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Il Presidente: Intervento in Assemblea

Ricordo di Norberto Bobbio

Aula del Senato

Nelle sue ultime volontà pubbliche, Norberto Bobbio ha lasciato scritto: "Nessun discorso. Non c'è nulla di più retorico e fastidioso dei discorsi funebri". Credo di avere solo un modo per rispettare questa volontà, quello non di fare una commemorazione, che inevitabilmente prenderebbe la piega che egli non voleva, ma piuttosto una ricostruzione del suo pensiero, come qualunque studioso farebbe di un pensatore influente.

Bobbio è stato maestro di analisi filosofica e punto di riferimento costante per l'azione politica nell'Italia repubblicana. Non sempre i due aspetti - quello analitico, proprio dello stile scientifico, e quello dell'impegno civile, che scaturisce dalla passione morale - riescono a fondersi in un pensatore. A volte, uno dei due predomina sino ad annullare l'altro. Altre volte, coesistono, ma senza mostrare reciproche implicazioni. La figura intellettuale di Bobbio, al contrario, è comprensibile solo alla luce dell'intima connessione che egli stabilì tra l'analisi scientifica e l'impegno civile e morale.

Nei suoi scritti, Bobbio ha sempre mostrato una notevole maestria nel chiarire i concetti usati, illustrandone le reciproche connessioni semantiche e il ruolo da essi svolto in una costruzione teorica. In filosofia del diritto, in particolare, egli fu impareggiabile nell'esplicitare la funzione delle norme giuridiche, il ruolo dell'analogia, le lacune della legge. Tuttavia, benché fosse influenzato dal metodo analitico e ne fosse uno dei pochi esponenti italiani, Bobbio cercò di rifuggirne anche le ristrettezze. Capì che il rigore non è tutto e che la razionalità non può essere ridotta all'analisi logico-formale. Sentì che accettare questa riduzione, in nome di una presunta neutralità rispetto ai valori, significherebbe affidare il discorso morale e politico alla sfera emotiva, alla sola forza delle passioni o, ancor peggio, al brutale equilibrio di rapporti di forza. E volle credere che la ragione non fosse estranea alla vita degli uomini. Il suo ideale di intellettuale era Carlo Cattaneo, uomo di ragione che si confronta con la realtà, ma non razionalista, che invece ne prescinde per rifarla ab imis.

Coerentemente con queste idee, Bobbio si assunse l'onere di partecipare alla lotta politica alla sua maniera di intellettuale, diventando interlocutore e guida di politici, maestro di opinioni, commentatore di eventi. Il suo obiettivo culturale era chiaro: portare la ragione dei filosofi dentro la vita dei politici e far conoscere a questi i vincoli intellettuali di quelli. Non a caso si adoperò per far conoscere in Italia la teoria dell'argomentazione di Chaim Perelman: egli cercava di mostrare - credo prima a sé, per convincersene, che agli altri, per educarli - che c'è, deve esserci, una nozione di ragione in grado di assumersi impegni. Per questo, nell'introduzione al capolavoro di Perelman, Bobbio criticò "il razionalismo di tradizione cartesiana che, identificando il dominio della ragione con quello delle prove dimostrative, finisce per relegare l'etica e in genere la sfera dei valori nel dominio incontrastato delle passioni, degli stati emotivi, delle forze irrazionali" (Si veda l'Introduzione a Ch. Perelman, Trattato dell'argomentazione, Einaudi, Torino 1966, p. xiii).

Una persuasione simile lo aveva indotto ad aprire uno dei suoi lavori più fortunati, Politica e cultura del 1955, con un saggio intitolato "Invito al colloquio", ove chiedeva con garbo agli intellettuali di non tradire la loro funzione critica: «Cultura - scriveva - significa misura, ponderatezza, circospezione: valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllare tutte le testimonianze prima di decidere, e non pronunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale dipenda, in modo irrevocabile, una scelta perentoria e definitiva» (Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955, p. 15). Forse - anzi: senz'altro -, "tutti" gli argomenti e "tutte" le testimonianze è troppo, perché ciò è logicamente impossibile e nella pratica ci si deve fermare prima di aver esaurito gli uni e le altre, ma la logica del colloqio e della decisione è esattamente questa.

