISL si chiamavano "compagni" saltando gli "amici".

Ero noto perché io, da quel momento, cominciai a rivolgermi anche agli esponenti della CGIL chiamandoli "amici", fino ad arrivare a dire in una manifestazione: «Adesso do la parola all'amico Lama».

Fui chiamato, dunque, per una cosa semplice, che io ritengo, però, importante. Nel confronto e nel dialogo, che è necessario nella vita nostra così complessa ed articolata nelle ideologie diverse, ogni parte vuole il rispetto della propria identità. Senza la propria identità non c'è neanche dialogo. Ecco perché chiamarono me.

Io mi presentai la mattina di buon'ora - erano le dieci - all'Università di Roma. Erano tempi in cui non era facile fare un'assemblea né studentesca, né sindacale.

Noi eravamo abituati, nelle grandi manifestazioni sindacali, ad avere un certo numero di attivisti - una specie di servizio d'ordine - perché nelle piazze, piene di lavoratori, s'infiltravano gruppi incontrollati di estremisti dichiarati che cercavano di disturbare tutto, e quindi eravamo un po' addestrati a queste cose.

Per queste ragioni mi preoccupai che quella mattina, all'Università, venisse anche una robusta rappresentanza di attivisti della CISL. Ricordo che il funzionario addetto al servizio d'ordine, preoccupato perché conosceva il clima dell'Università più di noi, e per i fatti che c'erano stati il giorno prima, mi riconobbe; si avvicinò e mi disse: «Ma, dott. Marini, chi sono questi signori?» . Ed io dissi una piccola bugia, perché da cattolico attento so che una bugia a fin di bene forse nostro Signore ce la perdona. Gli risposi: «Guardi che qui oggi c'è un'assemblea di studenti e lavoratori insieme», e così entrai.

Non venne l'on. Zaccagnini; venne l'on. Rognoni e cominciammo la manifestazione. Vi devo dire che fui colpito da quella sala piena come un uovo di ragazzi, ragazzi giovani e moltissime ragazze: un segno di novità per le nostre abitudini nelle assemblee di allora.

Cominciammo con dei canti, accompagnati dalle chitarre che suonavano. Mentre si parlava, il mio orecchio addestrato cominciò a sentire slogan che si avvicinavano. Eravamo dentro l'Università, e proprio questi gruppi più estremisti si erano organizzati con una manifestazione, per venire dove noi facevamo l'assemblea.

Bastò uno sguardo perché gli attivisti presenti, più addestrati a queste cose - uomini maturi e giovani, ricordo anche le categorie - si allontanassero; scesero e andarono fuori. Io sentii questi slogan minacciosi che si avvicinavano, quasi vicino alla sala dove eravamo. Poi, piano piano, - ero dentro, non vedevo - si cominciarono ad allontanare gli slogan e noi potemmo concludere la nostra assemblea. Penso che, probabilmente, avevano visto la presenza di persone più decise, preparate a queste cose, e mi raccontarono che questo corteo minaccioso si avvicinò alla sala dove eravamo, e poi, con una conversione completa, tornò indietro, continuando con gli slogan. Ma si allontanò, e noi finimmo quella bella manifestazione che a me aprì gli occhi sulla forza e il rilievo di questo movimento che nasceva.

Mi impegnai, insieme con altri, non solo perché avevamo molte idee in comune, a partire dalla lunga storia di condivisione dell'impegno sociale della Chiesa, ma anche perché ho sempre creduto in quei principi antichi - autorevolmente indicati alla fine dell'Ottocento - che spingevano i cattolici ad impegnarsi, con responsabilità, in forme di libera organizzazione e presenza nella vita sociale.

E, dall'inizio, ho guardato sempre con molta attenzione al Vostro impegno per i giovani e per gli studenti, specie per i più deboli. L'affermazione di CL, allora, nelle scuole e nelle Università, fu una cosa inattesa. Quasi un miracolo.

Voi riportaste una presenza viva dei cattolici nelle scuole e nelle università; in una realtà che sembrava ormai omologata al dominio di una sola ideologia e all'estremismo. Un'area di impegno sociale - questa dei giovani - verso la quale, anche una organizzazione fortemente radicata come il Sindacato, ha sempre avuto difficoltà di presenza vera.

Erano anni terribili, talvolta di scontro molto duro: tra fasce di movimenti giovanili, e anche di lavoratori, e quello che veniva definito "il sistema".

