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Il Presidente: Articoli

PERA - Metodo bipartisan per riforme e legge tv

La Stampa

PRESIDENTE Pera, il mes­saggio del capo del Sta­to alle Camere è stato interpretato in qualche modo come il segno di una anomalia: se il garante delle regole sente il biso­gno di una iniziativa for­male di questo peso, non sarà che le norme non funzionano o sono state violate?

«Voglio dire subito che condivi­do completamente il messag­gio di Ciampi. Chi lo utilizzas­se a scopo strumentale, lo svilirebbe. Ma siccome il mes­saggio è chiarissimo, io credo che il dovere delle istituzioni e delle forze politiche sia quello di cercare di attuarlo nel più breve tempo possibile».

Preferisce quindi una in­terpretazione minimali­sta: secondo lei il presi­dente Ciampi si è limitato a sollecitare la nuova leg­ge sull'informazione?

«Il mio non è minimalismo. Dico anzi che l'obbiettivo di una nuova legge sul sistema dei media mi sembra assoluta­mente realisti­co».

Non crede che il capo dello Stato con la sua iniziativa abbia voluto segnalare anche un problema di regole, di democrazia, e in definitiva di funzionamento delle istituzioni?

«La questione delle regole, per la verità, è già all'ordine del giorno da tempo, potremmo dire da anni, sicuramente dal­la scorsa legislatura. Io stesso nel mio breve, tacitiano, di­scorso di insediamento dissi che non avevo un agenda poli­tica, perché era compito delle Camere darsela, ma che auspi­cavo il completamento delle riforme istituzionali. Il tema è stato poi riproposto in questi giorni e vorrei proprio che producesse degli effetti».

Ma non è contraddittorio denunciare, come ha fatto lei giusto qualche giorno fa, gli effetti negativi che la riforma federalista ap­provata dal centrosini­stra quando era al gover­no potrebbe produrre og­gi, e al tempo stesso rivol­gersi all'opposizione per chiedere collaborazione in un nuovo progetto rifor­matore?

«Non capisco dove stia la con­traddizione. Siamo tutti consa­pevoli che il sistema istituzio­nale della cosiddetta "Seconda Repubblica" è un ibrido, è imperfetto e ha bisogno di essere completato. Nella scor­sa legislatura sono state con­dotte in porto due riforme della Costituzione: una forma­le, con l'approvazione, sia pu­re con una maggioranza esile, della legge sul federalismo; l'altra materiale: l'indicazio­ne del nome del candidato premier sulla scheda elettorale e la trasformazione, di con­seguenza, con il voto degli elettori, del leader della coali­zione in premier scelto dai cittadini. Questo lavoro non può essere lasciato a metà. E' come se il Parlamento e le forze politiche nella scorsa legislatura avessero indicato due obbiettivi, oltre che deci­dere due riforme. L'obbiettivo di riformare lo Stato con il federalismo; e quello di dotare il premier di poteri più forti. Non ci resta che prendere atto di questi cambiamenti e lavo­rare per completarli. Fermar­si, o accampare scuse per non andare avanti, sarebbe un er­rore molto grave».

E lei crede davvero che in questo clima politico, con la maggioranza e l'opposi­zione l'un contro l'altra armate e divise al loro interno, ci sia davvero la possibilità di riprendere il discorso sulla Grande Riforma? Non ha visto le prime reazioni all'uscita di Bossi sul presidenzialismo e all'autocandidatura di Berlusconi?

«Io non penso che ci si debba fermare davanti a queste prime reazioni, mi sembra anzi che l'opposizione, al di là di una certa durezza delle posi­zioni espresse, stia cercando di capire quanto è forte la volontà della maggioranza di portare avanti le riforme; se si tratti insomma, per usare qual­che ragionamento che ho senti­to, di riforme "ad usum delphi­ni", studiate cioè a vantaggio di Berlusconi, o se invece ci sia l'intenzione di riaprire un discorso più serio. Se le cose stanno così, è chiaro che si deve fare di tutto perché il confronto riprenda e diventi credibile».

Con quali strumenti? Una nuova commissione bica­merale?

«Lo strumento è l'articolo 138, il meccanismo previsto dalla Costituzione per le riforme istituzionali. Il lavoro svolto dalla Bicamerale, come ho già avuto occasione di ricordare, è stato eccellente, ma il confron­to deve riprendere nelle com­missioni e nelle aule parlamen­tari. Semmai, la lezione che ci viene dalla passata legislatu­ra, è che le riforme non posso­no essere approvate a colpi di maggioranza e in un clima di contrapposizione. Per questo io dico che dobbiamo comple­tarle, ma completarle all'inter­no di un accordo bipartisan con l'opposizione».

In che senso bipartisan?

