I fattori dello sviluppo economico: la finanza (parte seconda: l'età contemporanea)
1. L'emersione di nuovi grandi centri finanziari.
2. L'evoluzione della finanza d'impresa nell'Ottocento e nel primo Novecento.
3. La crisi finanziaria del 1929 e la grande depressione.
4. Dopo il 1945: nuova liberalizzazione finanziaria e ascesa degli investitori istituzionali.
5. Il ritorno delle crisi finanziarie.
7. Riferimenti e approfondimenti bibliografici.
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1. L'emersione di nuovi grandi centri finanziari.
S'è detto nel precedente articolo di come nel XVIII secolo l'Inghilterra fosse andata sostituendosi ai Paesi Bassi quale paese più sviluppato dal punto di vista delle attività finanziarie. Nel corso dell'Ottocento, tuttavia, l'ascesa economica degli Stati Uniti pose anche questo paese in condizione di sviluppare notevolmente il proprio settore finanziario, sino a consentirgli di strappare all'Inghilterra il ruolo egemone da essa detenuto. Nel trattare di questa nazione, Larry Allen (2002) si sofferma sul caso della famiglia Morgan, che fondò la propria ascesa sul commercio di titoli di compagnie ferroviarie, sfruttando così il grande sviluppo del sistema di trasporto su rotaia che si ebbe all'epoca al suo interno. È da rimarcare tuttavia che mentre in campo industriale gli Stati Uniti finirono per surclassare decisamente l'Inghilterra (si veda al riguardo l'articolo sull'industria nell'età contemporanea), in ambito finanziario ciò non avvenne nella stessa misura: Londra è ancora oggi una delle principali piazze finanziarie del mondo e le sue banche hanno mantenuto un'importante proiezione internazionale. Secondo Vincenzo Comito (2002), una fase fondamentale per la ridefinizione degli equilibri in seno al mondo occidentale fu rappresentata dagli anni del primo conflitto mondiale e dell'immediato dopoguerra, nei quali le economie europee furono sottoposte a duri colpi: fu allora che il dollaro divenne la più importante moneta del mondo e New York il centro finanziario più importante. Tuttavia nello stesso periodo la City londinese, pur perdendo posizioni nei riguardi di New York, beneficiò d'un relativo rafforzamento rispetto alle altre piazze europee.
Riprendendo il testo di Allen, possiamo inoltre osservare come nel corso del XX secolo si sia avuta l'emersione di importanti centri finanziari anche al di fuori dell'area angloamericana. Lo scenario che s'è progressivamente determinato in questo settore, e che lo caratterizza attualmente, vede così la compresenza d'una pluralità di protagonisti, sia pure non tutti connotati dal medesimo rango, essendosi comunque perpetuata nel tempo la preminenza di quelli statunitensi. Dopo la prima guerra mondiale un notevole rafforzamento hanno conosciuto gli operatori svizzeri, grazie alla solidità della moneta locale (la Svizzera, che non aveva preso parte al conflitto, non dovette fare i conti con la forte inflazione da cui furono invece interessate le nazioni che vi avevano partecipato) e all'introduzione di norme che determinavano una particolare tutela del segreto bancario. Dopo il 1980 s'è avuta poi l'ascesa di Tokyo a grande piazza finanziaria, resa possibile dall'eccedenza di capitali ch'era venuta a caratterizzare il Giappone per effetto della sua affermazione quale grande esportatore industriale.