Ho ricordato l'episodio anche perché - per il mio modo di fare azione sociale e politica - ho sempre considerato importante che tutte le realtà organizzate potessero manifestarsi ed esprimere le loro posizioni.

Non tutti la pensavano così in quegli anni, anche nel Sindacato, anche in quello di ispirazione cristiana come la CISL. Talvolta l'intolleranza si sposava al settarismo, il conformismo uccideva il libero confronto.

Allora - 30-35 anni fa - era necessario sostenere, anche con forza, il diritto alla libera manifestazione del pluralismo e della partecipazione. Ma qualcosa, pur tra le difficoltà, si muoveva in senso positivo, nel profondo di una società che era ancora chiusa e rigida. La lunga stagione dei movimenti sociali e politici produsse una spinta quasi rivoluzionaria per modificare equilibri e poteri antichi. Le conquiste sociali, di emancipazione e di partecipazione, furono decisive.

Pensate ai nuovi diritti dei lavoratori, dei giovani, degli studenti, delle donne. Anche noi cattolici, negli anni dopo il Concilio, abbiamo percorso una infinità di strade, dando vita ad una molteplicità di esperienze.

Ognuno era alla ricerca della propria espressione religiosa e sociale. Sono così nate comunità e movimenti - testimonianze diverse e ricche - che hanno vivacizzato e articolato anche la vita ecclesiale, e quella dei cattolici impegnati nel sociale.

Questa lunga stagione ha determinato una straordinaria apertura: un vero e proprio cambio di passo della nostra società, con effetti culturali e sociali enormi.

Il mondo non era ancora globalizzato come oggi, ma tutte le società occidentali - non solo la nostra - conoscevano, quasi contemporaneamente, questi processi di apertura e trasformazione interna. Che, nell'Europa Orientale, avrebbero assunto una portata a dir poco epocale con il crollo dei regimi del socialismo reale.

I tempi che viviamo, se ci pensiamo bene, sono nuovamente difficili, anche se il tema di oggi è diverso, molto diverso Siamo, infatti, di fronte ad una spinta, per alcuni versi incontenibile, verso la frammentazione soggettiva, verso l' esasperazione individualistica.

Gli stessi interessi economici e sociali si sono disgregati e parcellizzati. La politica fa molta fatica a ricostruire nuove sintesi.

Persino la Chiesa, talvolta, appare in affanno di fronte alle imprevedibili sfide della contemporaneità.

Abbiamo tutti visto, in queste settimane, le enormi difficoltà - trasversali ad entrambi gli schieramenti politici - di delineare primi interventi di liberalizzazione e riordino delle attività e delle prestazioni di alcune non ampie, ma significative, categorie produttive.

La ricerca dell'interesse generale talvolta sembra cedere il passo alla tutela di quelli particolari, settoriali, corporativi. Una frammentazione, che è, ormai, anche individuale e individualistica.

Fino a rappresentarsi con forme di irresponsabilità individuale e collettiva; fino a pretendere forme di protezionismo platealmente confliggenti con l'interesse generale e con quello dei giovani che devono inserirsi nell'attività produttiva in particolare.

Una disgregazione che, sul piano dell'etica personale, si traduce spesso nella costante ricerca di un certo edonismo fine a se stesso. Ha scritto lucidamente Enzo Bianchi (il Priore della Comunità di Bose): «Viviamo in una società che si nutre di un nuovo ordine libertario, peraltro pieno di contraddizioni soprattutto nel definire la propria etica: ciascuno è invitato a vivere secondo il proprio desiderio, e ogni desiderio, se le risorse tecniche e scientifiche lo consentono, va realizzato; poi però si condannano gli esiti estremi di alcuni di questi desideri e si resta sconcertati, per esempio, di fronte agli abusi sui minori o agli stupri individuali o di gruppo».

Forti sono dunque le contraddizioni fra un esasperato libertarismo individuale e la difficile ricerca di una sufficiente etica comune, indispensabile per rafforzare il nostro senso collettivo di comunità civile.

In questo scenario nuovo anche noi, noi cattolici, che stiamo dentro una certa storia, rischiamo la dispersione e l'irrilevanza culturale. Questa difficoltà, che nasce dalla tendenza alla dispersione anche della nostra azione, per me viene prima ed è più rilevante delle stesse difficoltà dell'agire della politica.

La crisi italiana degli ultimi due decenni è anche il risultato di questo processo di crescita e di frammentazione insieme, nella vita sociale e personale. Tardano ancora risposte forti ed efficaci a questa crisi.

