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Il Presidente: Discorsi

La libertà economica. Libera impresa in libero Stato

Discorso pronunciato Capri in occasione della 22ma Edizione del convegno dei Giovani industriali

Signore e Signori,
ho accolto con piacere l'invito del vostro Presidente perché questo appuntamento mi offre l'occasione di riprendere la riflessione avviata con voi lo scorso anno a Santa Margherita Ligure.
Le tesi esposte in apertura, che ho ascoltato con attenzione, sono interessanti e ricche di stimoli.

Il dottor Colaninno, gentilmente, mi ha fatto avere, nei giorni scorsi, la traccia della sua relazione e, quindi, sono venuto con qualche spunto e qualche considerazione già delineata.
Il punto di partenza del mio intervento muove proprio dal tema al centro del Convegno: la libertà economica.
Con un sottotitolo che precisa ancor di più la vostra impostazione che definirei subito, senza dubbi, liberaldemocratica: libera impresa in libero Stato.

Il nostro Paese, nei suoi centocinquant'anni di Unità nazionale (tanti saranno nel 2011), ha sempre riconosciuto la libertà di impresa come uno dei suoi fondamenti e uno dei suoi principi, non solo giuridici, ma culturali e politici.
La storia ci insegna, però, che le acquisizioni non sono mai "per sempre" e, soprattutto per il mutare della società, della sua organizzazione e dei sistemi di pensiero che orientano le scelte e le decisioni degli uomini, occorre tenere sempre viva e feconda la riflessione così che i principi trovino costantemente attuazione nel tempo che viviamo.

Non sono certo un imprenditore, anche se penso di conoscere i problemi della categoria perché, per tanti anni, ho svolto un lavoro che mi ha condotto al confronto quotidiano con Voi e con i Vostri rappresentanti.
Naturalmente non voglio sfuggire la responsabilità di ciò che rappresento e neanche i motivi di fondo dell'invito ad essere qui.
Penso infatti che mi abbiate invitato per parlare di politica, delle nostre Istituzioni, dello Stato, che è poi uno dei soggetti della Vostra riflessione.

E quindi su questi aspetti concentrerò il mio breve contributo.
La Costituzione della Repubblica - dopo un ventennio di dittatura che aveva promosso l'intervento pubblico diretto nell'economia, anche per sostenere attività strategiche in difficoltà - conferma e rafforza l'idea della libertà di impresa, come uno dei principi cardine della crescita democratica.
L'articolo 41 della Costituzione, infatti, afferma con chiarezza che:
"l'iniziativa economica privata è libera"
Questo concetto è ancora più largo e profondo perché non si limita all'impresa, ma si apre ad ogni possibile forma di azione economica, dando valore e rilievo, appunto, alla capacità di iniziativa.
Il desiderio di libertà e di crescita era, subito dopo la guerra, enorme e diffuso.

Con la Repubblica e la Costituzione si è data una risposta forte e duratura a queste spinte, a queste esigenze di emancipazione e di progresso della nostra società.
Il sistema politico che dette vita a tutto questo seppe anche accompagnare un lungo periodo di eccezionale espansione che, da Paese sconfitto e sommerso dalle macerie, ci ha condotto a divenire, alla fine degli anni Ottanta, la quinta potenza economica mondiale.
E, se oggi abbiamo perso qualche posizione nella classifica - pur rimanendo fra le prime dieci economie del mondo - è perché sono entrate nella scena internazionale alcune nuove e immense potenze, anzitutto demografiche, come la Cina o l'India.

Ma ciò che voglio sottolineare è che, nel primo tempo della nostra storia repubblicana, la politica - pur non esente da difetti - ha saputo creare e assicurare le condizioni per la libertà di iniziativa e per la crescita economica e sociale.
Non devo ricordare a Voi che il nostro Paese ha realizzato il più straordinario modello di piccole e medie imprese in Europa.
Un modello che ha fatto nascere alcuni milioni di aziende specializzate e innovative in tante zone del nord, del centro e del sud della penisola, consentendo ad altrettanti milioni di cittadini di divenire imprenditori, ovvero italiani che hanno saputo - e potuto - esprimere la loro capacità di iniziativa.

Tutto ciò non è avvenuto per caso - o per naturale evoluzione sociale - ma è stato anche reso possibile da un sistema che ha garantito una stabilità di fondo nella linea politica dei governi che pure si sono succeduti.
Un sistema politico che, attraverso libere elezioni democratiche - dove ogni partito si misurava con le proprie proposte e si confrontava con quelle degli altri - ha potuto affermarsi ed esprimersi, esercitando in pieno le responsabilità derivanti dal mandato affidato dagli elettori.