2. L'evoluzione della finanza d'impresa nell'Ottocento e nel primo Novecento.
Il rapido sviluppo economico cui andarono incontro nel corso dell'Ottocento l'Inghilterra e gli Stati Uniti sollecitò un'evoluzione delle forme del credito all'attività imprenditoriale e delle norme che lo regolavano. Importanti aspetti di tale evoluzione sono posti in rilievo da Barron Baskin e Miranti (2000). Gli autori rilevano come in questa fase le banche d'investimento, tradizionalmente concentrate sulla finanza pubblica, cominciarono ad occuparsi del collocamento dei titoli delle imprese private, che sino ad allora avevano operato autonomamente nel mercato borsistico. Da parte dei governi un forte stimolo alla conduzione delle attività finanziarie provenne dall'emanazione di norme che consentivano la costituzione di società per azioni a responsabilità limitata, che riducendo i rischi degli investitori favorirono la mobilizzazione dei capitali in iniziative imprenditoriali. Per evitare che tale innovazione facesse sorgere eccessivi rischi per i creditori delle aziende (privati della possibilità di rivalersi, in caso di fallimento, sui patrimoni personali dei proprietari delle medesime), cominciarono anche ad essere emanate norme concernenti la pubblicità delle informazioni finanziarie. A rendere più trasparenti i mercati finanziari concorsero anche i progressi nel campo delle comunicazioni (dalla nascita del telegrafo, nel 1837, a quella del telefono, nel 1876), che favorirono la circolazione delle informazioni, la crescente attenzione della stampa alle notizie economiche (in Inghilterra nel 1844 nacque l'uso di pubblicare quotidianamente listini di azioni con l'indicazione dei relativi prezzi) e il sorgere di intermediari specializzati che offrivano consigli sulla gestione finanziaria. Tutti questi fenomeni stimolarono una sempre più massiccia partecipazione degli strati mediani della società all'investimento azionario. Negli Stati Uniti questa tendenza ebbe modo di tradursi in realtà sin dai primi del Novecento, grazie al precoce sviluppo che vi conobbe il cosiddetto "capitalismo manageriale", nel quale gli azionisti erano relegati al ruolo di redditieri che esercitavano una limitata influenza sulla gestione dell'impresa (affidata a dirigenti professionisti): difatti una simile modalità organizzativa si sposava perfettamente con le esigenze dei piccoli risparmiatori, interessati a percepire una rendita ma non a farsi carico della conduzione degli affari, per la quale peraltro neppure possedevano le cognizioni necessarie.
3. La crisi finanziaria del 1929 e la grande depressione.
L'espansione delle attività finanziarie conobbe un brusco arresto nell'autunno del 1929, quando si verificò il crollo della borsa di New York. Questo evento segnò l'inizio d'una fase recessiva che interessò tutti i paesi capitalistici, destinata a protrarsi sino alla seconda guerra mondiale. Una ricostruzione della sua dinamica è offerta da Umberto de Girolamo (2007). Secondo quanto riporta questo autore, nel corso del 1929 i corsi dei titoli azionari quotati a Wall Street erano saliti incessantemente; parallelamente, s'era notevolmente accresciuto il volume dei capitali impegnati in borsa, in parte proprio per effetto di questa ascesa generalizzata dei corsi azionari, che aveva indotto molti operatori ad acquistare titoli col solo obiettivo di rivenderli successivamente, senza preoccuparsi della loro reale consistenza, giacché si dava per scontato che il loro valore sarebbe nel frattempo aumentato. All'inizio di settembre si registrarono però delle significative flessioni per diverse aziende; il mese successivo si delineò una tendenza al ribasso di portata generale; il 24 ottobre un'ondata di panico generò una quantità enorme di vendite, a prezzi sempre più bassi; cinque giorni dopo il fenomeno si ripeté. Al crollo del mercato azionario fecero seguito, nello stesso 1929 e negli anni immediatamente successivi, migliaia di fallimenti bancari. La crisi finanziaria si diffuse inoltre al di fuori degli Stati Uniti, coinvolgendo i principali paesi europei.
