Il federalismo alla Costituente

costituenteA partire dal primo numero di questa nuova serie dedichiamo un ciclo di articoli a tematiche e protagonisti del pensiero politico italiano ed internazionale.

Inauguriamo la rubrica con un'analisi del riconoscimento che alle autonomie territoriali si volle dare nel dibattito all'Assemblea Costituente, che, insieme alla prima puntata del nostro Speciale, contribuisce all'approfondimento di un tema centrale nella storia istituzionale del nostro Paese.



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1. Antifascismo e autonomie locali

2. Chi erano i federalisti.

3. Federalismo e regionalismo all'Assemblea costituente.

4. Riferimenti e approfondimenti bibliografici.

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1. Antifascismo e autonomie locali.

Durante la Resistenza, la prospettiva del ripristino e dello sviluppo delle autonomie locali, tutelate attraverso specifiche garanzie costituzionali, emerse come uno dei principali punti di convergenza tra le proposte che animavano il confronto delle forze politiche antifasciste sul futuro assetto dello Stato: nella pluralità delle voci e dei progetti, autonomia e democrazia apparivano così strettamente collegate che Claudio Pavone ha potuto a ragione affermare che "[…] la Resistenza è stata pressoché unanime, nelle sue prese di posizione esplicite, nel rivendicare decentramento e autonomie locali" (1975). Questo indirizzo esprimeva anche la reazione all'esasperato centralismo del regime fascista, che, oltre a smantellare le amministrazioni locali elettive, aveva condotto una politica di repressione delle aspirazioni autonomistiche delle aree allogene (Valle d'Aosta, Sud Tirolo e Istria), sostenuta da una campagna di italianizzazione destinata a suscitare forti resistenze nelle popolazioni locali e ad alimentare le correnti separatiste.

Nell'opzione autonomistica dell'antifascismo, tuttavia, si compendiava un orientamento politico di notevole latitudine e, al di là di un generalizzato favore verso le istanze di tutela e valorizzazione dell'autogoverno locale, si articolavano indirizzi e culture politiche che, al momento del passaggio dalle enunciazioni di principio alla progettazione costituzionale, avrebbero messo in mostra differenze notevoli, e indotto l'Assemblea Costituente a varie mediazioni prima di pervenire a una sintesi condivisa.

Di certo, non appariva sufficiente il mero ripristino del carattere elettivo di comuni e province, magari accompagnato dall'ampliamento della sfera delle loro prerogative e all'eliminazione delle manifestazioni più oppressive del centralismo: nel dibattito che precedette e accompagnò i lavori dell'Assemblea Costituente, il tema delle autonomie territoriali fu infatti declinato prevalentemente in termini regionalistici. L'istituzione delle Regioni condizionò l'intera discussione sulle amministrazioni locali, e costituì un punto centrale dei lavori preparatori della carta costituzionale: una simile innovazione, infatti, rispondeva in positivo all'istanza, percepita in maggiore o minore misura da tutte le formazioni antifasciste, di sancire una forte discontinuità sul piano istituzionale rispetto non solo al regime fascista ma anche all'ordinamento liberale, come condizione imprescindibile per la rinascita democratica dello Stato. Inoltre, l'indirizzo regionalista era proprio di componenti politiche che rappresentavano in qualche misura gli "sconfitti" del processo di unità nazionale egemonizzato dal liberalismo moderato: i cattolici, in primo luogo, i quali, già con le Idee ricostruttive della democrazia cristiana (1943) di Alcide De Gasperi, avevano ribadito la vocazione regionalista che ricollegava la DC all'esperienza del Partito Popolare ed all'elaborazione politica di Luigi Sturzo; in secondo luogo, le correnti repubblicane e radicali, distribuite nel dopoguerra tra il Partito d'Azione ed il Partito Repubblicano, eredi del federalismo democratico di Cattaneo, e nelle cui fila militarono i più convinti regionalisti tra i costituenti. Più tiepidi, se non ostili, verso un regionalismo eccessivamente spinto, si collocavano, ai due estremi dello schieramento politico, i liberali, preoccupati che esso potesse compromettere l'unità dello Stato, e i due partiti marxisti, PCI e PSIUP, timorosi che il decentramento istituzionale potesse alimentare spinte conservatrici e contrastare le radicali riforme economiche e sociali indicate come indispensabile base strutturale di una democrazia "progressiva".

Le diverse prospettive si manifestarono sin dall'inizio dei lavori dell'Assemblea Costituente: già nella fase preparatoria, nella seconda Sottocommissione (ordinamento costituzionale dello Stato), si evidenziarono le principali tendenze del dibattito regionalista: all'orientamento della Democrazia Cristiana, incline a fare della regione un organo di rappresentanza non solo politica, ma anche degli interessi (raccordato, per questo aspetto, con un'ipotetica seconda camera), dotato di potestà legislativa esclusiva su un certo numero di materie, si contrappose quello socialcomunista, favorevole a limitare la regione a compiti puramente amministrativi e comunque ad attribuire a quest'ultima una potestà legislativa circoscritta nell'ambito dei princìpi espressi dalla legislazione nazionale; ai due estremi, si collocavano da un lato i sostenitori della centralità dell'ordinamento statale, temperato solo da un consistente decentramento burocratico, e sul lato opposto i federalisti in senso proprio.

