Atto n. 1-00662 (Testo 2)

(Riformulazione del n. 1-00662)

Pubblicato il 25 ottobre 2016, nella seduta n. 707
Esame concluso nella seduta n. 708 dell'Assemblea (25/10/2016)

BARANI , MAZZONI , AMORUSO , AURICCHIO , COMPAGNONE , CONTI , D'ANNA , FALANGA , GAMBARO , IURLARO , LANGELLA , LONGO Eva , MILO , PAGNONCELLI , PICCINELLI , RUVOLO , SCAVONE , VERDINI

Il Senato,

premesso che:

su 500 milioni di europei dell'Unione, solo il 6,9 per cento è costituito da immigrati: la quota di stranieri varia dal 45,9 per cento del Lussemburgo allo 0,3 per cento della Polonia, mentre l'Italia, con una quota dell'8,2 per cento è allineata agli altri grandi Paesi come la Germania (9,3 per cento), il Regno Unito (8,4 per cento) e la Francia (6,6 per cento). Nel nostro Paese l'aumento significativo degli immigrati nel corso dell'ultimo decennio ha controbilanciato la flessione degli italiani, consentendo il mantenimento del livello complessivo della popolazione;

alla luce dei conflitti e delle carestie che hanno devastato molti Paesi del Medio oriente e dell'Africa, le richieste di asilo nei Paesi dell'Unione europea sono aumentate da poche decine di migliaia del 2014 a oltre 170.000 dell'ottobre 2015, per subire un repentino ridimensionamento nei primi mesi del 2016, a causa della chiusura della rotta balcanica seguita agli accordi con la Turchia. Tra gli Stati membri, il Paese che ha ricevuto nel 2015 il maggior numero di richieste di protezione internazionale è la Germania (442.000), seguita dall'Ungheria (174.000), dalla Svezia (156.000), dall'Austria (86.000) e dall'Italia (83.000). In Italia l'aumento del numero di richieste d'asilo rispetto al 2013 è rilevante, dal momento che è più che triplicato, ma questa dinamica trova una spiegazione nel numero tradizionalmente basso delle richieste di asilo nel nostro Paese, considerato solo di transito: con l'intensificarsi dei vincoli della Commissione europea per una più rigida applicazione dell'accordo di Dublino, molti migranti, anche quelli che non provenivano da Paesi in guerra, consapevoli di non poter raggiungere altri Stati europei, hanno preferito fare domanda d'asilo in Italia e avere così un titolo per potervi rimanere legalmente fino alla conclusione dell'iter;

oltre la metà delle domande d'asilo presentate in Italia è stata respinta (58,6 per cento): il tasso di non accoglimento del nostro Paese è superiore di 10 punti percentuali rispetto a quello della media europea (48,1 per cento), dei Paesi del nord Europa come la Svezia (27,8 per cento) e la Germania (43,5 per cento), ma è superato dalla Francia (73,5 per cento), Spagna (68,5 per cento) e dal Regno Unito (63,3 per cento). L'aumento dei dinieghi da parte dell'Italia dal 2008 al 2015 di più della metà delle domande d'asilo (119.000 migranti) si traduce nella probabile presenza nel nostro Paese di decine di migliaia di persone che, una volta non ammesse alla protezione, non hanno più titolo per rimanere sul territorio legalmente né possono regolarizzare la propria posizione anche se in possesso di una proposta o di un contratto di lavoro. Pakistan, Mali, Gambia, Bangladesh, Ghana, Senegal, Tunisia e Costa d'Avorio, ma anche da Paesi in guerra;

agli immigrati sono riservati solo i lavori non qualificati, in gran parte rifiutati dagli italiani: gli stranieri occupano progressivamente le posizioni meno qualificate, soprattutto nei servizi alla persona, nelle costruzioni e in agricoltura. Le mansioni maggiormente diffuse tra le donne immigrate sono quelle di colf, badanti, cameriere, addette alle pulizie di uffici e commesse, mentre tra gli uomini i lavori più diffusi sono quelli di operaio edile, facchino, cameriere e cuoco, bracciante, autista e saldatore;