Negli USA, la crisi finanziaria e la più generale crisi economica che ad essa si sovrappose furono affrontate dalla presidenza Roosvelt con un vasto programma di riforme, che inclusero anche norme riguardanti le istituzioni bancarie e la borsa. Nel 1933 un apposito provvedimento sancì il principio della netta separazione tra banche di deposito e banche d'investimento, vietando alle prime di operare sul mercato dei titoli e alle seconde la raccolta del risparmio: in tal modo si mirava a contenere l'immissione di capitali sul mercato borsistico e dunque ad impedire la ricomparsa di ondate speculative; esso inoltre estese il controllo del governo sull'attività delle banche, mediante la creazione di apposite istituzioni. L'anno successivo una legge sulla borsa pose l'autorità pubblica in condizione di controllare più efficacemente anche quest'ultima. Al di fuori degli Stati Uniti ci si mosse in maniera analoga: come rileva Silvano Andriani (2006), in ciascun paese toccato dalla crisi furono poste in essere politiche di regolazione dei mercati e delle istituzioni finanziarie. Ai provvedimenti realizzati dai singoli paesi si aggiunse, dopo la seconda guerra mondiale, un sistema di regolazione internazionale, divenuto poi noto come sistema di Bretton Woods (dal luogo ove vennero stipulati gli accordi ad esso inerenti).
Delle cause del crollo della borsa e delle connessioni fra questa e la successiva depressione economica sono state offerte diverse interpretazioni. Una lettura degli eventi d'impostazione liberale, che in ultima analisi ne attribuisce la responsabilità a un'errata ed eccessiva intromissione delle autorità pubbliche nell'economia, è quella di Lionel Robbins, riportata e fatta propria da de Girolamo. Per questi studiosi, all'origine della crisi finanziaria va individuata un'errata politica del credito. A partire dalla metà degli anni venti le banche federali di riserva diedero luogo ad un'abnorme espansione creditizia, la quale, innescando aumenti dei prezzi, determinò la crescita dei profitti delle aziende e quindi anche della loro capacità di effettuare investimenti: due fenomeni che spinsero in alto le quotazioni dei titoli azionari. A quel punto si diffuse fra gli operatori la previsione di incrementi generalizzati dei corsi azionari, la quale generò la tendenza a prendere denaro in prestito per compiere azioni speculative. Questa a sua volta produsse un aumento dei tassi dei prestiti a breve scadenza, con conseguente rialzo dei costi degli investimenti produttivi. L'espansione di questi ultimi generò inoltre un aumento del livello della concorrenza. Le possibilità di profitto delle aziende andarono così riducendosi; e per effetto di ciò le aspettative degli investitori finanziari relativamente all'andamento dei corsi azionari da ottimistiche finirono per diventare di segno opposto. Non appena si verificarono i primi fallimenti di grosse imprese, fra gli operatori di borsa (la cui posizione era divenuta molto delicata, in ragione del cumulo di debiti di cui s'erano gravati per prendere a prestito denaro a tassi crescenti) si diffuse il panico: si scatenò allora una corsa alla liquidità, con conseguente crollo dei valori azionari. A trasformare la crisi finanziaria in crisi economica di lunga durata provvidero poi i tentativi, che furono compiuti sia negli Stati Uniti che negli altri paesi ch'erano stati toccati dalla crisi finanziaria, di rimediare alle difficoltà in cui erano venute a trovarsi le imprese mediante provvedimenti tesi ad intralciare il libero funzionamento dei meccanismi dell'economia di mercato, quali il rafforzamento delle barriere daziarie (che ostacolò il commercio internazionale) e la pratica di forme spinte di sostegno pubblico alle attività produttive (che ebbero la responsabilità di ritardare la liquidazione degli investimenti errati e il fallimento di chi si era troppo coperto di debiti).