Risposte che impegnino la coscienza e la responsabilità politica, non come indicazione tattica, ma come orientamento strategico della nostra crescita.

La risposta politica che gli italiani hanno dato, da soli - con il maggioritario e con l'avvio della democrazia bipolare - è, per me, nel segno della semplificazione e della razionalizzazione del sistema politico.

Questa svolta, voluta dai cittadini a larghissima maggioranza - vi ricordo il referendum del 1993 che introdusse il nuovo sistema - ha significato anche, per noi cattolici, il venir meno di quello strumento politico che, largamente, ci rappresentava e ci sosteneva: la Democrazia Cristiana.

Una esperienza sociale e politica, questo è il mio giudizio, che ha rappresentato anche il più grande strumento collettivo di crescita e di emancipazione sociale e politica per il nostro Paese.

Nel sistema bipolare, quello che viviamo oggi, naturalmente i cattolici si sono divisi; ma non è questo, per me, motivo di particolare preoccupazione. Sono i nostri atteggiamenti, o talune nostre omissioni, che invece mi preoccupano.

Da un lato, infatti, è forte in alcuni di noi la nostalgia del passato e il sogno di poter ricostituire un'area partitica centrale a forte ispirazione cattolica, attraverso la quale difenderci o condizionare gli altri.

Dall'altro vi è la forte tentazione ad una sorta di diaspora silenziosa - che a volte è l'espressione di una forte sfiducia, altre invece di un orgoglio smisurato.

Fra sogni di un passato che non può tornare e dispersione individuale silenziosa, il rischio forte è quello, purtroppo, di un sostanziale disimpegno. Quello che mi preoccupa, però, non sono i comportamenti individuali dei cattolici, nei confronti della vita civile e politica.

Comportamenti per i quali nutro, naturalmente, grande rispetto. Mi preoccupano, invece, gli effetti di questi comportamenti dispersi che determinano una certa caduta di rilevanza dei nostri temi e argomenti più importanti.

Il mio è un ragionamento pre-partitico. Veniamo mobilitati solo a difesa radicale dei nostri principi più profondi. Per me, lì, è ovvio che ci ritroviamo. Però, quasi sempre su temi e casi davvero particolari, che altri gruppi, altri movimenti, pongono con forza nell'agenda politica.

Siamo costretti a rincorrere una agenda di temi dettata da altri, magari da ristrette minoranze attive e agguerrite.

Allora, la mia riflessione e la mia proposta, è nel senso di dirvi: perché non riprendiamo più responsabilità nell'agenda culturale e politica del Paese?

Perché non poniamo noi, con ragionevolezza e convinzione, alcuni temi e ci impegniamo a confrontarci con le altre culture per costruire le risposte più adeguate a certi problemi?

Voglio riferirmi, anzitutto, al delicatissimo tema della bioetica, sul quale - come qualcuno di voi sa, anche per le posizioni che ho sempre pubblicamente assunto - la prudenza della Chiesa sul rapporto fra scienza e frontiere della vita mi convince senza riserve.

Quindi ho idee ferme su questa come su altre cose; e da queste parto per rapportarmi con gli altri, perché dobbiamo dialogare e cercare soluzioni. Su questo ci troviamo ad un tornante della storia dell'umanità.

Voglio qui rammentare il severo giudizio di Habermas (non uno della nostra cultura) quando scrive: «Come dobbiamo interpretare questa possibilità di intervenire sul genoma umano? Come una crescita di libertà che chiede di essere disciplinata rigorosamente sul piano normativo, oppure come l'autorizzazione (che l'uomo si darebbe da solo) a produrre (in base alle proprie preferenze soggettive) trasformazioni che non hanno bisogno di autolimitazione?»

Su questo terreno assai difficile, lo dico sommessamente - al Senato, nelle scorse settimane - su di un tema di forte contrasto le posizioni più lontane dalla nostra impostazione, un primo passo di avvicinamento nel confronto aspro lo abbiamo compiuto.

Penso, poi, ad altri temi assai rilevanti per la nostra vita economica e sociale, sui quali dovremmo riprendere con forza una responsabilità comune di proposta.

Guardiamo, per esempio, al tema dell'integrazione degli extra-comunitari, e sono giornate per noi e io non credo per noi soltanto, spero per tutto il popolo italiano, dolorose per le tragedie che accadono nel Mediterraneo e per questo sfruttamento che vere organizzazioni operano nel mercato e nello spostamento di popolazioni intere, di tanta gente in difficoltà.