il tasso d'inattività delle donne immigrate presenta differenze molti rilevanti in relazione alla loro cittadinanza: il valore di questo indicatore, cioè la quota di donne straniere che non lavorano e non cercano neppure un'occupazione, varia dal minimo del 15,1 per cento della comunità filippina, al valore massimo del 92,6 per cento di quella egiziana, con una differenza di 78 punti percentuali (solo 23 punti tra gli uomini). Tassi d'inattività molto alti si osservano anche per le donne immigrate dal Pakistan (90 per cento), Bangladesh (84 per cento), India (79,5 per cento) e Marocco (66,1 per cento). Le ragioni di queste disparità così forti nel tasso d'inattività fra le donne immigrate possono essere probabilmente rintracciate nei condizionamenti culturali e religiosi dei Paesi d'origine, nei ruoli differenti che ha la donna in quei Paesi e in fenomeni di segregazione tra le mura domestiche. Spesso la scarsa conoscenza della lingua italiana aggrava il loro isolamento;

secondo i dati della Banca d'Italia, le rimesse degli immigrati trasferite dall'Italia ai Paesi d'origine attraverso i canali ufficiali sono aumentate da 0,8 miliardi di euro del 1995 a 7,4 miliardi del 2011, per diminuire a 5,3 miliardi del 2015. A questi valori occorre aggiungere le rimesse attraverso canali illegali, che fanno aumentare l'importo totale tra il 10 per cento e il 30 per cento, a seconda del modello di stima adottato. La forte flessione del valore delle rimesse negli ultimi anni è da addebitare principalmente al crollo di quelle verso la Cina, determinate anche dagli effetti di un'indagine della Polizia tributaria sul trasferimento di denaro, anche di provenienza illecita, per acquistare merce a basso costo senza dichiararla alla dogana;

si prevede che, per mantenere sostanzialmente inalterata la popolazione italiana dei 15-64enni nel prossimo decennio, assumendo che gli italiani, sulla base delle consolidate dinamiche della fecondità e della speranza di vita, diminuiranno dal 2015 al 2025 di 1,8 milioni di unità (5,2 per cento in meno), l'aumento degli immigrati sarà pari a circa 1,6 milioni di persone (35,1 per cento in più), con un flusso d'ingressi annui di 158.000 stranieri nel 2020 e di 132.000 nel 2025 (157.000 in media ogni anno). È questo il fabbisogno d'immigrati dell'Italia, indispensabile per compensare la riduzione della popolazione italiana in età lavorativa, causata dalla diminuzione delle nascite, e per salvaguardare l'attuale forza di lavoro indispensabile per garantire l'attuale capacità produttiva del Paese e per rendere sostenibile il sistema previdenziale;

il Paese che spende di più per l'accoglienza dei rifugiati (costo annuo pro capite) è l'Olanda (24.000 euro), seguita dal Belgio (19.200), dalla Finlandia (13.900) e dall'Italia (12.800, pari a 35 euro al giorno), mentre quello che spende meno è il Regno Unito (2.500 euro), con una differenza di oltre 21.000 euro rispetto ai Paesi Bassi. Differenze così alte tra i Paesi europei dovrebbero essere ridotte su iniziativa della Commissione europea, stabilendo i livelli essenziali delle prestazioni che devono essere erogate ai richiedenti asilo e sistemi autonomi di valutazione dei loro risultati;

in materia di asilo, l'Unione prevede, con 3 direttive, regole comuni sul riconoscimento degli status di rifugiato o titolare di protezione sussidiaria, sull'accoglienza dei richiedenti asilo e sulle procedure di presentazione ed esame delle domanda: ma il recepimento di tali regole comuni ha portato a un'applicazione non uniforme, con prassi e attuazioni proprie per ciascun Stato membro. La Commissione, negli ultimi anni, ha ribadito la necessità di rafforzare una politica d'asilo comune attraverso un unico processo decisionale e una ripartizione equa e sostenibile dei richiedenti asilo tra gli Stati membri, all'interno dell'Agenda europea per la migrazione del 2015: a oltre un anno dalla sua presentazione, il bilancio della sua attuazione non è, per la stessa Commissione, positivo, anche perché solo 2.280 richiedenti asilo su 160.000 previsti sono stati ricollocati nei Paesi membri;