Un'interpretazione di segno profondamente diverso, che vede negli eventi di quella fase essenzialmente una crisi di sovrapproduzione, è invece offerta da Andrea Fumagalli (2006). Per questo autore le radici della crisi - sia finanziaria che economica - vanno ricercate nel forte incremento della produttività che si ebbe negli anni venti nel comparto industriale, per effetto dell'applicazione di nuove modalità di produzione (in primo luogo la catena di montaggio) e di nuove tecnologie, le quali consentirono di accrescere i ritmi della produzione stessa, riducendone nel contempo i costi, e di immettere sul mercato nuove tipologie di beni e servizi. Queste trasformazioni non furono accompagnate da una crescita delle retribuzioni, giacché all'inasprirsi delle lotte operaie (generato proprio dall'introduzione di nuove tecniche di produzione, le quali avevano comportato un peggioramento delle condizioni di lavoro) le autorità risposero con una politica repressiva che risparmiò agli imprenditori l'onere di ripristinare la pace sociale per mezzo di concessioni sul piano salariale. La combinazione tra incremento della produttività, riduzione dei costi di produzione e stagnazione salariale generò elevate aspettative di ricavi dagli investimenti produttivi e quindi anche da quelli finanziari in titoli di imprese, determinando la crescita di entrambi; ma in questo modo si determinò un crescente squilibrio tra la capacità di offerta dei produttori e la capacità di consumo della popolazione, che alla lunga determinò il venir meno sia delle aspettative di profitto degli investitori (il che spiega la discesa dei valori azionari) che dei profitti effettivi delle imprese (il che spiega i fallimenti e il calo della produzione industriale).
4. Dopo il 1945: nuova liberalizzazione finanziaria e ascesa degli investitori istituzionali.
Nel ripercorrere gli eventi più recenti, Comito pone in primo piano il fatto che a partire dagli anni cinquanta una quota crescente dei titoli quotati sul mercato azionario è andata concentrandosi nelle mani dei cosiddetti investitori istituzionali (fondi pensione, fondi comuni di investimento, fondi azionari dei dipendenti, imprese di assicurazione). Interessati dal fenomeno sono stati innanzitutto gli Stati Uniti; ma in tempi recenti esso è andato sviluppandosi anche in Europa, soprattutto per effetto della necessità sempre più avvertita dalle popolazioni di procurarsi autonomamente una rendita pensionistica, stanti le crescenti difficoltà dei bilanci pubblici di garantire servizi previdenziali di elevato profilo. A stimolare lo sviluppo di tali istituzioni ha contribuito la progressiva deregolamentazione dei mercati finanziari (verificatasi soprattutto a partire dagli anni ottanta), che ha fortemente attenuato gli ostacoli posti alla circolazione dei capitali, come pure l'evoluzione favorevole della fiscalità sugli investimenti, figlia essa stessa della deregolamentazione, che ha fatto sorgere una forte concorrenza tra le varie piazze finanziarie.
La crescita del loro numero e della loro potenza, unitamente all'influenza che essi riescono ad avere sui comportamenti degli altri operatori (dovuta alla pubblicità delle loro analisi e dei loro giudizi e all'autorevolezza dei medesimi), ha conferito agli investitori istituzionali il controllo di fatto - ossia prescindente dall'entità della loro partecipazione azionaria - delle aziende in cui sono presenti, obbligando i dirigenti a conformarsi ai loro orientamenti strategici. Questi ultimi, in larga misura, si riducono alla massimizzazione del rendimento dei capitali investiti e dunque del valore delle azioni. Sulle conseguenze dell'imposizione d'una simile strategia è sorto un dibattito che ha generato opinioni di segno assai divergente, delle quali Comito dà conto, sintetizzando nei termini che seguono gli apprezzamenti e le critiche che sono stati rivolti a tali operatori. Per chi giudica positivamente il loro ruolo, egli scrive, gli investitori istituzionali portano avanti un processo di pulizia del sistema produttivo, giacché mettendo sotto pressione i dirigenti delle imprese accelerano l'eliminazione delle unità meno efficaci; impediscono a tali dirigenti di assumere comportamenti opportunistici, sfruttando la scarsa influenza dei piccoli azionisti per trascurare i loro interessi in favore dei propri; garantiscono la trasparenza informativa in seno alle imprese; consentono a larghi strati della popolazione di essere partecipi della proprietà delle imprese, introducendo così forti elementi democratici e redistributivi nel modo di produzione capitalistico. A parere di chi, invece, ne valuta criticamente la funzione, essi si pongono obiettivi di redditività di breve termine, determinando il prevalere della speculazione sulla finanza orientata allo sviluppo dell'economia reale (e dunque sottraendo risorse a quest'ultima); esigono troppo dalle imprese che controllano, costringendo il management a praticare politiche rischiose; rischiano di dissolvere l'appartenenza nazionale delle imprese di cui assumono il controllo; possono mettere in difficoltà le politiche industriali nazionali; tutelano maggiormente gli interessi dei manager delle aziende che quelli dei risparmiatori; operano secondo criteri irrazionali, facendosi guidare dalle mode e imitandosi a vicenda, contribuendo così con le loro scelte ad accrescere la volatilità delle quotazioni.