Guardiamo al tema dell'integrazione degli extra-comunitari, il cui apporto - lo voglio dire con grande chiarezza - è essenziale per la nostra vita organizzata e per la nostra economia.

Oltre 1 milione e mezzo di anziani e disabili è assistito a domicilio da una persona proveniente da altri Paesi; e non è pensabile che diminuisca questo numero, se si guarda alla struttura della popolazione italiana e al suo andamento. Anzi, questo numero crescerà.

Abbiamo interi settori dell'economia - in agricoltura, nell'industria, ma anche nei servizi - nei quali, senza questi lavoratori, non saremmo in grado di produrre nulla a condizioni competitive. Non c'è dubbio che le piccole e medie aziende del Nord possono svilupparsi solo perché hanno alcune centinaia di migliaia di queste lavoratrici e di questi lavoratori. Il nostro futuro di Paese è sempre più affidato a questo enorme e vitale processo.

Le risposte che abbiamo fin qui dato sono tutte solo in termini di preoccupazione per la sicurezza, o di difesa della nostra identità culturale che da questi afflussi sarebbe minacciata.

Paesi come la Germania o la Francia - e prima ancora gli stessi Stati Uniti d'America - hanno saputo realizzare processi di integrazione organici e impegnativi, offrendo accoglienza e cittadinanza a fronte, certo, rigidamente, dell'accettazione delle leggi civili e dell'ordinamento sociale del Paese ospitante, ma con una visione, con una idea più forte dell'accoglienza, visto che il nostro sistema ne ha vitalmente bisogno.

Non si tratta tanto di fare generica azione sociale, ma di sviluppare politiche - a livello centrale, regionale e locale - capaci di assicurare il pieno inserimento sociale, civile ed economico di queste persone e di valorizzare queste energie per la nostra crescita complessiva. L'obiettivo dovrebbe essere anche quello di favorire una piena integrazione culturale, senza timori per i profili religiosi, ma con attenzione a queste diversità.

Possiamo fare qualcosa insieme, noi cattolici che sappiamo unire la dimensione dell'infinito alla ragione, e che con la ragione ci misuriamo nel mondo concreto?

Vorrei fermarmi anche, brevemente, sul tema fondamentale della formazione e della scuola. Un tema al quale siete sempre stati voi profondamente sensibili. Un tema molto caro a don Giussani che fu, a lungo, professore di scuola.

Di fronte ad una società così articolata, come l'ho velocemente richiamata, dove molte culture devono integrarsi con la nostra e con il nostro ordinamento civile, non è forse necessario articolare una nuova offerta formativa, con l'occhio anche all'economia, oltreché alla società, perché le due dimensioni si intrecciano?

Io non sto parlando qui del contrasto - fin troppo vecchio - tra scuola pubblica e scuola privata, o peggio tra scuola di Stato e scuola cattolica. E'chiaro, infatti, che la scuola, la formazione, sono un essenziale dovere pubblico e poggiano su di un basilare diritto costituzionale.

Ma la mia osservazione è rivolta alla progettualità educativa, alle stesse modalità gestionali, nell'ambito di un quadro forte comune di diritti e doveri che attengono alla sfera pubblica.

Abbiamo riconosciuto, negli ultimi anni, l'autonomia delle scuole, ma questo non ha ancora determinato quegli esiti di maggior dinamismo progettuale e gestionale che ci attendevamo. Quella maggior capacità di rapporto con i diversi territori locali, la ricchezza delle diverse realtà locali.

Dobbiamo andare avanti più velocemente nel far crescere l'autonomia sul territorio, in un quadro di finalità e di programmi di base comuni.

L'obiettivo forte di oggi è quello di confrontarsi coraggiosamente per ritrovare ragioni di impegno comune, al di là della congiuntura politica.

Poi, solo valorizzando l'autonomia delle scuole, di ciascuna scuola - fuori dall'eccesso di norme burocratiche che la soffocano - sarà anche possibile recuperare e rilanciare l'impegno educativo e formativo degli insegnanti e quindi, di fatto, rimotivare tutta la scuola italiana.