Nella sua vita di intellettuale "impegnato", Bobbio ha esemplificato questo continuo invito a dialogare e impegno a pungolare. E' grazie a Bobbio che in Italia sono stati aperti dibattiti politici e culturali di grande importanza. A volte, Bobbio si è posto in ruoli scomodi, di aperta rottura, e la forza dei suoi argomenti ha lasciato un segno indelebile nel panorama culturale italiano. Altre volte, all'interesse dei problemi sollevati non ha fatto séguito un'uguale convergenza sulle tesi ed analisi da lui proposte. Altre volte ancora, egli stesso si è dimostrato sensibile alle, o sedotto dalle, ragioni dei suoi avversari, soprattutto di sinistra. Ma sempre i suoi interventi hanno suscitato l'attenzione generale.

Fu proprio con Politica e Cultura che Bobbio cominciò a mostrare la forza del suo impegno di intellettuale capace di sfidare modi di pensare consolidati. Allora liberale convinto, Bobbio stupì la comunità degli intellettuali liberali dichiarando senza mezzi termini che il pensiero di Croce era estraneo alla tradizione del liberalismo. Non era certamente la prima volta che l'idealismo crociano, allora imperante, veniva sfidato. Ma ben poche critiche - salvo quella di Nicola Abbagnano - si dimostrarono altrettanto efficaci. Soprattutto, Bobbio riuscì a far capire perché così tanti intellettuali poterono passare con disinvoltura dall'idealismo crociano ad una delle tanti varianti del materialismo marxista, e talvolta dal fascismo al comunismo.

Era il 1955, pochi anni dopo la fine della guerra, quando il ricordo della figura di Croce come emblema dell'antifascismo era ancora assai vivo. Bobbio non disconosceva il grande merito morale di Croce nella lotta contro la dittatura fascista. Ma ciò non lo esimeva dal notare, con pungente ironia, che Croce era andato «dai maestri dei dittatori a imparare la lezione della libertà» (ivi, p. 256). Adatto l'uomo Croce alla resistenza morale contro la dittatura, impotente invece la filosofia crociana per la costruzione politica di una democrazia liberale.

Troviamo in questa critica a Croce, lo stesso tratto di Bobbio già osservato: il bisogno di credere che la ragione illuminista possa servire anche in àmbiti, come la politica, tipicamente estranei al calcolo dimostrativo. Più e più volte, Bobbio è tornato sull'importanza e ruolo delle "tecniche" istituzionali intese come strumento, empiricamente controllabile, di difesa delle libertà individuali. Si tratta, egli notava, precisamente di quegli aspetti politici da Croce trascurati, ed anzi da lui disprezzati come espedienti pratici lontani dalla vera filosofia della libertà. Incapace di comprendere l'importanza concettuale delle tecniche riguardanti i limiti del potere statale, Croce sottovalutò, ad esempio, che la società inglese, dove queste tecniche furono profondamente studiate e sperimentate, si caratterizza per un'evoluzione storica assai più liberale di quella tedesca ed italiana. Anzi, di questa differenza Croce fece una virtù.

Cito per esteso questa frase di Bobbio, perché è esemplare nella sua efficacia retorica: «[Croce mise] il cuore in pace di fronte a tanto divario tra il corso della storia inglese e francese e quello della storia italiana e tedesca, perché la provvidenza aveva voluto per i suoi imperscrutabili disegni che agli Inglesi e ai Francesi fosse assegnato il còmpito di realizzare la libertà, ai Tedeschi, e chissà anche agli Italiani, di comprenderne l'essenza; a quelli di viverla senza sapere che cosa fosse e a noi di farne la filosofia in istato di perpetuo servaggio» (ivi, p. 256).