Un assetto plurale, che si caratterizzava con due maggiori partiti, e che sapeva generare coalizioni per governare, per affrontare concretamente i problemi del Paese.
I partiti politici hanno avuto, in quegli anni, una classe dirigente capace di fare un gioco di squadra.
Una classe dirigente dove certo non mancavano diversità di idee e, quindi, anche competizioni personali, ma nella quale era forte il senso dello Stato come vincolo insuperabile nell'interesse del Paese.
Ormai anche molti studiosi, molti storici - eliminate le scorie della propaganda ideologica - sono concordi nel sottolineare talune virtù, taluni punti di forza del sistema pubblico che ci ha caratterizzato per un lunghissimo periodo.

Anche il confronto tra maggioranza e opposizione non era certo tiepido.
Anzi, si presentava piuttosto aspro nella dialettica politica e negli scontri, anche personali, fra i leader.
Ma questo confronto, e questo conflitto, non oltrepassavano mai il confine delle regole costituzionali.
Non uscivano mai dalla comune condivisione dello Stato democratico e dei valori costituzionali, come telaio di riferimento invalicabile per la politica.
Anche nei passaggi più difficili della nostra crescita - penso, ad esempio, alle lotte sociali fra i lavoratori e le imprese alla fine degli anni Sessanta, o al terrorismo politico contro lo Stato degli anni Settanta - lo scontro tra maggioranza e opposizione è sempre rimasto nei binari istituzionali.

Anzi, proprio di fronte alle maggiori difficoltà per il Paese, quando vi erano forze o interessi che volevano mettere in gioco la nostra libertà, i maggiori Partiti politici serravano le fila ed erano capaci di intensi momenti di cooperazione per respingere i pericoli per la vita democratica e per i cittadini e per assicurare la stabilità e la libera crescita.
La politica aveva una base laica, pragmatica e definita, perché riconosceva l'autonomia e la libertà della società, dei suoi attori e delle sue indipendenti organizzazioni.
Chi governava aveva una forte identità culturale riformista e una precisa consapevolezza della propria responsabilità di dover affrontare, con equilibrio, i problemi.

Ma anche chi stava all'opposizione aveva la sua forte identità, il suo radicamento sociale vero, la sua capacità di rappresentanza.
L'opposizione - a lungo rappresentata, principalmente, dal Partito comunista italiano - lottava per affermare proposte diverse nel libero confronto parlamentare, e non temeva di appoggiare proposte del governo quando questo era ritenuto opportuno per il bene del Paese.
Vorrei puntualizzare, per riassumere questa mia prima parte di riflessione, che l'assetto politico che ci ha fatto crescere tanto, e in modo diffuso, non era certo perfetto, anche perché nessun sistema lo è.
E' stato però un sistema nel quale il rapporto tra la politica e il Paese era molto forte, e le Istituzioni prendevano decisioni, facevano riforme, affrontavano con una certa decisione i problemi.

Poi, negli anni Ottanta, questo equilibrio politico è entrato rapidamente in crisi.
Le ragioni sono tante, e meriterebbero studi più approfonditi di quelli fin qui compiuti.
Il Paese, già negli anni Settanta, era molto cresciuto, nella coscienza dei cittadini e dei lavoratori, ma anche nelle aspettative delle imprese e degli operatori economici.
Era davvero necessaria una accelerazione nella modernizzazione delle infrastrutture e dell'ambiente economico, nei servizi.

Gran parte delle imprese italiane aveva allargato i propri orizzonti dalla domanda interna ai mercati internazionali.
Già allora alla politica e allo Stato si chiedeva più efficienza e più velocità nelle decisioni.
Si creavano le condizioni per l'avvio di una fase straordinaria per tutto il mondo: una fase di competizione allargata, di competizione globale.
Nuove energie e nuovi attori emergevano nella scena mondiale, sfidando anche il nostro Paese ad un impegno per la crescita più arduo e determinato.
Quel sistema politico, che per lungo tempo aveva assicurato stabilità e crescita, si era però consumato.

Ci furono dei referendum popolari e l'introduzione del sistema elettorale maggioritario.
Si aprì un dibattito - per la verità, a volte, un po' artificioso e strumentale anche sulle riforme costituzionali - lasciando circolare tesi politiche che affermavano la necessità di radicali mutamenti nel nostro ordinamento.
Come se tutto l'enorme cammino di crescita - civile, sociale ed economica - percorso fino ad allora fosse da buttar via.

