I fattori dello sviluppo economico: l'industria (parte seconda: dalla rivoluzione industriale a oggi)

industria1. La prima rivoluzione industriale

2. La seconda rivoluzione industriale

3. L'espansione americana e giapponese

4. La prima metà del XX secolo

5. Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale

6. L'industrializzazione dei paesi asiatici

7. Le tendenze più recenti

8. La questione dei limiti dello sviluppo

9. Riferimenti e approfondimenti bibliografici

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1. La prima rivoluzione industriale

Il periodo compreso tra la fine del Settecento e la metà dell'Ottocento fu segnato dalla nascita dell'industria moderna. In considerazione dell'esistenza d'un'amplissima letteratura sul tema, di tale evento si offrirà in questa sede una trattazione molto sintetica, rimandando i lettori desiderosi di maggiori informazioni alla bibliografia che accompagna l'articolo.

In un saggio curato da Antonio Di Vittorio (2011) il connotato fondamentale del processo di trasformazione comunemente definito "rivoluzione industriale" è individuato nella continuità e nella velocità che assunse in quella fase l'introduzione di innovazioni, dalle quali derivò una notevole accelerazione del progresso tecnologico rispetto alle epoche precedenti: si ebbero così una crescente meccanizzazione dei processi produttivi, la comparsa di macchine utensili efficienti e precise e l'ideazione di macchine alimentate dalla forza del vapore, dalle quali derivarono l'incremento della produttività del lavoro operaio, la possibilità di fabbricare oggetti standardizzati e dalle parti intercambiabili, l'ascesa del carbone quale fonte predominante di energia e la meccanizzazione dei trasporti.

Questa accelerazione dei ritmi dell'innovazione tecnologica non interessò in modo omogeneo l'intero territorio europeo, ma all'opposto investì le sue diverse parti con intensità e in epoche diverse, privilegiando innanzitutto talune regioni della Gran Bretagna e successivamente aree quali la Vallonia belga, alcune parti del territorio francese, la Ruhr prussiana, la Svizzera e la fascia prealpina del Nord Italia. Queste differenze sono in parte imputabili alla dotazione di risorse naturali (corsi d'acqua sfruttabili per ricavarne energia idraulica, miniere di ferro e di carbone) delle diverse regioni, ma in parte sono da ricondurre altresì al grado di sviluppo cui esse erano pervenute nella fase storica precedente, giacché soltanto laddove l'agricoltura, il commercio e lo stesso comparto manifatturiero avevano già beneficiato di notevoli progressi - e dunque avevano raggiunto livelli elevati sia la domanda di beni e servizi espressa dai consumatori che la capacità d'investimento dei produttori - per gli imprenditori risultava possibile e al contempo desiderabile impegnarsi al fine di conseguire forti incrementi della produttività del lavoro.

2. La seconda rivoluzione industriale.

Dalla metà del XIX secolo andò accrescendosi l'influenza della ricerca scientifica sull'evoluzione dell'industria. Le innovazioni che essa rese possibili determinarono lo sviluppo di comparti prima inesistenti o dalla rilevanza limitata, quali quelli dell'acciaio, dell'elettricità e della chimica. Queste trasformazioni furono accompagnate da altre inerenti l'organizzazione della produzione. La crescita degli investimenti e dei costi da sostenere, sempre meno facilmente affrontabili da parte delle imprese familiari, condusse difatti all'affermazione delle società per azioni, alla dipendenza di molte imprese dal credito bancario, alla ricerca di economie di scala tramite la crescita dimensionale delle aziende e a politiche di fusioni e di cartello volte a limitare la concorrenza e ad integrare in un'unica struttura societaria le imprese protagoniste delle diverse fasi della produzione di determinati beni.

In questa fase si accrebbe il ruolo delle istituzioni pubbliche quali promotrici della crescita industriale, giacché nei paesi che iniziarono soltanto allora a svilupparsi lo stato cercò di rimediare, tramite il proprio impegno più o meno diretto, alla debolezza delle locali forze borghesi e alla scarsità di capitali. Inoltre in molti stati il sistema scolastico e universitario conobbe un'evoluzione funzionale ad assecondare le esigenze dell'industria, che andava esprimendo una crescente domanda di lavoratori qualificati. Ancora, i governi si impegnarono nella costruzione di imponenti infrastrutture utili a consentire lo sviluppo dei trasporti (innanzitutto ferroviari; ma anche marittimi, mediante la realizzazione di porti e canali) e delle comunicazioni (tramite telegrafo). Infine, uno stimolo all'espansione manifatturiera provenne in questo periodo anche dalle politiche protezioniste e imperialiste cui diversi stati fecero ricorso, miranti a difendere dalla concorrenza straniera le industrie nazionali e a procurare alle medesime materie prime e nuovi sbocchi commerciali.