A distanza di tanti anni, non è facile apprezzare a pieno l'importanza della lezione che Bobbio dette ai politici e agli intellettuali dell'epoca. Egli fece comprendere che la libertà è qualcosa che si conquista con un paziente lavoro di riforme e che questo lavoro non è semplice "pratica" o "empiria", di genere inferiore a quello delle speculazioni filosofiche. La filosofia deve fare i conti non solo con se stessa, con le esigenze del proprio sistema, ma con la realtà.

Questa lezione va ben oltre la rilevanza delle sue critiche a Croce. Caduta l'egemonia idealista, ci fu un periodo in cui l'Italia largamente cadde sotto un'altra egemonia culturale: quella marxista, parte della quale proveniva, come abbiamo già notato, dalla filosofia crociana e idealistica, compresa, e forse più, quella di Giovanni Gentile, un filosofo contro il quale Bobbio ebbe fino all'ultimo posizioni di inappellabile durezza.

Anche in quel caso, Bobbio non esitò ad incrociare le armi della dialettica ed anche in quel caso il suo intervento ebbe effetti duraturi. Collocatosi politicamente a sinistra e intellettualmente su basi più democratiche che liberali, Bobbio costrinse intellettuali e politici comunisti e marxisti, da Togliatti a Berlinguer, a prendere sul serio le conseguenze della loro ideologia. E fu anche grazie a Bobbio che i socialisti, ai quali egli si avvicinò per poi allontanarsene nel periodo di Craxi, poterono rivendicare una propria cultura, autonoma dal fascino delle illusioni utopiche e delle "riforme di struttura". Il libro Quale socialismo? del 1976 può essere considerato come una prosecuzione del còmpito che Bobbio si era prefisso in Politica e cultura venti anni prima. Erano gli anni della dura contestazione studentesca, in cui si credeva veramente che la rivoluzione fosse a portata di mano. Gli anni in cui si covava il virus del terrorismo, esploso con tutta la sua violenza con il caso Moro. Gli anni in cui alcuni falsi maestri osavano elogiare il sabotaggio nelle fabbriche o inneggiare al passamontagna.

Ancora una volta, con garbo e fermezza, Bobbio difese l'importanza delle "tecniche" istituzionali e della ragione empirica, anche se la terminologia scelta fu in questo caso diversa. Egli pose ai suoi interlocutori marxisti la stessa domanda che Popper aveva posto parecchi anni prima: quali garanzie abbiamo che il problema del buon governo possa essere risolto cambiando semplicemente i detentori del potere? Anche sostituendo chi governa, rimane aperta la questione, fondamentale per la libertà, che riguarda come si governa, cioè con quali istituzioni viene esercitato il potere dello Stato. Senza una teoria sui limiti invalicabili del potere dello Stato, il marxismo non ha in sé gli anticorpi che impediscono di trasformare l'utopia di una società senza potere statale negli incubi di uno Stato oppressivo e totalitario.

Bobbio aveva ragione. La caduta delle ideologie utopistiche era anche la vittoria della ragionevolezza, del dubbio critico e dell'empirismo accorto, che Bobbio aveva difeso in tanti anni ed in tanti interventi. Tuttavia, con la caduta dell'ideologie, Bobbio vide un altro pericolo per la democrazia.

A ben vedere, il suo ideale era quello di una democrazia interamente fondata sul voto di opinione. Per questo stesso motivo, una società basata soltanto sulla rappresentanza degli interessi particolari era ai suoi occhi nient'altro che una degenerazione della democrazia. Ovviamente, Bobbio era ben consapevole che la rappresentanza politica non può prescindere dalla rappresentanza degli interessi, ma la distinzione concettuale tra i due tipi di rappresentanza non deve mai annullarsi, pena la trasformazione dell'alta politica nella bassa cucina delle clientele. Credo che lo sforzo dell'ultimo Bobbio di riabilitare la distinzione tra "destra" e "sinistra" sia intimamente connesso con la tesi che la politica non è mai scindibile da riferimenti a valori universali.