«Nel senso più completo: una base di discussione, che può essere un disegno di legge, una trattativa alla luce del sole, con un gioco democratico di emendamenti, e poi l'approva­zione del testo con una maggio­ranza più ampia di quella di governo. Anzi, mi correggo: la più ampia possibile».

Presidente Pera, è inutile negare che la contrapposi­zione tra maggioranza e opposizione è legata al­l'andamento sussultorio di tutta la Seconda Repub­blica. Si vive in una sorta di campagna elettorale permanente, in cui il go­verno non rinuncia a de­monizzare l'opposizione e l'opposizione punta a spaccare la maggioranza, augurandosi, magari, un «ribaltone». In un quadro del genere, che ha prodot­to tuttavia a ogni scaden­za elettorale un cambio di governo dal centrodestra al centrosinistra, e vice­versa, che vantaggio avrebbero le due coalizio­ni a completare le rifor­me? E soprattutto: ne sa­rebbero capaci?

«E' vero, in Italia il bipolarismo esiste, ma è appeso alla coesione delle coalizioni. La coesione c'è al momento delle elezioni, poi diventa intermit­tente nel corso della legislatu­ra, fino a far vivere i governi nel rischio permanente di uno smottamento verso il ribalto-ne, come è già accaduto due volte in passato. Bene: se si fanno le riforme questo ri­schio diminuisce».

Ne è sicuro? Non le pare che questo sia un virus congenito a un certo modo di essere della politica italiana?

«Non è questo il punto. Il proble­ma è che con il bipolarismo ogni forza politica è portata a gioca­re necessariamente le sue carte all'interno della coalizione. Se il leader è dotato di poteri più forti, anche la vita della coali­zione migliora. Si è mai chiesto perché nei comuni non ci sono ribaltoni fuorché in casi eccezio­nali? Il fatto è che se il sindaco si dimette si va ad elezioni, e se la maggioranza si presenta divi­sa perde. Lo stesso accade nelle regioni e anche lì non mi pare che siano avvenuti ribaltoni contro i governatori. Vorrei allo­ra capire perché un premier scelto dagli elettori non possa avere a disposizione lo stesso strumento di stabilità e gover­nabilità che hanno i sindaci e i presidenti delle regioni».

L'obiezione più semplice, quella che viene da più parti, è che il premier in questo caso sarebbe dotato di poteri troppo forti.

«Credo che dovremmo preoccu­parci piuttosto del riequilibrio tra i poteri delle regioni e quelli del governo centrale. In qual­che caso è possibile per le regio­ni, a norma di legge, ostacolare l'attuazione del programma di governo in Parlamento; in altri casi è certo che í contrasti tra esecutivo centrale e governi locali creeranno un contenzioso inestricabile davanti alla Corte costituzionale. Tutto ciò, sia chiaro, non lo dico per sostene­re che ai governatori si è dato troppo potere, ma per sottolineare la necessità di un luogo di confronto istituzionale tra le esigenze delle regioni e quelle del governo e una loro graduale contemperazione. Nient'altro ­e torniamo alle riforme - che una camera delle Regioni e un nuovo ruolo per il Senato».

Non ha detto però che van­taggi avrebbero le forze po­litiche dal compimento del­le riforme, e se avranno la capacità di farle.

«Il vantaggio è evidente per tutti, a partire dalle forze mag­giori delle due coalizioni. Per Forza Italia e Ds il consolida­mento formale del bipolarismo rafforza il legame chimico che tiene legate alle alleanze le forze periferiche. Per le ali estre­me, il vantaggio di un bipolari-smo istituzionalizzato è invece quello di porsi al riparo da delegittimazioni che potrebbe­ro derivare da rinnovate "conventio ad excludendum" o da nuove aggregazioni centri­ste. Infine, in uno schema del genere, anche i partiti centrali aumenterebbero la loro forza: catturando l'elettorato mobile che di volta in volta dà la vittoria all uno o all'altro schie­ramento, il loro potere sarebbe destinato a crescere».

Presidente era, ammettia­mo che nel centrodestra ci sia una vera volontà di far ripartire il discorso delle riforme. La risposta del centrosinistra però, finora è stata: non si può discute­re insieme di istituzioni in un paese nel quale esiste un conflitto di interessi così evidente.

«Il problema mi pare riguardi soprattutto i Ds, il partito perno dell'Ulivo. Nel congresso di Pe­saro i Ds hanno scelto una identità riformista e su questa linea hanno eletto segretario Piero Fassino. Poi è venuta la stagione dei "girotondi", e poi ancora il confronto, lo scontro e adesso sembra la tregua con Cofferati. Ora sono a un bivio, ma non c'è dubbio che un raffor­zamento del bipolarismo sia nel loro interesse. O si comportano come a loro tempo fecero i socialisti inglesi, e cercano di recuperare le frange di contesta­zione all'interno di un meccani­smo bipolare, o rischiano di essere trascinati su una linea diversa da quella riformista bat­tezzata a Pesaro».