Il progresso scientifico e tecnologico di quei decenni pose condizioni favorevoli all'alterazione degli equilibri che s'erano stabiliti nella fase della prima rivoluzione industriale, agevolando il recupero da parte delle nazioni ritardatarie del divario stabilitosi fra queste e quelle ch'erano state più fortemente interessate dalla prima rivoluzione industriale. Significativo è il caso della Germania, il cui apparato industriale nei decenni a cavallo del 1900 andò sviluppandosi più intensamente di quello inglese. A parere di Cameron e Neal (2005),un fattore di vantaggio sul quale tale paese poté contare fu proprio il fatto che la sua espansione manifatturiera ebbe inizio soltanto allora: esso, difatti, fece sì che gli imprenditori tedeschi potessero avvalersi da subito delle tecnologie più avanzate, mentre quelli inglesi furono trattenuti dal dotarsi di macchinari e strumenti del tipo più moderno dalla necessità di ammortizzare gli investimenti che avevano già compiuto in passato per dotarsi delle attrezzature di cui al momento disponevano. Anche l'Italia in questa fase sperimentò un'accelerazione del proprio ritmo di crescita industriale. Come spiega Paolo Malanima (2002), gli imprenditori italiani erano stati molto penalizzati, sino al tardo Ottocento, dall'alto costo dell'energia, derivante dalla limitata disponibilità di carbone di cui soffriva il nostro paese, che imponeva d'importarne grandi quantitativi. Intorno al 1900, però, da una parte si verificò un'evoluzione dei mezzi di trasporto che consentì la riduzione dei costi delle importazioni e dall'altra diminuì la dipendenza dell'industria nazionale dal carbone quale fonte di energia, in quanto si ebbe lo sviluppo d'una nuova tecnologia, funzionale alla conversione dell'energia idraulica in energia elettrica e di questa in forza lavoro, la quale rese possibile la messa in valore d'una risorsa che in Italia risultava invece abbondante.

3. L'espansione americana e giapponese.

Scrivono Cameron e Neal che l'affermazione delle moderne tipologie d'industria coinvolse da subito anche gli Stati Uniti, paese che poteva contare su un'elevata disponibilità di risorse naturali. I decenni della seconda rivoluzione industriale videro poi questo paese sopravanzare tutti gli altri, divenendo alla fine del secolo la prima potenza industriale del mondo. Il maggiore contributo allo sviluppo industriale statunitense provenne in questa fase dal comparto siderurgico, la cui espansione fu stimolata dagli enormi investimenti compiuti per la realizzazione delle linee ferroviarie transcontinentali. Parallelamente, in questo periodo ebbe inizio lo sviluppo d'un altro paese extraeuropeo, destinato anch'esso a diventare - sebbene soltanto in epoca successiva - una delle principali potenze industriali del mondo: il Giappone. All'origine del suo decollo economico vi fu soprattutto l'interventismo delle autorità governative, da cui derivò l'introduzione nell'industria locale delle più moderne tecnologie occidentali, la quale consentì non soltanto la meccanizzazione delle manifatture tradizionali (come quelle tessili), ma anche la formazione di gruppi industriali operanti nei settori più avanzati (quali quello siderurgico, meccanico e chimico).

4. La prima metà del XX secolo.

La prima metà del XX secolo fu segnata dall'accentuarsi in tutti i paesi industriali delle politiche protezioniste e dirigiste emerse nel corso del secolo precedente. Secondo Ivan T. Berend, questa tendenza si manifestò soprattutto nelle epoche segnate dai due conflitti mondiali (nelle quali gli stati furono obbligati a ricercare l'autosufficienza nei vari settori produttivi e a sottoporre ad uno stretto controllo l'attività industriale, per renderla funzionale agli sforzi bellici), ma risultò forte anche negli anni che intercorsero fra l'uno e l'altro, in particolare nella fase della grande depressione (ossia negli anni trenta). Caratteristica della fase successiva al 1918 fu la notevole rilevanza assunta dal modello della proprietà pubblica dell'impresa: alla nazionalizzazione di aziende private e alla costituzione di nuove industrie ad opera dello stato, difatti, i governi fecero all'epoca largo ricorso, per sostenere settori in crisi e creare o salvaguardare posti di lavoro.

