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Il Presidente: Discorsi

Cerimonia di commemorazione dei partigiani don Domenico Orlandini e Giorgio Morelli

Discorso pronunciato ad Albinea (RE) in occasione della cerimonia di commemorazione dei partigiani don Domenico Orlandini e Giorgio Morelli

Care amiche, cari amici,
sapendo di venire oggi a questa cerimonia, e ringrazio per l'invito l'amico Danilo Marini, ho ripreso tra le mani il libro, edito postumo, di Ermanno Gorrieri: "Ritorno a Montefiorino".
Rileggo con voi questo breve paragrafo: «La Resistenza fu una somma di atti di coraggio, di generosità, di imprese ardimentose, di impegno tenace, di dedizione agli ideali in cui ciascuno credeva. Non mancò la zavorra: quelli che vennero in montagna solo nei momenti facili, quelli che vennero per spirito di avventura, quelli che, avendo un'arma in mano, si lasciarono contaminare dal gusto del dominio su altri. Con le sue luci e le sue ombre la Resistenza fu portatrice di una carica innovatrice tesa a gettare le basi di una società più libera e più giusta. Nonostante i contrasti e i conflitti, la comune partecipazione alla Resistenza aprì la strada al confronto ed all'incontro di culture diverse nell'elaborazione della Costituzione».

Ho voluto riproporlo perché in queste parole rintraccio una delle descrizioni più vere e complete della Resistenza, questa stagione intensa e drammatica su cui poggia le sue fondamenta il nostro edificio repubblicano.
Esiste un nesso di continuità tra la giornata del Tricolore celebrata stamane a Reggio, in particolare nella sala ove il Tricolore nacque nel 1797 e questa cerimonia commemorativa di due "ribelli per amore" - secondo la straordinaria espressione contenuta nella preghiera di un altro partigiano e martire, Teresio Olivelli - quali furono don Domenico Orlandini, "don Carlo" e il giovane Giorgio Morelli, "il Solitario".

Furono infatti quattro partigiani delle Fiamme Verdi di don Carlo a issare il Tricolore il 24 aprile 1945 al balcone del Municipio e fu Giorgio Morelli a percorrere per primo in bicicletta, presa in prestito da Ermanno Dossetti, le strade di Reggio sventolando il Tricolore.
Questi due grandi uomini possono davvero essere definiti "ribelli per amore": amore della libertà; amore della patria italiana tradita dal fascismo che l'aveva trascinata in una guerra ingiusta e ingiustificata; amore della democrazia che andava restituita e ricostruita; amore della pace tanto attesa da quel popolo italiano che aveva sofferto lutti e dolori nei cinque anni di guerra.

A centinaia, a migliaia, uomini e donne, giovani e meno giovani, militari e civili, decisero di prendere le armi per liberare l'Italia dal regime nazifascista.
Fu grazie alla Resistenza se l'Italia potè dissociare le sue responsabilità da quelle del fascismo, acquisendo il diritto di essere riammessa nel consesso dei popoli liberi.
Nella liberazione furono sicuramente determinanti ed assolutamente necessari gli eserciti alleati americani ed inglesi che dalla Sicilia risalirono la penisola combattendo e sacrificando tante vite di giovani americani inglesi e dei paesi alleati.

Ma grazie ai partigiani potemmo dimostrare di aver dato un cospicuo contributo di lotta, di sacrificio e di sangue alla conquista della libertà e della democrazia.
Se la Resistenza non ci fosse stata si sarebbe potuto giustamente affermare che vent'anni di dittatura avevano abituato gli italiani a plaudire e a servire passivamente il più forte del momento.
Fu dunque, prima di tutto, un'esigenza di dignità civile e nazionale che spinse all'azione di fronte all'occupazione tedesca.

Nello stesso tempo la resistenza significò il ripudio definitivo dell'esperienza fascista: l'opposizione di pochi che, durante il ventennio, avevano affrontato esilio, carcere e confino, divenne con la Resistenza fenomeno di massa.
Ma soprattutto la resistenza ebbe il carattere di rivolta morale: contro il nazismo, contro il fascismo e contro tutto ciò che essi avevano rappresentato in Europa: negazione della libertà, oppressione degli altri popoli, culto della violenza, spirito di sopraffazione.
"Don Carlo" che tanto si era prodigato per portare in salvo i prigionieri alleati figgiti dai campi di prigionia con l'8 settembre capì per primo l'importanza del collegamento con inglesi e americani: paesi campioni di democrazia politica e parlamentare, oltre che liberatori. Fu infatti agente dei servizi segreti inglesi ed ottenne dal Ministro Casati del ricostituito governo democratico italiano il riconoscimento - sin dal 30 gennaio '45 - della sua brigata come Regio Esercito Italiano, con la denominazione "Battaglione Fiamme Verdi del Cusna".