Qui il discorso sarebbe lungo, e io credo che una delle responsabilità più importanti del nostro Paese - che viene anche da lontano (e comprende anche, nei tempi passati, le Organizzazioni sindacali, in cui io svolgevo un ruolo di rilievo) - sia stata la sottovalutazione del ruolo dell'insegnante, la figura dell'insegnante all'interno della scuola, problema centrale da riscoprire e da rilanciare.

Per non farla lunga, vi invito, invito quelli che hanno un'esperienza dietro le spalle, a ricordare nel percorso della propria formazione personale - e lo faccio con me stesso - cosa è vivo, oggi, nella nostra vita.

Certo, parlando di me, ha influito la famiglia, hanno influito moltissimo anche la parrocchia, i giovani dell'Azione Cattolica, la mia frequenza con questi ambienti. Ma, se debbo fare una graduatoria, non molto dopo arrivano due figure straordinarie di insegnanti che io ho avuto la fortuna di incontrare nella mia vita scolastica.

Anzitutto una signora che insegnava Lettere alle medie. Lasciamo stare la sua grande preparazione. Ma era un'insegnante capace con una classe di 20-25 alunni. Era capace di preparare e seguire le figure, le personalità dei singoli alunni, una per una.

Mio padre voleva farmi studiare perché, insomma, andavo bene a scuola. Ma le sue condizioni di operaio, con una famiglia numerosa da mantenere, nella cittadina dove eravamo, lo avevano fermato all'aspirazione giusta - sacrosanta dal suo punto di vista - di dire che questo ragazzo doveva studiare alle superiori. «Lo mandiamo alle magistrali - diceva - a svolgere un compito di grande rilievo: l'insegnante elementare, perché - diceva - come faccio a mantenerlo all'Università ?».

Credo che ogni padre responsabile faccia un ragionamento del genere. Questa signora, questa professoressa non parlò con me - io ero ragazzo - ma so che lo fece con altri; si presentò un giorno a casa mia, da mio padre, e lo convinse. Gli disse: «Questo ragazzo deve andare al Liceo». Dinnanzi all'obiezione, che vi lascio immaginare, di mio padre, gli disse: «Non si preoccupi, ci penserà lui».

L'altra figura che ricordo con grande affetto e riconoscenza è quella di un professore di storia e filosofia al Liceo: un laico, professore antifascista ed anticomunista, allora. Aveva come riferimento continuo la vera, grande esperienza delle maggiori socialdemocrazie del Nordeuropea.

Allora, nei primi anni cinquanta, si gloriava di essere socialdemocratico. Vorrei ricordare che ora è tornata di moda questa definizione ma, nel 1950, all'interno di una certa sinistra, era quasi un'offesa chiamare qualcuno "socialdemocratico".

Lui era uno studioso di queste società che erano cresciute e si erano sviluppate con il rispetto delle idee altrui, con principi veri di democrazia e con la costruzione di uno stato sociale che è stato un riferimento per tanti anni per tutti i Paesi europei, anche se oggi siamo in una fase diversa, ovviamente.

Queste sono figure che hanno inciso profondamente nella mia educazione e nella mia formazione. Le ho volute ricordare per mettere in evidenza lo straordinario rilievo che nella formazione, nella scuola, hanno i singoli docenti, con la loro responsabilità e il loro impegno.

Credo che, nel quadro attuale, sia necessario correre il rischio di maggiore autonomia, di un più forte contatto della scuola con la propria realtà locale, valorizzando gli apporti che dalle comunità locali possono provenire. In uno spirito, come si sta facendo, di aggiustamento di scelte già compiute negli anni precedenti e non di un polemico ripartire da zero, distruggendo tutto quello che abbiamo davanti.

Il «rischio educativo», come lo chiamava don Giussani, significa «non fuga dalla realtà, per affermare separatamente il bene,........ ma confronto con la realtà intera, confronto rischioso, se così lo si vuol chiamare; ma meglio si direbbe impegnativo».

Allora, mi chiedo, c'è la possibilità che i cattolici impegnati nella vita sociale e civile, sollecitino con serietà questi temi? Non tanto per rivendicarli o per imporli. Ma per affrontarli con altri che vogliono riformare l'attuale realtà, l'attuale stato di cose.

Penso che, se saremo capaci di forme intelligenti di collaborazione su questi temi fondamentali, potremo avere risultati che più si avvicinano alle nostre idee, alla nostra storia. Lo straordinario patrimonio della dottrina sociale della Chiesa è, infatti, il contributo più vivo e vitale che la storia del Novecento consegna ai cristiani e a tutta l'umanità. Un contributo che il grande Papa polacco ha rafforzato e aggiornato raccogliendo attenzioni straordinarie in ogni parte del mondo.