Ma, soprattutto, voglio sottolineare come quel nostro assetto politico, che a lungo aveva assicurato la governabilità, veniva trasformato in un sistema nel quale si creavano coalizioni politiche con l'obiettivo quasi esclusivo di vincere le elezioni.
Coalizioni abbastanza disomogenee - nel centro-destra e nel centro-sinistra - incollate al solo scopo di raccogliere quei voti in più necessari per sopravanzare l'altro schieramento.
Il problema concreto del governo - ovvero l'obiettivo essenziale di formare alleanze politiche con obiettivi omogenei - finiva per andare in secondo piano, e i programmi divenivano pagine di libri e non più concreta "azione politica" come amava dire Sturzo quando veniva provocato su questo argomento.

Abbiamo avuto, dal 1994 ad oggi, coalizioni di centro-destra e di centro-sinistra.
Il bipolarismo si è affermato. Ma senza giungere a maturità.
Abbiamo avuto nove Governi, alcuni dei quali anche con maggioranze parlamentari consistenti, ma questo non ha assicurato quella stabilità istituzionale di fondo e quelle risposte di riforma incisive, che sono, insieme, le condizioni per consentire al nostro Paese di cimentarsi ad armi pari nella competizione globale.

C'è insoddisfazione forte nel Paese.
C'è una campagna, come si dice, di "antipolitica", che ritiene di manifestare tutta l'insoddisfazione di molte fasce sociali, di molti dei nostri operatori che non si sentono più adeguatamente considerati in una visione comune.
Serve una maggior sobrietà della politica, in molte sue manifestazioni esteriori e in alcuni suoi costi diretti.
Sono convinto che tutto ciò è davvero necessario. Abbiamo già adottato prime decisioni. Dobbiamo andare avanti per eliminare contraddizioni e privilegi.

A questo punto, consentitemi però di tornare, brevemente, alle mie riflessioni del giugno 2006, al convegno di Santa Margherita Ligure.
Vorrei riprenderle anche per verificare con Voi quello che è accaduto rispetto alle mie valutazioni di allora.
Ero, e rimango, ben consapevole, come altri del resto, delle oggettive difficoltà indotte dal risultato elettorale non solo e non tanto per il governo - diciamo così - ordinario del Paese ma per condurre a buon esito alcune misure considerate di "interesse generale" e, soprattutto, quelle riforme di sistema unanimemente considerate necessarie per ammodernare il nostro impianto istituzionale.

Per queste precise ragioni, anche dalla vostra tribuna, auspicai l'apertura di una fase di collaborazione, di dialogo tra gli schieramenti parlamentari, intorno ad alcune grandi questioni veramente centrali per il Paese.
Non l'interesse di parte ma il bene più grande della nostra Nazione e di tutti i cittadini - sostenni - dovrebbe animare le forze di maggioranza e di opposizione nel cooperare affinché potesse chiudersi, finalmente, la lunga transizione e giungere ad un bipolarismo maturo.
Se oggi mi chiedeste cosa penso dei risultati delle mie sollecitazioni vi risponderei che ho serie difficoltà a rintracciarli su un piano politico generale.

Abbiamo ascoltato, in questi mesi, dichiarazioni di volontà costruttiva e visto, all'opposto, scavare trincee sempre più profonde.
Nei fatti manca ogni segno di dialogo tra le forze politiche per individuare un filo comune e dare così al Paese alcune riforme che tutti ritengono indispensabili anche se, proprio negli ultimi giorni, si è visto qualche spiraglio: auspico che si estendano e che vengano meno le ostilità espresse da alcune forze politiche.
Al Senato, dove svolgo direttamente la mia responsabilità, e dove gli schieramenti praticamente si equivalgono, il lavoro parlamentare è particolarmente complesso e anche - per usare un eufemismo - vivace.

Questa è la conseguenza naturale di una maggioranza estremamente limitata e, a volte, non chiaramente riconoscibile.
Devo dire però che, se guardo a circa l'anno e mezzo di lavoro che abbiamo alle nostre spalle, qualche risultato la caparbia volontà di ricercare il dialogo l'ha ottenuto.
Questo anche perché i Gruppi parlamentari di opposizione non si sono lasciati andare ad un ostinato ostruzionismo - anche se casi non sono mancati - ma in parecchie occasioni hanno accettato di dialogare per cercare soluzioni nell'interesse del Paese e del resto anche i gruppi di maggioranza hanno mostrato di saper accettare punti di vista diversi.
Così, solo per fare alcuni esempi, sono stati approvati i provvedimenti riguardanti la riforma dell'ordinamento giudiziario, quella dei servizi segreti, la sicurezza nei luoghi di lavoro, il disagio abitativo, la sicurezza stradale.