la risposta, tardiva, della Commissione europea alla situazione di crisi nel Mediterraneo risale a maggio 2015 con l'Agenda europea per la migrazione: ridurre gli incentivi alla migrazione irregolare, salvare vite umane e rendere sicure le frontiere esterne, garantire l'attuazione del sistema europeo comune di asilo, promuovendo su base sistematica l'identificazione e il rilevamento delle impronte digitali, realizzare una nuova politica di migrazione legale. A oltre un anno dalla presentazione dell'agenda, il bilancio è quasi fallimentare: a fronte di una serie di misure adottate per ridurre i flussi irregolari verso e all'interno dell'Europa e per proteggere le frontiere esterne europee in particolare l'aumento delle capacità e delle risorse disponibili nel 2015 e 2016 per le operazioni congiunte "Triton" e "Poseidon" di Frontex, l'adozione dell'approccio hotspot e l'intesa con la Turchia del 18 marzo 2016, l'Italia e la Grecia continuano a essere l'unico approdo possibile e rimangono gli unici Stati competenti all'esame delle domande d'asilo, come previsto dal regolamento di Dublino. I numeri irrisori dei meccanismi di ricollocamento e reinsediamento confermano il fallimento del tentativo di assicurare una maggiore e più equa condivisione della gestione dei flussi;

l'impianto normativo comunitario in materia è stato finora costantemente disatteso e non esiste un modello di accoglienza di richiedenti asilo europeo, né esistono strumenti e meccanismi che impongano misure coattive in caso di inadempienza. L'adozione effettiva di standard minimi comuni e un adeguato investimento slegato dalle emergenze del momento sono passaggi obbligati, se si intende rispondere al fenomeno migratorio guardando a lungo termine;

la migrazione non può essere lasciata fuori controllo. Esiste infatti un tasso ottimale di migrazione, oltre il quale tale processo genera costi per tutti: i Paesi di arrivo, i Paesi di partenza e i migranti stessi;

un anno dopo il varo del progetto di ricollocamento tra gli Stati europei, il numero complessivo di richiedenti asilo trasferito dall'Italia verso altri Paesi è ancora fermo al 3 per cento dell'obiettivo, ovvero 1.196 persone su un totale previsto di 39.600;

dal 12 luglio al 27 settembre 2016, 2.242 persone si sono spostate dalla Grecia e appena 353 dall'Italia;

il piano di ricollocamento è dunque in fortissimo ritardo, visto che in base agli impegni assunti dall'Unione europea a settembre 2015, 160.000 persone dovranno essere ricollocate da Italia, Grecia e Ungheria verso altri Stati europei, entro settembre 2017. L'obiettivo è quello di arrivare ad almeno 6.000 ricollocamenti al mese. Ma a distanza di un anno, si è ancora fermi al 3 per cento della cifra totale auspicata. Attualmente, il numero di posti messi a disposizione da parte degli Stati membri per il programma di ricollocamento è fermo a 13.585 (3.809 per l'Italia e 9. 776 per la Grecia);

la proposta di riforma del regolamento di Dublino presentata dalla Commissione europea lo scorso 4 maggio pretende di rimediare all'evidente fallimento del "sistema Dublino", mantenendo sostanzialmente invariata la gerarchia dei criteri, introducendo un sistema correttivo per la ripartizione equa delle responsabilità tra Stati, che riproduce gli elementi problematici dei meccanismi temporanei di ricollocamento già in atto e prevedendo, a carico dei richiedenti asilo, una serie di obblighi (e conseguenti sanzioni in caso di violazione) per limitare gli spostamenti all'interno dell'area degli Stati vincolati dal regolamento di Dublino, non toccando nessuno dei criteri per la determinazione dello Stato membro competente;

la proposta di riforma del regolamento di Dublino non appare dunque idonea a garantire gli obiettivi dichiarati dalla Commissione, ossia l'individuazione rapida dello Stato membro competente e, pertanto, l'accesso rapido del richiedente alla procedura di asilo, una ripartizione più equa delle responsabilità tra Stati membri e la lotta ad abusi e movimenti secondari dei richiedenti asilo;

dal 2015, in seguito alla chiusura delle frontiere di molti Paesi nordeuropei e al rafforzamento delle procedure di identificazione dei migranti sbarcati sulle coste italiane ai fini dell'applicazione del regolamento di Dublino, si assiste a un fenomeno che sta acquisendo contorni sempre più definiti: la richiesta d'asilo nel nostro Paese è di fatto l'unico canale di ingresso "aperto" per quanti scappano dalla povertà e vogliono intraprendere un progetto migratorio in Europa;