La liberalizzazione finanziaria dell'ultimo trentennio ha investito anche il comparto bancario. Quali aspetti rilevanti della trasformazione cui esso è andato incontro vanno menzionati la deregolamentazione dei tassi d'interesse, la maggiore facilità d'ingresso nel settore riconosciuta ai soggetti interessati, la privatizzazione degli istituti, la maggiore autonomia loro concessa relativamente alla propria gestione operativa e l'abolizione dei controlli sui crediti. L'accresciuta concorrenza ch'è derivata dalla liberalizzazione ha generato ovunque processi di ristrutturazione e concentrazione, i cui esiti sono stati tuttavia assai vari, dal momento che essa ha fatto aumentare per gli istituti coinvolti tanto le opportunità a loro disposizione quanto i rischi da affrontare.
5. Il ritorno delle crisi finanziarie.
Un fenomeno di grande rilievo manifestatosi nell'ultimo quarto di secolo è rappresentato dalla ricomparsa di gravi crisi finanziarie. Nel suo studio del 2006 Andriani menziona, al riguardo, il crollo di Wall Street del 1987, che ha trascinato nella caduta tutte le altre borse; la crisi del mercato azionario e immobiliare giapponese del 1989, che ha precipitato il paese in una stagnazione destinata a protrarsi per un quindicennio; la crisi valutaria del 1992, che ha costretto la lira e la sterlina a uscire dal sistema monetario europeo; le crisi esplose in Russia e in diversi paesi emergenti (Messico, Brasile, Sudest asiatico) fra il 1994 e il 1999; il nuovo crollo di Wall Street del 2000-02. Questa elencazione va ovviamente completata con la crisi tuttora in corso, apertasi nel 2007. Diversi studiosi hanno ricondotto almeno parte di questi eventi alla liberalizzazione dei movimenti di capitale determinatasi nell'ultimo trentennio. Joseph Stiglitz (2002), ad esempio, fa discendere le crisi finanziarie che negli anni novanta hanno riguardato i paesi emergenti dall'enorme afflusso di capitali privati provenienti da quelli sviluppati da cui essi sono stati interessati. A suo parere tali capitali solo per una parte minoritaria hanno assunto la forma di investimenti diretti in attività produttive; sono invece risultati prevalenti i loro impieghi a carattere speculativo, che hanno generato una crescita dei valori azionari e immobiliari sostenuta, ma destinata ad essere seguita da un loro brusco ridimensionamento, proprio perché non accompagnata da uno sviluppo ad essa proporzionato dell'economia reale. A parere di Andriani anche la crisi esplosa nel 2000 negli USA va ricondotta alla liberalizzazione dei movimenti di capitale, che nel ventennio precedente a quella data ha consentito al governo di quel paese di attrarre, mediante l'elevazione dei tassi d'interesse, cospicue risorse finanziarie dall'estero, che si sono riversate sul mercato azionario e immobiliare locale, gonfiando i prezzi dei relativi titoli. Per questo autore, comunque, la ragion d'essere delle ricorrenti crisi finanziarie va individuata, prima ancora che in un'eccessiva libertà di circolazione dei capitali, in un eccesso di formazione dei medesimi, ossia nel fatto che in seguito alle privatizzazioni dei sistemi pensionistici e sanitari l'entità del risparmio immesso nei mercati finanziari è divenuta tale che questi ultimi non riescono più a trovare per esso occasioni d'investimento in misura sufficiente a garantire la sua completa remunerazione.