Si capiscono lo sfondo, il contesto, della sua presa di posizione e se ne colgono le ragioni. Negli anni Ottanta, troppo spesso si confuse la caduta delle ideologie con un pragmatismo che a volte sfociava nel cinismo, la fine dei sogni utopici con la fine dell'alta politica, la rinuncia ai cambiamenti rivoluzionari o radicali con la difesa degli interessi clientelari. Con l'emergere del bipolarismo, dopo gli anni di Tangentopoli, Bobbio volle dare il suo contributo all'inizio di una nuova fase della democrazia italiana. E quale contributo poteva essere migliore di una condivisa definizione dei valori propri della destra e della sinistra, indispensabile per rafforzare l'incerto bipolarismo italiano?

E' nota la soluzione proposta da Bobbio nel suo fortunato libro Destra e Sinistra (Donzelli Editore, Roma 1994, 2a ed. 1995). E sono note le polemiche e critiche che ne seguirono. Ancora una volta Bobbio aveva agitato le acque, ma questa volta la sua presa di posizione non aveva lasciato il segno di un tempo, soprattutto presso coloro a cui Bobbio chiaramente si rivolgeva.

La sinistra - questa la sua tesi - si definisce per il costante riferimento al valore dell'uguaglianza, mentre la destra, al contrario, valuta positivamente le disuguaglianze. Ora, questo criterio di distinzione è corrente e certamente corretto, ma è difficilmente esaustivo (lascia fuori, ad esempio, gran parte della dottrina cattolica) e non è sufficientemente analitico. Si capisce perché.

Per quanto riguarda la destra, soprattutto se liberale, la difesa delle disuguaglianze è sovente vista come un prezzo da pagare, una conseguenza inevitabile della difesa della libertà e, in particolar modo, di quel tipo di libertà che si esercita con la competizione (economica, sociale, intellettuale). Una conseguenza, dunque, non il valore fondamentale che la definisce.

Per quanto riguarda la sinistra, la difesa dell'uguaglianza non è ancora adeguata a identificarla, se non è indicato il criterio, lo strumento, il mezzo con cui tale valore è assicurato. Lo stato sociale, ad esempio, è uno strumento siffatto? Lo è il soddisfacimento solo pubblico dei bisogni sociali? L'istruzione, che tanto contribuisce all'uguaglianza, deve essere monopolio statale? E fino a che limite la redistribuzione politica dei redditi, necessaria a realizzare l'uguaglianza, è compatibile con la libertà? Insomma, per riprendere la terminologia delle critiche un tempo da Bobbio rivolte a Croce, quali sono le "tecniche" dell'uguaglianza, senza le quali essa rischia di rimanere un'astrazione, un'essenza, al pari della libertà di Croce?

Si ha l'impressione che stavolta sia stato l'impegno del militante a prevalere sul rigore del filosofo e non il filosofo a chiedere conto al militante. Dopo la stagione polemica con la sinistra marxista degli anni Cinquanta e la stagione critica con la sinistra socialista degli anni Ottanta, Bobbio era passato alla stagione costruttiva della sinistra riformista del 2000. Egli desiderava per essa una cornice filosofica e intellettuale in cui potesse finalmente riconoscersi una classe di governo. Per questo, Bobbio era soprattutto preoccupato di dare una definizione di "sinistra" tale da aiutare le forze di sinistra a superare il senso di smarrimento provocato dai molti nuovi problemi del mondo contemporaneo. Non casualmente, nella prefazione alla seconda edizione, egli parlava esplicitamente di "disorientamento" dei movimenti tradizionali della sinistra. Ciò fatto, la definizione di destra doveva seguire in modo meccanico e speculare, così da garantire il carattere esaustivo della distinzione: se il valore fondamentale della sinistra è l'uguaglianza, allora il valore fondamentale della destra deve essere la disuguaglianza.

Non è qui il caso di risollevare la questione, su cui molto si discusse e su cui ancora oggi si discute e si dovrebbe discutere nel tentativo di rafforzare il bipolarismo italiano. È sufficiente notare come Bobbio abbia affrontato un vero problema, che tutti dovremmo cercare di chiarire nell'interesse di una corretta dialettica democratica, dove le diverse opzioni di valore siano limpidamente espresse e discusse davanti agli elettori.