Voglio poi ancora soffermarmi su di un ultimo esempio - prima delle conclusioni - per richiamare la vostra attenzione sulla necessità di porre in agenda temi impegnativi e forti, legati ad esigenze vere del nostro Paese, e sui quali abbiamo una comune sensibilità e una comune storia.

Penso al completamento e al bilanciamento del federalismo, di questa nostra riorganizzazione della società, della società politica e delle sue istituzioni. Sono convinto che questo possa essere un altro degli aspetti fondamentali per rinnovare e far crescere il nostro Paese.

All'inizio del Novecento, quando il giolittismo non riusciva più ad assicurare la crescita del Paese, di tutto il Paese nelle sue tante diversità locali, la risposta della nostra cultura fu quella di partire dalle autonomie locali e regionali di Sturzo.

Il Fascismo spazzò via ogni volontà di coinvolgimento popolare dal basso. Abolì le elezioni amministrative e sostituì i Sindaci e i Consigli Comunali con i Podestà. La crescita delle autonomie locali è, dunque, avvenuta in ritardo in Italia.

La Repubblica riconosce e promuove le autonomie locali, dice la Costituzione, ma solo nel 1970 sono state istituite le Regioni con l'avvio del decentramento amministrativo. Poi è arrivata la riforma del Titolo V della Costituzione. La nostra riforma: quella del centro-sinistra.

Una riforma - dico io, e lo dicono anche molti di noi - troppo unilaterale e incompleta, che ha introdotto una notevole incertezza in molte materie ad ordinamento concorrente, come la Corte Costituzionale ha posto in evidenza.

Con soddisfazione posso rilevare come si sia fortemente allargata la consapevolezza che riforme di questa portata devono largamente coinvolgere le Forze presenti in Parlamento. Non si può procedere su queste materie a colpi di maggioranza. Abbiamo poi rafforzato i poteri locali con l'elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti.

Dobbiamo ora completare il sistema con l'autonomia fiscale, disegnando un modello di federalismo fiscale che valorizzi le risorse locali di ciascun territorio, ed assicuri una adeguata e moderna solidarietà tra le aree più forti e quelle ancora deboli.

L'articolo 119 della Costituzione lo prevede esplicitamente, con la definizione di un Fondo di solidarietà per le Regioni più deboli. In questo campo occorre un coraggio nuovo ed un approccio nuovo.

E' un campo nel quale né l'attuale maggioranza, né l'opposizione, possono rivendicare posizioni di assoluto esclusivismo.

C'è bisogno di uno sforzo comune. Le nostre idee sul valore delle comunità locali e sul rispetto delle loro risorse - ma anche la competizione globale che è ormai anche fra singole regioni - chiedono oggi di costruire con modernità nuovi equilibri.

Fermi restando i diritti costituzionali comuni di ogni cittadino italiano, bisognerebbe avvalersi di più, ad esempio, delle esperienze e dei metodi dell'Unione Europea, per responsabilizzare le aree più deboli. Irrobustire e rinnovare lo Stato nazionale, dunque, rendendo forti e vitali - anche dal punto di vista economico e fiscale - i governi locali.

Il nostro impegno di auto-organizzazione sociale, per la sussidiarietà sociale e istituzionale, può trovare nuova linfa vitale nell'articolazione piena e nel consolidamento dell'assetto federalista verso il quale siamo incamminati, ma che dobbiamo rapidamente completare.

Da questo potrà venire anche una risposta nuova alla domanda di efficienza degli apparati e dei servizi pubblici che viene, con insistenza, dal mondo economico e dal mondo imprenditoriale.

Possono i cattolici italiani che hanno una lunga storia di impegno sociale e democratico - e che hanno alla spalle una dottrina sociale della Chiesa più che mai viva e vitale - offrire un contributo riconoscibile di proposta e confrontarsi a fondo con gli altri per maturare queste fondamentali riforme?

Possono «i cattolici italiani, insieme a tutti cittadini italiani che sentono la responsabilità per il loro Paese - come ebbe a dire De Gasperi nei primi tempi della Repubblica - nuovamente impegnarsi per alcuni grandi obiettivi di crescita comune per i quali lo Stato - e da qui prende proprio forma e forza l'idea nostra di sussidiarietà - da solo, è ormai quasi impotente ?»