2. Chi erano i federalisti.

Ma chi erano i federalisti della Costituente? E quali erano le loro rivendicazioni?

Anzitutto occorre intendersi sul significato che il termine federalismo assunse in quella particolare temperie politica: il trauma dell'8 settembre, con la concreta possibilità della definitiva dissoluzione dell'unità statale, aveva reso quanto meno difficilmente proponibile la prospettiva di un assetto che ripartisse la sovranità tra stati regionali e governo federale. Una tale soluzione fu sostenuta esplicitamente alla Costituente soltanto da Andrea Finocchiaro Aprile, rappresentante della componente "moderata" del separatismo siciliano, che dal luglio 1943 in avanti aveva incarnato una singolare combinazione di pulsioni campanilistiche e spinte riformatrici, ma nel quale avrebbe finito per prevalere l'intreccio tra gli interessi più retrivi del latifondo e gruppi mafiosi ed eversivi. Appariva ben più praticabile un significativo allargamento degli ambiti entro i quali fosse data alle regioni, titolari di un proprio indirizzo politico, la facoltà di legiferare, pur nei limiti tracciati dalla Costituzione, in modo tale che allo Stato centrale residuassero poche e qualificate attribuzioni, e la maggior parte delle funzioni pubbliche risultasse trasferita a soggetti istituzionali periferici.

In questa accezione, molti convinti regionalisti accettarono e anzi portarono con un certo orgoglio la definizione di federalisti. Gran parte di essi aveva maturato i propri convincimenti nel clima del primo dopoguerra, quando decentramento, regionalismo e federalismo erano apparsi a forze di diversa estrazione come la strada più praticabile per estendere la partecipazione politica alla massa dei reduci, animati da forti aspettative di rinnovamento sociale, per fronteggiare una crisi del parlamentarismo che appariva irreversibile, e per coinvolgere nella gestione della cosa pubblica, soprattutto nel Mezzogiorno, il proletariato e la piccola borghesia agraria che, nelle trincee, avevano sostenuto il peso principale dello sforzo bellico. Questo indirizzo, tra l'altro, accomunava neutralisti ed esponenti dell'interventismo democratico: esplicitamente regionalista si dichiarò, sin dalla fondazione (1919) il Partito popolare di Luigi Sturzo, mentre l'elaborazione di Gaetano Salvemini, basata su un'idea di federalismo municipale e di creazione delle regioni dal basso, per spontanea associazione di comuni e province, avrebbe influenzato sia il repubblicano Oliviero Zuccarini, direttore della "Critica politica", sia Piero Gobetti, che nelle sue riviste avrebbe dato ampio spazio alla discussione sulle autonomie territoriali, sia una parte dei socialisti riformisti (a partire dal giovane Carlo Rosselli) che nelle tematiche autonomistiche individuavano un punto qualificante di un più generale processo di rinnovamento del socialismo italiano. Un altro apporto veniva poi dai movimenti autonomisti sviluppatesi in alcune regioni e segnatamente in Sardegna, dove il Partito Sardo d'Azione, nato dalla costola del movimento combattentistico, aveva sostenuto un programma di democrazia agraria, di cui il federalismo costituiva la veste istituzionale.