Bobbio ha amato definirsi un "illuminista pessimista". Riprendendo un identico pensiero di Bertrand Russell, un altro illuminista pessimista, egli ha scritto: «dobbiamo renderci conto ancora una volta che il nostro senso morale avanza, posto che avanzi, molto più lentamente del potere economico, di quello politico, di quello tecnologico» (Autobiografia, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 261). Con ciò egli intendeva sì ribadire la sua fiducia nella ragione e nella scienza, sebbene non credesse in un "progresso indefinito dell'umanità" (Politica e Cultura, cit., p. 202), ma intendeva anche sollevare dubbi sulla capacità della ragione e della scienza di cambiare i costumi e i comportamenti.

Il tratto illuminista di questo pensiero è chiaro: esso deriva dal dovere di non sottovalutare i problemi e di prendersi la responsabilità di affrontarli con le armi della ragione. Ma il pessimismo perché? Poiché in un filosofo il pessimismo non è mai soltanto un fattore psicologico, credo se ne possa dare una spiegazione proprio ricorrendo alla stessa nozione di ragione cui Bobbio si appellava.

Bobbio, è vero, voleva, reclamava, sentiva il bisogno di una ragione pratica, cioè non estranea alle valutazioni dei corsi di azione politici, anzi in grado di esprimerle. Per questo si è opposto alla politica come regno della passione cieca e della forza soltanto. Per questo si è fatto cultore della filosofia del colloquio e del dialogo. E per questo, come si è visto, si è adoperato per introdurre Perelman nel nostro dibattito filosofico. Ma, mentre, a giustificazione del suo stesso impegno politico, invocava la ragione pratica, Bobbio aveva o conservava o indulgeva ad una nozione di ragione teoretica, una ragione cioè solo calcolatrice, formale, algoritmica, in sintonia col positivismo di Kelsen, col neopositivismo viennese e con la filosofia analitica, tutte posizioni che su di lui hanno avuto ascendenza.

Ma una ragione siffatta - che non è la ragion etica di Aristotele o la ragion pratica di Kant o la ragion discorsiva di Popper - non può, per sua stessa natura, entrare nel regno della politica e della morale. Lo vorrebbe, ne sente il bisogno, ne avverte l'urgenza, ma non riesce, per la sua estraneità, a penetrarvi. Tra il calcolo della ragione e l'impegno della politica e della morale, c'è uno steccato che non si riesce a superare, lo stesso fra l'è e il deve.

Da ciò il senso dell'ostacolo, della difficoltà, della frustrazione del dialogo. Insomma, da ciò il pessimismo, che lascia spazio, da un lato, all'analisi rigorosa degli eventi e, dall'altro, alla resa dolorosa di fronte agli stessi eventi.

Così, paradossalmente e per opposte ragioni, Bobbio si trovò nella stessa situazione del criticato Benedetto Croce. Come nel sistema di Croce il teoretico della filosofia non orienta il pratico della politica, perché ne è "dialetticamente" autonomo o distinto, così nel sistema di Bobbio la ragione filosofica tende alla realtà politica ma non la modifica come vorrebbe, perché ne è strutturalmente diversa. E ancora: come nel sistema di Croce, quando il pratico irrompe nel teoretico con le vesti della dittatura, il teoretico è costretto a rifugiarsi nello stupore della inesplicabile invasione dei barbari Iksos, in modo analogo nel sistema di Bobbio, quando la ragione vuol costruire la realtà della sinistra politica, è costretta ad appellarsi a categorie ultime e non definibili come la coppia uguaglianza-diseguaglianza. Dal suo sistema Croce ricavò l'ottimismo di una teologia laica libertà, e dal suo Bobbio trasse invece il pessimismo della ragione. Diversi gli sbocchi, ma analoghi i percorsi.