Il dirigismo economico, benché osservabile ovunque, risultò particolarmente accentuato negli stati retti da regimi totalitari, quali la Germania nazista, l'Italia fascista e naturalmente l'Unione Sovietica. In quest'ultimo paese la volontà di colmare nel più breve tempo possibile il divario esistente nei confronti dei paesi più sviluppati condusse, a partire dal 1929 (data dell'approvazione del primo piano quinquennale), alla realizzazione d'una politica d'industrializzazione forzata, fondata sullo sfruttamento del settore agricolo (solo comparto dal quale si potevano ricavare le risorse necessarie a finanziare gli investimenti industriali). Questo fu perseguito tramite la gestione e la regolazione pubblica di tutti gli aspetti della vita economica e la conseguente eliminazione dei preesistenti meccanismi di mercato: in tal modo divenne possibile fissare prezzi artificiosamente bassi per le derrate agricole e artificiosamente elevati per i manufatti, realizzando così un trasferimento di risorse dall'agricoltura al comparto manifatturiero.

Accanto alle politiche pubbliche di tutela delle sorti delle imprese e di salvaguardia dell'occupazione, un ruolo importante nel contenere gli effetti della crisi fu ricoperto dal progresso scientifico-tecnologico, che nei primi decenni del secolo favorì, come aveva già fatto nel tardo Ottocento, il progresso dei settori industriali esistenti e la nascita di nuovi comparti. In particolare, si ebbero allora una grande crescita dei consumi elettrici, la diffusione di inediti strumenti di comunicazione (telefono e radio), una crescente meccanizzazione dell'agricoltura e lo sviluppo dell'aviazione e dell'industria automobilistica.

5. Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale

Dalla seconda guerra mondiale - scrivono ancora Cameron e Neal - i paesi europei uscirono enormemente indeboliti sul piano industriale, a causa delle distruzioni belliche, della penuria di risorse finanziarie e della rottura dei rapporti commerciali con gli altri continenti, mentre gli Stati Uniti uscirono rafforzati, non soltanto perché i loro apparati produttivi non avevano subito danni diretti, ma anche perché la forte domanda bellica ne aveva stimolato l'espansione e la modernizzazione. In questo paese alla fine delle ostilità seguì poi un'ulteriore fase di crescita, dovuta all'esplosione dei consumi della popolazione, che negli anni del conflitto erano stati forzatamente compressi dalla scarsità di beni derivata dalla concentrazione dello sforzo produttivo nel settore militare. Questa posizione di forza in cui gli Stati Uniti vennero a trovarsi consentì loro di concedere alle nazioni dell'Europa occidentale dei cospicui aiuti economici, i quali permisero la ricostruzione delle strutture industriali danneggiate o distrutte durante la guerra. Questa si caratterizzò per l'applicazione su vasta scala delle innovazioni tecnologiche che nelle economie prebelliche europee non avevano potuto diffondersi a causa della depressione: in tali nazioni la ripresa della produzione industriale fu così seguita da una sua forte espansione, giacché per le loro imprese era divenuto possibile produrre di più e vendere a prezzi più contenuti.

La realtà industriale postbellica fu dominata in Europa da una presenza dello stato ancora più forte di quella stabilitasi nella fase precedente. Come rileva Berend, nella parte occidentale del continente vi furono settori - in particolare la produzione dell'energia, le ferrovie, le telecomunicazioni - nei quali il peso dell'industria pubblica divenne preponderante. Per mezzo di questa accentuata presenza dello stato in settori chiave dell'economia, i governi ritennero di poter perseguire più efficacemente la crescita economica, giacché alle imprese pubbliche essi potevano porre determinati obiettivi da raggiungere (quali l'introduzione e la diffusione di nuove attività ad alta tecnologia). Si ebbe così anche nell'Europa occidentale l'introduzione di forme di pianificazione, le quali tuttavia si sovrapposero ai meccanismi dell'economia di mercato, senza sostituirsi ad essi: difatti non soltanto continuarono ad esistere grandi gruppi industriali privati, ma le stesse aziende pubbliche dovettero rispondere, oltre che alle indicazioni provenienti dalla proprietà pubblica, anche a logiche di mercato. Nell'Europa orientale si ebbe invece l'applicazione dei principi dell'economia pianificata di tipo sovietico, conseguente all'occupazione militare che essi avevano subito da parte dell'URSS, che li aveva condotti sotto l'egida politica di questo paese. Com'era avvenuto in Russia, anche negli stati dell'Est europeo il sistema della pianificazione centrale rese possibile il verificarsi d'un processo di industrializzazione particolarmente dinamico. Nel lungo termine, tuttavia, la mancanza di concorrenza e di incentivi di mercato caratterizzanti tale sistema minò la capacità di progresso tecnologico delle imprese di tale area. Nei decenni successivi al conflitto mondiale, pertanto, in essi la struttura industriale andò sì espandendosi rapidamente, ma senza progredire dal punto di vista qualitativo; questa divenne così sempre più arretrata rispetto a quella occidentale, con la sola eccezione del comparto militare (nel quale gli stimoli all'innovazione invece esistevano, data la competizione che esso doveva sostenere con le industrie belliche del blocco occidentale).