Una ricostruzione della crisi che attualmente stiamo attraversando è offerta in un saggio curato da Antonella Crescenzi (2010). Essa inizia nel giugno 2007, quando negli Stati Uniti l'aumento delle insolvenze dei beneficiari di mutui subprime (mutui ad elevato rischio, perché concessi a soggetti considerati scarsamente capaci di rimborsare i prestiti) ha reso invendibili i titoli creati dalle banche per collocare sul mercato finanziario - e trasferire così ad altri operatori - i propri crediti di questo tipo. La crisi immobiliare innesca così una serie di crisi bancarie e di turbamenti del mercato finanziario, le quali si estendono presto anche al di fuori del territorio americano. Il governo sostiene con danaro pubblico gli istituti di credito coinvolti, ma nel settembre 2008 è costretto a lasciar fallire la Lehman Brothers, un gruppo troppo grande per poter essere salvato. Questo avvenimento provoca un crollo della fiducia degli investitori, che riducendo la propria esposizione nel sistema finanziario provocano una stretta creditizia che si ripercuote sull'economia reale, riducendo l'accesso delle imprese ai finanziamenti di cui necessitano: le economie dei paesi industrializzati (eccezion fatta per quelle cinese e indiana) entrano allora in recessione. I governi dei paesi toccati dalla crisi estendono ulteriormente il proprio ambito d'azione, giungendo a nazionalizzare molti istituti; nel contempo, mediante politiche monetarie e fiscali espansive tentano di rilanciare le attività produttive. I salvataggi bancari e la riduzione delle entrate fiscali, tuttavia, fanno sorgere nuove difficoltà, questa volta sul fronte delle finanze pubbliche: alla fine del 2009 prendono a diffondersi timori circa la sostenibilità dei debiti pubblici di vari paesi europei, che provocano nuove tensioni sui mercati finanziari. La paura che la crisi dei debiti sovrani inneschi nuove crisi bancarie (data l'esposizione degli istituti verso gli stati considerati a rischio d'insolvenza) spinge l'Unione europea e il Fondo monetario internazionale ad intervenire nei confronti del paese le cui finanze appaiono in condizioni peggiori: la Grecia. Nel maggio del 2010 viene così deliberato un piano di aiuti nei confronti di questo paese, a fronte del quale il suo governo si impegna ad attuare politiche di forti aumenti di imposte e tagli alla spesa pubblica. Viene anche decisa l'istituzione di un fondo europeo di stabilizzazione, la cui funzione sarà quella di concedere prestiti ai paesi europei in difficoltà. Dopo un trentennio di liberalizzazione dell'attività finanziaria, i governi tornano a regolamentarla in forma più stringente, come già avevano fatto negli anni trenta: nel luglio 2010 viene approvata negli Stati Uniti una riforma della vigilanza bancaria che si muove proprio in tal senso. Nel settembre dello stesso anno l'Europarlamento approva una riforma del sistema di supervisione bancaria in ambito europeo, che istituisce nuovi organismi di controllo; i paesi dell'Unione europea approvano inoltre un accordo che prevede un inasprimento dei requisiti patrimoniali richiesti alle banche.