Io credo che possano e, secondo me c'è un grande spazio. Credo che dovremmo, tutti insieme, interrogarci a fondo e dare una risposta positiva forte.

Penso che neanche la forte dialettica politica che viviamo oggi, tra maggioranza ed opposizione, possa impedire ai cattolici l'iniziativa di un incisivo impegno culturale nell'interesse del Paese.

Prima di concludere, fatemi, però, fare anche qualche considerazione più direttamente politica, riferita alla nostra situazione di oggi. Il nostro Paese stenta ad inserirsi stabilmente in un percorso di crescita e sviluppo di cui, invece, ha urgente bisogno.

L'Europa e la Germania, in particolare, stanno dando segni di seria ripresa, più forte della nostra. Non devo snocciolare davanti a voi cifre e percentuali che indicano lo stato di sofferenza della nostra economia.

L'Italia chiede nuovo slancio. Occorre imprimere un'accelerazione al processo di modernizzazione del "sistema Paese". Lo sperano soprattutto i giovani - certamente anche i tanti giovani che sono qui, e che sono venuti al Meeting - che vedono progressivamente spostato in avanti il momento dell'ingresso stabile nel mondo adulto e sono spinti, così, a sognare meno e a creare meno.

A mio giudizio una premessa indispensabile è costituita da una sana competizione tra i due schieramenti in campo. Dico competizione, visto che viviamo nel bipolarismo, e non guerra. Il conflitto pregiudiziale tra le coalizioni è quanto di peggio si possa fare se abbiamo l'obiettivo di promuovere gli interessi generali o, come diremmo con un linguaggio più nostro, il bene comune.

Quindi, in una organizzazione bipolare, competizione sì, ma guerra, contrapposizione frontale tra i due schieramenti no. La democrazia bipolare può aiutare la crescita. Accade in tutte le democrazie mature.

La delegittimazione reciproca e lo scontro fine e se stesso possono paralizzare le nostre istituzioni e mortificare la nostra vitalità sociale.

Il nostro bipolarismo è ancora giovane e non troppo solido ma ha già prodotto alcuni risultati. Ne indico tre. Penso alle legislature che abbiamo alle spalle, le ultime due, che hanno completato il loro ciclo naturale; la politica italiana era abituata a continui scioglimenti delle Camere e a votazioni anticipate.

Penso alla decisa azione dei governi del centrosinistra per agganciare la nostra economia all'Euro.

Penso alla opportunità, in parte colta dal centrodestra nella passata legislatura, di poter portare largamente a compimento il programma presentato agli elettori nel 2001.

Oggi siamo in sofferenza su questo versante perché una pessima legge elettorale, che andrà modificata il prima possibile, ha determinato un evidente squilibrio tra i risultati elettorali di Camera e Senato. Questa legge ha indebolito la governabilità del Paese in una fase nella quale, le esigenze oggettive e le potenzialità richiederebbero, invece, una più sicura e solida azione di riforma e di governo.

Anche in ragione di questo - sono sempre più convinto che serva all'Italia un clima di dialogo e di confronto, alla luce del sole, tra maggioranza ed opposizione soprattutto su alcuni punti rilevanti tra cui l'aggiornamento di alcune parti della Costituzione, la riforma della legge elettorale ma anche la politica internazionale e alcune grandi scelte di politica economica.

Sul piano internazionale è evidente che il nostro multilateralismo deve accompagnarsi ad una presa di responsabilità per intervenire con il fine di pacificare e aiutare lo sviluppo civile ed economico di aree cruciali del mondo.

La pace è un processo che si costruisce con azioni concrete su diversi piani.

Nel nostro Paese dobbiamo rafforzare questo convincimento e questa responsabilità, nell'ambito di un comune impegno europeo e degli Organismi internazionali rivolti a tale scopo. Sfuggire da questa impostazione vuole dire non avere a cuore, per davvero, la pace.

So bene, come tutti gli italiani che seguono anche in maniera non approfondita le vicende politiche, che sulla scelta dell'Europa per il Libano - dopo la fine delle ostilità e con la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell'ONU - ci sono problemi aperti e se ne discute apertamente tra i Governi.