Al forte interventismo degli stati sul piano delle politiche industriali fece riscontro una progressiva liberalizzazione dei commerci, che rese più agevole esportare ed importare prodotti manifatturieri, accrescendo il grado di concorrenza fra i diversi sistemi industriali. Una ricostruzione di questa trasformazione è offerta nello studio di Di Vittorio, che individua quale suo punto di partenza l'accordo GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), appena posteriore alla fine del conflitto, dal quale scaturirono - nell'arco dei decenni che seguirono - una serie di negoziazioni fra i paesi aderenti, tese alla rimozione degli ostacoli posti agli scambi mercantili. In Europa, la crescita dell'interscambio commerciale suscitato dalle prime misure di liberalizzazione stimolò la costituzione, nel 1957, di un'associazione fra stati - la Comunità Economica Europea - volta all'elaborazione d'una politica commerciale comune a tutti gli aderenti e alla costituzione al proprio interno d'un'area di libero scambio. Costituita inizialmente da soli sei membri, avrebbe conosciuto nel corso dei decenni una progressiva espansione, giungendo infine a integrare, all'alba del XXI secolo, anche i paesi già appartenenti al blocco comunista.

6. L'industrializzazione dei paesi asiatici

Nei medesimi anni in cui gli Stati Uniti si confermavano la prima economia mondiale e i paesi dell'Europa occidentale raggiungevano a loro volta elevati livelli di sviluppo si ebbe anche una forte espansione di alcune economie del Sud-est asiatico, fondata su un rapido processo di industrializzazione. Il caso più rilevante fu quello del Giappone, che giunse ad essere una delle maggiori potenze industriali del mondo; ma accanto ad esso s'ebbe anche, sia pure in tempi e con risultati diversi, lo sviluppo di vari altri paesi dell'area. Uno studio inerente l'insieme di questi processi di sviluppo è stato svolto da Michael Schuman (2010), il quale ha indicato diversi fattori cui essi sarebbero riconducibili. Uno di tali fattori fu di natura prettamente politica: gli Stati Uniti avevano bisogno di costituire una catena di governi amici nel continente asiatico, per contenere l'avanzata del comunismo. Essi pertanto furono indotti ad offrire aiuti economici ad alcuni dei paesi dell'area (Giappone, Corea del Sud e Taiwan) e a consentire ai loro prodotti l'accesso al grande mercato statunitense. Grande importanza assunse anche il basso costo del lavoro, che facilitò la crescita delle esportazioni e indusse grandi imprese americane ad impiantare stabilimenti nella regione (l'espansione industriale di Hong Kong, Singapore e Taiwan si fondò in larga misura sull'attrazione di investimenti stranieri). In vari casi un ruolo positivo fu ricoperto anche dalle politiche pubbliche: governi quali quelli giapponese e coreano intervennero pesantemente nell'economia, scegliendo specifici settori o gruppi industriali da sostenere. Agendo in tal modo essi riuscirono a far sorgere grandi competitori sul mercato mondiale in settori dove in precedenza erano del tutto assenti.

7. Le tendenze più recenti.

Nell'ultimo trentennio al gruppo dei paesi asiatici in via di sviluppo si sono aggregati la Cina e poi l'India, ossia i due paesi più popolosi del continente. Schuman ha ricondotto la loro ascesa all'allentamento dei rigidi controlli che in entrambi i paesi (l'uno retto da un regime comunista, l'altro caratterizzato da un sistema capitalista, ma segnato da accentuate tendenze pianificatrici) erano posti sulle attività economiche. In Cina le riforme economiche hanno avuto inizio alla fine degli anni Settanta ed hanno comportato la decentralizzazione dei processi decisionali, la limitazione dei poteri dei pianificatori, l'incoraggiamento degli investimenti stranieri e l'inserimento dell'economia nel sistema dei traffici internazionali. In tal modo la Cina è divenuta in grado di sfruttare le sue enormi riserve di manodopera a buon mercato, divenendo una grande produttrice di beni di largo consumo destinati all'esportazione sui mercati di tutto il mondo. In India le riforme sono state attuate a partire dagli anni Novanta e sono consistite principalmente nell'eliminazione del sistema di licenze che regolamentava il commercio con l'estero e la produzione manifatturiera, ostacolando le esportazioni e le importazioni, l'iniziativa degli imprenditori locali e gli investimenti esteri.