Anche il dibattito intorno alla crisi odierna ha visto delinearsi due opposte interpretazioni, che ne rinvengono le cause l'una in errate politiche pubbliche e l'altra in contraddizioni interne al modo di produzione consolidatosi negli anni precedenti alla crisi. Un'analisi del primo tipo (accostabile a quella offerta da de Girolamo della crisi del 1929) è stata proposta da Alberto Mingardi (2009),secondo il quale un ruolo di primo piano nella generazione della crisi finanziaria è stato ricoperto dalla politica monetaria espansiva seguita dalla banca centrale statunitense negli ultimi anni, che ha determinato una decisa diminuzione dei tassi d'interesse: difatti il basso costo del denaro, generando un'espansione degli investimenti, nel breve termine ha stimolato l'economia, ma a lungo andare ha sortito effetti negativi, in quanto ha distorto i meccanismi attraverso i quali il mercato premia e sanziona gli operatori, facendo apparire convenienti anche impieghi di denaro che non avevano solide prospettive di remunerazione. Ciò ha favorito la concessione di mutui bancari a soggetti a rischio, la cui insolvenza ha rappresentato il fattore scatenante della crisi. L'autorità federale è inoltre da considerarsi responsabile anche direttamente dell'affermarsi di questa tendenza, giacché politici e regolatori hanno apertamente incoraggiato gli istituti di credito ad operare in tal senso, per favorire l'accesso alla proprietà della casa da parte di strati più ampi della popolazione. I ripetuti salvataggi bancari effettuati dal governo negli anni precedenti al 2007, infine, pure hanno contribuito a far apparire praticabili agli operatori del settore pratiche assai rischiose (come la concessione di mutui subprime, per l'appunto), dando loro la sicurezza di poter contare in caso di difficoltà sul sostegno pubblico.
Una lettura vicina a quella data da Fumagalli della grande crisi del secolo scorso è stata invece proposta dagli studiosi marxisti Alberto Burgio (2009) e Vladimiro Giacché (2009). Secondo questi autori, all'origine della crisi finanziaria v'è la politica economico-sociale perseguita dai governi occidentali nell'ultimo trentennio, la quale ha compresso i diritti dei lavoratori, consentendo così alle imprese di accrescere i propri profitti a spese dei redditi dei dipendenti. Negli Stati Uniti e in Inghilterra per raffreddare il conflitto operaio è stata assecondata anche la tendenza delle imprese a delocalizzare la produzione in paesi dal basso costo del lavoro, determinando così una restrizione della base industriale. La stagnazione salariale, l'aumento della disoccupazione e il calo della produzione manifatturiera hanno però indebolito l'economia, facendo emergere una tendenza alla stagnazione ch'è stata combattuta puntando sullo sviluppo del settore finanziario e agevolando l'accesso al credito degli appartenenti agli strati sociali più deboli. Tale strategia di sviluppo ha necessariamente comportato lo smantellamento dei controlli sulle attività speculative, l'adozione d'una politica monetaria espansiva e l'incoraggiamento della concessione di mutui anche a soggetti a rischio d'insolvenza. Stando a questa interpretazione, pertanto, le decisioni delle autorità statuali che quella liberale indica quali responsabili della crisi non ne costituiscono la causa originaria, avendo rappresentato l'inevitabile punto d'arrivo d'una politica che ha mirato a generare sviluppo economico senza rendere partecipe dei suoi benefici la classe lavoratrice. Inoltre tale impostazione impone di ritenere che non sia stata la crisi finanziaria a provocare quella dell'economia reale, ma che all'opposto sia stata la seconda a generare la prima, in quanto postula che siano state le difficoltà in cui sono venute a trovarsi le attività produttive per effetto delle politiche sociali prima citate ad indurre gli investitori a destinare crescenti risorse alla speculazione finanziaria, nel tentativo di compensare tramite quest'ultima il ridursi dei profitti generati dalle prime, e che il fallimento di tale tentativo abbia soltanto portato alla luce la debolezza delle medesime che in precedenza l'euforia finanziaria era riuscita a nascondere.
7. Riferimenti e approfondimenti bibliografici.
L'età contemporanea. Percorso bibliografico nelle collezioni della Biblioteca.
Si suggerisce inoltre la ricerca nel Catalogo del Polo bibliotecario parlamentare e nelle banche dati consultabili dalle postazioni pubbliche della Biblioteca.