l'Italia, al 1° giugno 2016, secondo i dati del Ministero dell'interno, accoglieva 119.294 richiedenti asilo su tutto il territorio nazionale, circa 16.000 in più rispetto al 2015. Al 31 luglio 2016 le presenze erano 139.724. Le richieste d'asilo vengono esaminate dalle commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, operanti su tutto il territorio nazionale, sulla base di un colloquio col richiedente e di altri elementi che dimostrino le circostanze di persecuzione o danno grave che ne hanno motivato la fuga. Durante l'attesa per l'esito della risposta, i richiedenti asilo hanno diritto all'accoglienza se non sono in possesso di mezzi di sostentamento propri. L'esame della domanda dovrebbe avvenire entro 30 giorni dalla richiesta. Il tempo massimo di attesa previsto per legge è di 90 giorni per alcuni casi particolari. In realtà, il tempo medio registrato è di 6-9 mesi e può arrivare a superare i 12 mesi. Nonostante l'aumento consistente del numero di commissioni territoriali negli ultimi 2 anni, il carico di lavoro per ciascuna è tale da prevedere che le richieste non potranno essere evase in tempi ragionevoli. Inoltre, l'aumento dei dinieghi alle domande da parte delle commissioni si traduce in un aumento dei ricorsi in via giudiziaria. I ricorrenti continuano a essere ospitati all'interno del sistema d'accoglienza fino alla decisione del giudice: di conseguenza si allungano i tempi di permanenza nei centri, non si liberano posti per coloro che arrivano e fanno domanda d'asilo e occorre trovarne di nuovi in emergenza. Questa è la prima, e forse principale, criticità del sistema d'accoglienza italiano;

nel corso del 2015 l'Italia ha adottato il cosiddetto approccio hotspot, avviato a Lampedusa, a partire dalla fine del settembre 2015, in seguito a quanto contenuto nell'Agenda europea sulle migrazioni (maggio 2015) e alla successiva roadmap del Ministero dell'interno (settembre 2015). Si tratta di un piano volto a canalizzare gli arrivi in una serie di porti di sbarco selezionati, dove vengono effettuate tutte le procedure previste come lo screening sanitario, la pre identificazione, la registrazione, il fotosegnalamento e i rilievi dattiloscopici degli stranieri. Dal 2016 sono diventati hotspot, oltre al centro di prima accoglienza di Lampedusa, anche quelli di Trapani, Pozzallo e Taranto;

dal 30 settembre 2015, il permesso di soggiorno per richiesta di asilo consente di svolgere attività lavorativa, ma solo se sono trascorsi 60 giorni dalla presentazione della domanda e sempre che il procedimento di esame della domanda non sia ancora concluso. In Italia, nel 2015, su un totale di 71.117 decisioni prese dalle commissioni territoriali, le richieste di protezione respinte sono state il 58 per cento, in forte aumento rispetto al 39 per cento del 2014. Nei primi 6 mesi del 2016 i non riconoscimenti sono stati il 60 per cento, un dato dunque costantemente in crescita rispetto agli anni precedenti. Coloro che hanno ottenuto un diniego della domanda di asilo, in molti casi, si trovano in una sorta di limbo legale, spesso per periodi molto lunghi, in attesa teoricamente di essere rimpatriati nel Paese di origine e con nessuna possibilità di rimanere legalmente in Italia. È altissimo il rischio che decine di migliaia di persone non lascino il nostro Paese, ma vi rimangano, pur impossibilitati a svolgere una regolare attività lavorativa. Questa fetta di popolazione straniera è quindi costretta, e lo sarà in misura sempre maggiore, a ricorrere a forme di lavoro nero e subire condizioni di lavoro inique o vere e proprie situazioni di sfruttamento. E nello stesso tempo ci sono i datori di lavoro che vorrebbero invece instaurare un rapporto regolare, ma non possono farlo. Si potrebbe procedere in Italia a una revisione dei permessi di soggiorno per motivi umanitari, previsti dalla legislazione vigente in alcuni casi particolari, ampliando la possibilità di rilascio anche a favore dello straniero o del richiedente asilo diniegato, che abbia svolto un percorso fruttuoso di formazione e di integrazione e che sia in grado di dimostrare la disponibilità di un contratto di lavoro e la volontà di portare a buon fine il proprio percorso migratorio nel nostro Paese;