3. Federalismo e regionalismo all'Assemblea costituente.

Alcuni rappresentanti della generazione del dopoguerra, che avevano preso immediatamente posizione contro il carattere autoritario e centralista del fascismo, si ritrovarono a sostenere le loro posizioni all'Assemblea Costituente, in un contesto certamente diverso da quello del primo dopoguerra. Le elezioni del 2 giugno 1946 avevano infatti registrato il prevalere dei tre partiti di massa, socialista, comunista e democratico cristiano, mentre i federalisti, soprattutto quelli di indirizzo laico-democratico, si ritrovavano in minoranza, anche perché la DC, nel corso dei lavori dell'Assemblea, venne progressivamente ridimensionando l'originaria impostazione che uno dei suoi più brillanti costituzionalisti, Gaspare Ambrosini, aveva dato alla questione regionale nella sua relazione alla seconda Sottocommissione, assumendo un atteggiamento più prudente, che in qualche nodo anticipava quello dilatorio che avrebbe assunto dalla prima legislatura repubblicana alla fine degli anni '60. In questa situazione, la pattuglia federalista, composta da singole personalità difficilmente riconducibili ad uno schieramento politico, sostenne con lodevole tenacia un punto di vista che, pur minoritario, ebbe però una parte non secondaria nell'affermazione del principio regionalistico nella carta costituzionale. Personalità come i repubblicani Oliviero Zuccarini e Giovanni Conti, il sardista Emilio Lussu, l'autonomista valdostano Giulio Bordon, non mancarono di fornire un contributo essenziale, sin dal dibattito in seconda Sottocommissione, alla preparazione della carta fondamentale, soprattutto nella costante sottolineatura della valenza democratica di un vero decentramento istituzionale, anche se alla fine restarono critici nei confronti dell'impostazione generale del Titolo V della Costituzione, a loro avviso eccessivamente timido e sostanzialmente ancorato ad un modello statalista. Gli esempi sono innumerevoli, e non è certo possibile richiamarli tutti: nella seduta pomeridiana del 6 giugno 1947, avendo l'Assemblea iniziato la discussione generale sul Titolo V del progetto di Costituzione, Zuccarini (p.4509 e sgg.)intervenne non solo per rivendicare la sua risalente battaglia per le autonomie, ma, evocando il favore con cui Gobetti, Dorso e Rosselli avevano considerato soluzioni di decentramento istituzionale, manifestò la propria delusione per la scelta di restringere i poteri di normazione primaria delle regioni a statuto ordinario alla sola potestà legislativa concorrente, e sottolineò altresì come la soluzione regionalista avesse a che fare non tanto con la semplificazione degli apparati pubblici, quanto con la natura stessa del regime democratico a cui si stava dando vita, qualora alla regione fosse stato effettivamente attribuito il ruolo di organo di collegamento tra lo Stato e le autonomie locali e di "trasferimento della sovranità dal basso verso l'alto". È pur vero che si arrivava a discutere di regioni nell'aula di Montecitorio, quando già nella seconda Sottocommissione e nella Commissione per la Costituzione le proposte più ardite e più "spinte" di regionalismo erano risultate minoritarie, come peraltro ebbe modo di sottolineare Emilio Lussu nel suo intervento in discussione generale (29 maggio 1947, p.4329): con graffiante ironia, egli ammetteva che il regionalismo italiano, quale si andava delineando apparteneva alla famiglia del federalismo così come i gatti appartenevano alla stessa famiglia dei leoni, ma al contempo sottolineava come il sistema delle autonomie costituisse il motore di una vita pubblica effettivamente democratica (un argomento questo, caro anche al costituzionalista democristiano Costantino Mortati) e richiamava l'attenzione dell'Assemblea sulla necessità di non procrastinare il processo di liquidazione del centralismo statalista. Forte di tale convincimento, Lussu sostenne con vigore l'opportunità di riconoscere particolari condizioni di autonomia alle zone in cui essa si rendeva urgente in relazione a specifiche condizioni economiche, sociali e culturali: non solo per la sua Sardegna, di cui non cessò mai di occuparsi nel corso della sua vita parlamentare, ma anche per altre regioni, come la Valle d'Aosta, sul cui Statuto speciale fu relatore all'Assemblea, prodigandosi al fine assicurare un livello di autonomia adeguato ad una regione che aveva particolarmente sofferto per la campagna di italianizzazione forzata condotta dal fascismo e nella quale la tradizione democratica si era indissolubilmente legata alla causa autonomista.

Anche se le posizioni più schiettamente federaliste rimasero in minoranza nell'Assemblea, l'azione politica di un piccolo gruppo di costituenti non mancò di conseguire l'obiettivo prioritario di affermare il principio per cui la larghezza delle autonomie locali ed il riconoscimento delle regioni nella Costituzione entravano in modo organico a comporre il quadro della nuova democrazia italiana. La loro credibilità dipese molto dal fatto di non avere mai legato la rivendicazione delle autonomie a motivazioni grettamente campanilistiche, ma di averle sempre considerate come elemento di rafforzamento, e non di disgregazione, dell'unità della nazione, della sua coesione economica, sociale e culturale e della sua identità.

4. Riferimenti e approfondimenti bibliografici.

Claudio Pavone, Autonomie locali e decentramento nella Resistenza, in Regioni e Stato dalla Resistenza alla Costituzione, a cura di Massimo Legnani. Bologna, Il Mulino, 1975, p.49 e sgg.

Alcide De Gasperi, Idee ricostruttive della Democrazia Cristiana, in Atti e documenti della Democrazia Cristiana 1943-1967, a cura di Andrea Damilano. Roma, Edizioni Cinque Lune, 11968, Vol. I, pp. 1-8.

(Sala Scienze Politiche - Part. polit. Italia DC II. 6/1-2)

Gli atti dell'Assemblea Costituente sono consultabili in apposita sezione del sito della Camera dei deputati.

Per approfondimenti, si rimanda al catalogo del Polo Bibliografico Parlamentare.



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