Nelle azioni militari della sua brigata don Carlo si preoccupò sempre di evitare quelle che comportassero rappresaglie sulle popolazioni civili.
E si distinse anche per il rispetto dei prigionieri di guerra catturati, sia repubblichini che tedeschi; presso la sua brigata i prigionieri non subirono mai fucilazione, percosse o maltrattamenti.
Ma il grande merito di "Don Carlo" e delle sue Fiamme Verdi fu quello di restituire, nella cerimonia ufficiale del 3 maggio 1945 in Piazza della Vittoria, le armi usate durante la guerra armata della Resistenza.

Delle armi, infatti, non doveva più esserci alcuna necessità.
Purtroppo non fu così per tutti e le armi continuarono ad essere usate sino a tutta la metà del successivo anno 1946.
Si verificarono prelevamenti e successive uccisioni di persone coinvolte nello sconfitto regime fascista: di molti di essi non si conosce nemmeno il luogo della loro sepoltura.
Ma gli omicidi riguardarono anche persone che nulla avevano a che fare con il passato regime fascista, come il liberale Ferioli, il socialista sindaco di Casalgrande, il capitano Mirotti che aveva combattuto per la liberazione e il coraggioso sacerdote don Pessina: per ricordare solo qualche nome.

A questo punto il vigore morale e la passione civile di Giorgio Morelli, giovane attivo nelle organizzazioni cattoliche prima di entrare nelle formazioni partigiane di don Carlo, non potevano accettare che la nobiltà civile della Resistenza venisse infangata da questi comportamenti omicidi.
Ed allora con grande coraggio e totale disinteresse riprese a scrivere sulla "Penna", l'organo di stampa ciclostilato edito a Costabona, nell'aprile 1945, chiamandolo "Nuova Penna".
Ne uscirono dal 24 agosto 1945 al 19 luglio 1947, in mezzo a enormi difficoltà e numerosi cambi di tipografia, 23 numeri, l'ultimo dei quali, quello del 27 agosto 1947, era dedicato alla morte di Morelli con il titolo a tutta pagina "Il Solitario sarà sempre fra noi".

Era infatti la tarda serata del 27 gennaio 1947 quando Morelli, che rientrava presso la sua casa di Borzano, venne raggiunto da due ciclisti, rimasti per sempre ignoti, che gli scaricarono contro ben sei colpi di rivoltella. Le ferite inflittegli, che inizialmente parevano non gravi lo portarono invece a morire nell'agosto successivo, a soli 21 anni ad Arco di Trento. Le ferite gli avevano, per quei tempi, irreparabilmente leso un polmone.
La Nuova Penna si caratterizzò nel denunciare le uccisioni che insanguinavano il territorio reggiano a guerra finita ed altri omicidi avvenuti prima e che avevano riguardato partigiani liberi ed indipendenti.
Erano questi, per Morelli, atti incompatibili con i veri valori della Resistenza che non potevano essere macchiati da azioni criminali, vere e proprie vendette ed esecuzioni motivate da fanatismo, da inaccettabili furori ideologici, da volontà di sopraffazione politica.

Morelli aveva ragione e noi oggi nel sessantesimo anniversario della sua morte siamo qui per ricordarlo e per additarlo ad esempio ai giovani di oggi.
Il periodo che va dall'8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 è stato uno dei periodi più tragici della storia italiana, in quanto fu l'epilogo di quella guerra in cui il fascismo ci aveva sciaguratamente trascinato.
La Resistenza pertanto fu una scelta di campo: il campo della democrazia e per questo deve essere sempre e costantemente celebrata e ricordata. Non deve pertanto essere considerata una guerra civile come se si fosse trattato di un semplice conflitto tra italiani accodati all'uno o all'altro degli eserciti in lotta tra loro.
Proprio la comune partecipazione di tanti uomini di diverse idee alla Resistenza aprì la strada al confronto, talvolta anche aspro e all'incontro tra differenti culture nell'elaborazione di quella Carta Costituzionale della quale assieme ai duecento dieci anni del Tricolore celebriamo il sessantesimo dell'approvazione.

Onoriamo Don Carlo e il Solitario, assieme ai tanti, tantissimi altri che scelsero di mettere a rischio la propria vita per donare all'Italia libertà e democrazia, nella consapevolezza di essere debitori del loro coraggio e del loro sacrificio. Non dobbiamo dimenticarlo mai e dobbiamo fare in modo che non lo dimentichino nemmeno i nostri giovani, i nostri ragazzi, quelli che stanno costruendo o costruiranno l'Italia di domani.

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