Sembra quasi che lei veda nei Ds l'ostacolo più alto per fare le riforme...

«No, io vedo nei Ds l'interlocu­tore più interessato e più for­te. L'ostacolo maggiore è lo sfrangiamento e la confusione rispetto alla scelta riformi­sta».

Presidente Pera, ma qui è D'Alema, non Nanni Moret­ti, a dire di no all'offerta del centrodestra.

«Io mí rivolgo a lui e, non solo per obbligo di coerenza; lo richiamo ad avere un ruolo di interlocutore e protagonista. Mi meraviglio che dica che le riforme non si possono fare, proprio lui, che come presiden­te della Bicamerale ha dimo­strato il contrario».

Ma non crede che ci sia una logica nel dire che Berlusconi potrebbe ado­perare questa proposta co­me diversivo, per supera­re un momento di difficol­tà del governo in altri settori, o per legittimare con il no dell'opposizione una grande riforma fatta su misura per lui?

«Vale per le riforme l'aneddoto del dito di chi indica la luna: solo lo sciocco guarda il dito, mentre le riforme sono la luna. Mi colpisce che ad osser­vatori politici solitamente mol­to attenti sia sfuggita l'impor­tanza dell'iniziativa di Bossi sul presidenzialismo. Ma come: l'uomo che in tempi anche recenti ha parlato di "Roma ladrona", di "Padania", di "secessione", viene qui, al Se­nato, davanti al capo dello Stato, e propone un potere centrale forte, una formula presidenziale purché accompa­gnata da un autentico federali­smo e da una riforma elettora­le con iniezioni di proporziona-lismo, Bossi viene qui a dirci tutto questo, e rischiamo di lasciarlo cadere nell'indiffe­renza? Stiamo attenti, quando Bossi più di dieci anni fa cominciò a parlare di federali­smo fu trattato come una specie di pazzo, eppure dieci anni dopo tutti dovettero ac­corgersi che aveva ragione lui».

Ma se il giorno dopo l'an­nuncio di Bossi, con un capo dello Stato in carica e in piena forma, Berlusconi annuncia che è pronto a candidarsi alle presiden­ziali, prima ancora che della riforma si cominci a parlare, dovrà ammettere che qualche dubbio all'op­posizione che dovrebbe vo­tare questa riforma possa venire.

«Tutti i dubbi sono legittimi, ma al centrosinistra vorrei ricordare l'esperienza france­se. I socialisti si opposero alla elezione diretta del presidente della Repubblica voluta da De Gaulle, e poi proprio con quel sistema conquistarono la gui­da del paese. Vuol dire che anche quella riforma così con­testata non era stata fatta a vantaggio del leader che la propose. Aggiungo che se si fanno le riforme è realistico che funzioneranno dalla pros-sima legislatura, nella quale è difficile prevedere oggi chi governerà».

Presidente, qui torniamo al messaggio di Ciampi. Sarà un caso, ma il capo dello Stato ha deciso di inviarlo dopo il rilancio del presidenzialismo e l'autocandidatura di Berlusconi...

«Le ho già detto che non voglio partecipare al gioco delle inter­pretazioni del messaggio del presidente. Lo condivido e ba­sta. Quanto ai contenuti, vorrei ricdrdare quel che dissi al con­gresso della Federazione della stampa qualche tempo fa: plura­lismo e informazione secondo me sono l'essenza della demo­crazia. In seguito ho anche aggiunto che la strada dellaprivatizzazione della Rai è, sem­pre a mio parere, la più giusta per assicurare il pluralismo, perché se ci sono più attori in campo è logico che vi sia più pluralismo. Nel messaggio si segue una strada diversa. Ma va bene anche quella: discutia­mo di tutto. Evviva il messag­gio di Ciampi, se può servire a trovare finalmente una soluzio­ne per il problema dell'informa­zione».

Ma secondo lei, esistono le condizioni anche per fare una legge sulle Tv? Si ricor­da che cosa accadde in que­sto campo nella scorsa legi­slatura, quando alla fine, per sfinimento, tutto fu accantonato, o quando la legge Mammì fece cadere un governo?

«Io spero che questa volta vada diversamente. Il problema esi­ste, tutti lo riconoscono, una legge del genere potrebbe esse­re la prima occasione per speri­mentare quel metodo biparti-san che ho proposto per le riforme. Una legge sull'informa­zione non può che essere appro­vata con la maggioranza più larga possibile. Cominciamo da qui, il resto verrà. Non possia­mo più tenere il sistema a bagnomaria. Non perdiamo que­sta occasione».



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