Altro fenomeno da menzionare è il passaggio, verificatosi dopo il 1989, dei paesi del blocco comunista all'economia di mercato. Tale passaggio è stato tutt'altro che indolore, come sottolinea Berend, secondo il quale la prematura apertura dei mercati di quei paesi, in assenza dei necessari aggiustamenti economici e strutturali, ha condotto a una contrazione della produzione industriale dell'ordine del 25-30 per cento. È occorso un intero decennio perché le più forti tra le economie di quell'area tornassero ai livelli di PIL del 1989; e all'epoca della pubblicazione originaria dello studio di questo autore (il 2006) ciò non risultava ancora avvenuto in Russia, Ucraina e Bielorussia.

D'altronde, anche le economie dei paesi occidentali stanno oggi vivendo una fase non facile, caratterizzata - come illustrato da Jha (2007 e 2010) - da una tendenza alla deindustrializzazione che ha determinato, a partire dagli anni Settanta, l'emergere d'una disoccupazione cronica prima pressoché sconosciuta. L'autore menzionato spiega questo mutamento, oltre che col duplice shock petrolifero degli anni Settanta (i cui effetti furono sì pesanti, ma solo temporanei), con la crescente delocalizzazione delle attività produttive dai paesi avanzati a quelli in via di sviluppo: un fenomeno generato dalla progressiva liberalizzazione del commercio internazionale e dall'evoluzione delle tecnologie dei trasporti e dell'informazione, che hanno reso conveniente produrre i beni di consumo in quei paesi di nuova industrializzazione in cui esistevano ampie riserve di manodopera qualificata a basso costo.

8. La questione dei limiti dello sviluppo

Com'è naturale, la possibilità d'un declino industriale suscita non poche preoccupazioni nei paesi più sviluppati; al loro interno, tuttavia, se da una parte è fortemente avvertita l'esigenza di rilanciare lo sviluppo economico, dall'altra hanno ormai assunto grande rilevanza anche la questione degli effetti negativi che lo sviluppo medesimo è suscettibile di determinare sull'ambiente ed il timore che esso sia destinato a conoscere in tempi non lontani un arresto a causa dell'esaurimento delle risorse naturali non rinnovabili. Il rapporto al Club di Roma del 1972 è generalmente considerato il primo allarme lanciato in merito a tali problemi; in esso si sosteneva la necessità di limitare deliberatamente lo sviluppo economico, in modo da realizzare una transizione controllata da un sistema fondato sul perseguimento della crescita (destinato comunque a rivelarsi insostenibile) ad uno fondato sul mantenimento d'una situazione di equilibrio. Un'analisi complessiva dei guasti ambientali prodotti delle attività industriali è rinvenibile in Lester R. Brown (2010), il quale menziona, fra gli altri, il cambiamento climatico, il consumo delle risorse acquifere, l'immissione nell'atmosfera di agenti chimici e l'acidificazione degli oceani. Il problema dell'esaurimento delle risorse naturali è stato trattato considerando in particolar modo la questione della fine del petrolio, che in vari studi recenti, come quello di Jeremy Leggett (2006), è giudicata assai prossima e suscettibile di provocare autentici sconvolgimenti economici, data la dipendenza della nostra società da questa fonte di energia. Se si è formato un largo consenso relativamente alla natura e alla gravità dei problemi da affrontare, sussistono tuttavia posizioni differenziate in merito alla strategia da intraprendere per risolverli, giacché da un lato v'è chi, come Herman E. Daly (2001) ritiene che attraverso il controllo demografico, la redistribuzione della ricchezza e il progresso tecnico si possa riuscire a conciliare lo sviluppo con la tutela dell'ambiente naturale (è la linea del cosiddetto "sviluppo sostenibile") e dall'altro chi, come Serge Latouche (2007), ritiene che quest'ultima sia perseguibile soltanto attraverso una drastica riduzione dei consumi materiali (è la posizione dei teorici della "decrescita").

9. Riferimenti e approfondimenti bibliografici.

Dalla rivoluzione industriale a oggi. Percorso bibliografico nelle collezioni della Biblioteca.

Si suggerisce inoltre la ricerca nel Catalogo del Polo bibliotecario parlamentare e nelle banche dati consultabili dalle postazioni pubbliche della Biblioteca.



Informazioni aggiuntive

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