Io ho espresso, ed esprimo davanti a voi, grande soddisfazione per il fatto che le due Camere riunite, con le Commissioni Esteri e Difesa, hanno votato, per la prima volta in maniera solenne, in questa legislatura, unanimemente, la missione dei nostri soldati, dei nostri ragazzi. E quale cosa di maggiore rilievo, nel momento in cui il Paese deve inviare, per questioni di pace, un contingente di giovani militari, vedere il Parlamento che supera, almeno su questo, le divisioni e le contrapposizioni e vota concorde la fiducia e l'augurio a questi ragazzi che vanno in Libano per difendere la pace ed aiutare a dipanare un nodo altamente intricato.

E'stato un punto importante della nostra dialettica politica di questo periodo. Sul piano economico, poi, non possiamo eludere i nodi derivanti dalla necessità di razionalizzare la spesa pubblica e destinare, contemporaneamente, maggiori investimenti al rafforzamento delle reti infrastrutturali.

La nostra competitività ha bisogno di infrastrutture più moderne ed efficienti. Oltre a ridurre gli sprechi di spesa e a contrastare più incisivamente l'evasione fiscale - dobbiamo anche impiegare meglio le risorse per la spesa sociale.

Cresce il numero di anziani e il bisogno di nuove cure, mentre la vita media si allunga. Con le Forze sociali, in un clima di maggiore libertà per le scelte e le esigenze di ciascun cittadino lavoratore, bisogna costruire un nuovo equilibrio che dia più tutele nella vita anziana e assicuri trattamenti previdenziali adeguati per le giovani generazioni.

Questa è la nostra scommessa: Bisogna fare delle riforme in questa direzione. Ed io voglio ancora aggiungere: si ad una razionale flessibilità del lavoro, no alla condanna, magari a vita, ad un lavoro esclusivamente precario per le giovani generazioni.

Per fare queste cose occorre un clima di dialogo sulle grandi questioni, l'ho ripetuto molte volte, fra le Forze politiche. Occorre una maturazione del nostro bipolarismo e una responsabilità comune per il bene superiore del nostro Paese. Ne parlo dal giorno del mio insediamento alla presidenza di Palazzo Madama.

Ho visto che col trascorrere delle settimane questa linea ha raccolto parecchi consensi. E' urgente e necessario quindi che nel rispetto dei ruoli ci possa essere un dialogo costruttivo tra maggioranza e opposizione.

Penso che un'occasione possa essere offerta già dalla definizione della prossima Legge finanziaria. Il Governo, con il Documento di programmazione economica e finanziaria, ne ha delineato la cornice. Mi chiedo se non sia possibile tentare di individuare assieme, maggioranza e opposizione, alcuni terreni comuni di confronto, e di sviluppare attorno ad essi un approfondito dibattito parlamentare.

Naturalmente spetta al Governo ed alle Forze politiche sviluppare una strategia di questo genere. Da parte mia continuerò a insistere su questa linea, convinto come sono che un dialogo ed un confronto trasparente sono un frutto buono del bipolarismo, la prova della sua solidità e non la minaccia alla sua vitalità.

Ho cercato di raccontarvi come infinito e ragione siano due dimensioni forti della nostra vita e del nostro impegno civile e politico. Ho cercato anche di dirvi che ritengo necessaria una nuova stagione di impegno culturale comune per noi cattolici, pure in un quadro diverso, e forse anche con strumenti diversi, da quelli del passato. La trasformazione del nostro Paese passa, ancora una volta, dall'impegno sincero, libero e forte di noi cattolici. Io dico con orgoglio che «bisogna che il criterio della convivenza umana - come dice don Giussani nelle sue prime Tracce di esperienza - sia l'affermazione dell'uomo "in quanto è": allora l'ideale concreto della società terrestre sarà l'affermazione di una "comunione" tra le diverse libertà ideologicamente impegnate.» Dobbiamo tornare a porre con convinzione e chiarezza le nostre idee, e fare la nostra buona battaglia per migliorare la nostra vita sociale e civile. «I cristiani - ripete sempre Enzo Bianchi - non dialogano perché afflitti e contagiati dal relativismo trionfante, ma perché il dialogo fa parte del loro statuto costitutivo.» Dialogare, dunque, non vuol dire abbassare la soglia delle nostre aspettative etiche e civili. Vuol dire, piuttosto, affrontare la sfida concreta, a volte anche aspra, e l'impegno di realizzarle. Voglio dirvi, ancora una volta, in conclusione, che il vostro invito mi ha fatto piacere. Mi ha offerto una occasione per un nuovo incontro vero con voi, in mezzo a voi.

Vi ringrazio, dunque, con amicizia e con attenzione al vostro cammino.

Buon lavoro.

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