Tra i valori che Bobbio ebbe sempre a cuore vi fu in particolare quello della democrazia, che egli considerava come un completamento del liberalismo. Negli ultimi anni della sua vita, egli la vedeva come una creatura dai nobili natali, ma assai gracile ed incerta su come affrontare il futuro. Dopo la caduta del muro di Berlino, non si unì al coro di gioia degli intellettuali anticomunisti. In un articolo, ne spiegò il motivo in questo modo: «O illusi, credete proprio che la fine del comunismo storico (insisto sullo "storico") abbia posto fine al bisogno e alla sete di giustizia?» (La Stampa, 9 giugno 1989). Anni dopo, in un'intervista, ritornò sullo stesso concetto: «la democrazia ha vinto la sfida del comunismo storico, ammettiamolo. Ma con quali mezzi e con quali ideali si dispone ad affrontare gli stessi problemi da cui era nata la sfida comunista?» (La Repubblica, 4 maggio 2001).

Per Bobbio, la democrazia è strettamente connessa con la difesa e l'estensione dei diritti dell'uomo, in primo luogo quella della giustizia sociale. In questo consiste la sua sfida storica. Dopo aver con successo accolto in sé i diritti tradizionali - dai principi fondamentali dell'habeas corpus sino a quelli più moderni, come il diritto di associazione sindacale o ad un livello adeguato di istruzione - la democrazia stenta a far fronte all'emergere dei nuovi diritti. Bobbio, ad esempio, si rammaricava che la democrazia non fosse mai potuta divenire autenticamente sociale. All'interno della fabbrica, ad esempio, il potere di decisione è affidato solo ad una parte. I lavoratori hanno diritti decisionali assai modesti e limitati. Il diritto a vivere in un ambiente pulito e non inquinato è un altro diritto che recentemente è emerso e non ha ancora trovato una sicura risposta. Bobbio si soffermò con preoccupazione anche sullo sviluppo della tecnologia e del sapere scientifico.

Contro tutte queste forme di potere, reclamò un nuovo diritto alla riservatezza, sollevò problemi sul diritto all'aborto, e rivendicò il diritto all'integrità del patrimonio genetico. In breve, per usare il titolo di un suo libro (L'età dei diritti, Einaudi, Torino 1990), la sfida della democrazia è la sfida che viene dalla contemporanea "età dei diritti". È la stessa sfida che Croce aveva definito "l'ircocervo", per la quale si erano invece sacrificati i fratelli Rosselli, e che da sempre è l'obiettivo di ogni liberaldemocratico o socialista liberale: come combinare giustizia e libertà.

Su questa strada dobbiamo fare ancora molto cammino intellettuale. Il rischio è che, alla fine, anziché la soluzione dei problemi della democrazia, si trovi piuttosto la loro causa. Alcuni dei nuovi diritti sono sicuramente sacrosanti, ma la vera questione di oggi è piuttosto come frenare la diffusione dell'abuso del linguaggio dei diritti, come distinguere i diritti legittimi da quelli illegittimi, tanto più che, come scriveva Bobbio, a volte il termine "diritto" viene usato come semplice «espressione di buone intenzioni» (L'età dei diritti, cit., p. 79).

Ciò ha conseguenze rilevanti. La democrazia non può sopravvivere se il suo solo problema è come soddisfare l'emergere dei nuovi diritti. La democrazia sopravviverà se troviamo anche un limite, da tutti condiviso, all'estensione dei diritti. Non tutti gli ipotetici diritti possono infatti essere soddisfatti. Ciò vale in tutti i campi, dall'istruzione alla sanità alla famiglia, dove si tende a parlare di "diritti" senza chiarire gli obblighi che questi comportano per tutta la collettività.

Questo Bobbio ci ha insegnato e a questo dobbiamo richiamarci, per capirlo, seguirlo, discuterlo o correggerlo, come si fa quando si reca autentico tributo ad un autentico pensatore. Certo è che se oggi ci troviamo a dibattere con speranza del futuro della democrazia, lo dobbiamo anche alla sua opera, al suo rigore analitico, al suo "illuminismo pessimista", alla sua passione disincantata.



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