Non sta a me indicare i modi anche di parziale collaborazione fra le forze politiche, ma credo si debba sottolineare l'urgenza di operare perché il nostro Paese si possa giovare di quelle riforme di cui si discute da una ventina d'anni.
Riforme che non servono a questa maggioranza o a questo governo.
Servono a chi guida oggi, a chi guiderà domani, a chi è in Parlamento oggi e a chi sarà in Parlamento domani. Ma sono urgenti soprattutto per i cittadini, per chi fa impresa, per chi insegna nelle scuole e nelle università, per chi lavora in fabbrica o in ufficio, per chi sta a casa, in famiglia, ad assistere le persone più deboli.

Da Presidente di una Camera mi sforzo sempre di essere custode attento delle prerogative del Parlamento.
Nel merito però apprezzo l'orientamento assunto dal governo - con una Dichiarazione approvata nel corso del Consiglio dei Ministri in cui sono stati varati i provvedimenti per la manovra economica - di sollecitare il Parlamento ad approvare alcune riforme istituzionali.
Ne condivido l'indicazione, anche perché si tratta di progetti già in esame alla Camera dei Deputati.

Mi riferisco a pochi punti precisi: un primo rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio, il superamento del nostro bicameralismo perfetto con la riforma del Senato come Camera delle Regioni e dei governi locali, il varo del federalismo fiscale, la riduzione complessiva del numero dei Parlamentari.
Naturalmente non dimentico certo la riforma elettorale, per la quale non spetta a me dare indicazioni o ricette e sulla quale è aperta una discussione concreta da noi, in Senato.

Penso dunque, con chiarezza, come sottolineai a Santa Margherita, a pochi punti precisi di riforma, sui quali sembra esservi consenso crescente nei diversi gruppi parlamentari.
Pochi punti precisi, essenziali però per uscire da questa impasse, per attrezzare il nostro Paese alle sfide poste a tutte le nazioni da un cambiamento che non è fuori luogo definire planetario e per contribuire, anche da questa via, ad un recupero di quella credibilità e fiducia affievolitasi in tanti nostri concittadini, proprio a causa di anni e anni di parole mai divenute fatti, cioè riforme, cioè miglioramento della vita personale e collettiva di tutti.

Come approdare verso alcune realizzazioni dopo tanto vagare nel mare delle parole generiche quando, come osservavo prima, l'esperienza recente sembrerebbe non aiutare a sperare ?
Personalmente sono convinto che il tempo a disposizione per chiudere questa infinita transizione non sia molto, se non si vuole proseguire in quella specie di marcia del gambero già inaugurata dalla riforma elettorale approvata alla fine della scorsa legislatura.
Non c'è molto tempo per rimediare alla disaffezione e al disinteresse dei cittadini per la politica.

Per questo mi chiedo perché non possa prendere corpo, nei rapporti tra le forze politiche e parlamentari, una sospensione delle ostilità, un patto che consenta di approvare queste riforme così tanto urgenti e indispensabili per il bene dell'Italia e degli italiani.
Mi rendo conto che questo obiettivo è difficile.
Forse lo diventerebbe meno se le forze politiche accettassero di mettere da parte, almeno per un momento, interessi particolari per guardare a quelli del Paese.

Signore e Signori, concludo questo mio intervento.
L'obiettivo della politica deve tornare ad essere quello di ridare forza ed efficienza allo Stato, come strumento comune di cittadinanza, di libertà, di crescita sociale ed economica, di solidarietà.
Senza uno Stato autorevole e forte, senza una politica risoluta, si può ridurre la libertà di tutti, anche delle imprese.
L'obiettivo al quale io penso, e per il quale sto cercando di adoperarmi, è quello di una politica che torni ad assumersi responsabilità incisive, che assicuri maggiore efficienza alle Istituzioni e alle Amministrazioni.
Condivido, dunque, la tesi di fondo del Vostro incontro perché il presupposto della libertà di impresa - che significa, in concreto, nuova ricchezza per il Paese e futuro per i nostri giovani - è che vi siano Istituzioni autorevoli, una politica coraggiosa e determinata, rispettosa dell' autonomia della società e delle libere energie che si manifestano, delle iniziative economiche e sociali.

Vi ringrazio ancora per avermi invitato, consentendomi di proseguire un confronto che considero per me utile, e spero sia altrettanto per tutti Voi.

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