il 15 aprile 2016 il Governo italiano ha proposto alla Commissione europea il "Migration compact", una strategia UE per l'azione esterna in materia di migrazioni, sottolineando la necessità di politiche migratorie non più emergenziali, ma ordinate e strategiche, puntando sulla dimensione esterna e incentrandola sul rafforzamento della cooperazione con i Paesi terzi di provenienza e di transito. Si prevedono nuove e innovative fonti di finanziamento e un insieme di azioni di supporto legale, logistico, finanziario e infrastrutturale per la gestione dei flussi nei Paesi partner, maggiori opportunità di migrazione legale, l'impegno a creare sistemi nazionali di asilo in linea con gli standard internazionali, che offrano protezione in situ;

il 7 giugno la Commissione europea ha presentato la sua nuova global strategy: rafforzare le frontiere esterne attraverso l'ottimizzazione di strumenti già esistenti, premiando gli Stati terzi, che si impegnano di più nelle riammissioni e nel controllo dei confini e perciò privilegiando i partner, non in base al loro effettivo bisogno di sviluppo, ma in ragione della loro posizione geografica;

considerato che:

i centri di accoglienza non sempre riescono ad offrire reali opportunità di autonomia e integrazione, né tantomeno a garantire un concreto controllo sulle attività e gli spostamenti dei migranti ospitati;

è necessario e urgente offrire una risposta concreta ai bisogni del migrante e una risposta alla complessa emergenza che l'Italia e l'Europa devono e dovranno ancora affrontare, pensando anche a modelli integrativi di accoglienza;

è indispensabile dare una risposta, in termini di integrazione sociale e culturale, alle complesse problematiche dei migranti ed anche individuare un modo per ridurre la tensione, sempre crescente, sui territori in cui maggiormente insiste il fenomeno;

occorre, probabilmente, ripensare agli attuali modelli di accoglienza, in particolare per quanto attiene alle persone adulte e alle famiglie con figli che abbiano richiesto o ottenuto lo status di rifugiato politico,

impegna il Governo:

1) a mobilitarsi in tutte le sedi internazionali al fine di costruire canali legali e sicuri d'arrivo in Europa per quanti fuggono dal proprio Paese e necessitano di protezione internazionale attraverso una serie di strumenti già previsti dalle norme europee, ma finora quasi del tutto inutilizzati: programmi di reinsediamento, ammissione umanitaria, sponsorship, visti umanitari (sulla base all'art. 25 del codice dell'Unione europea dei visti di cui al regolamento (CE) n. 8910/2009), ricongiungimenti familiari;

2) a mobilitarsi ulteriormente in sede UE per inasprire la lotta ai trafficanti di uomini nel Mediterraneo e per rendere effettivi i rimpatri dei migranti che non hanno diritto alla protezione internazionale;

3) ad intensificare gli sforzi a livello dell'Unione europea per il superamento del regolamento di Dublino e la creazione di un vero sistema comune d'asilo a livello. In particolare ad intraprendere: a) implementazione di programmi di reinsediamento; b) incentivazione dei programmi di sponsorship; c) istituzione di un meccanismo europeo di ammissione umanitaria; d) implementazione del ricorso al rispetto del principio dell'unità familiare e delle clausole discrezionali del regolamento di Dublino (artt. 8-11 e 17) nella determinazione dello Stato competente per l'esame della domanda d'asilo;

4) ad intensificare gli sforzi per una maggiore solidarietà a livello interno, coinvolgendo il maggior numero possibile di Comuni italiani nell'accoglienza ai migranti per una più equa distribuzione sul territorio, onde evitare ghetti;

5) a puntare su un'accoglienza diffusa e sulla nascita di reti territoriali in grado di assicurare non solo interventi materiali di base (vitto e alloggio), ma anche servizi volti al supporto di percorsi di inclusione sociale;

6) a rendere obbligatorio l'insegnamento dell'italiano a richiedenti asilo e rifugiati, anche in seguito all'uscita dal circuito dell'accoglienza, attraverso un monte ore congruo e un'organizzazione flessibile che permetta agli utenti di frequentare con continuità i corsi e raggiungere perciò un livello linguistico sufficiente per le singole esigenze (ottenimento di un impiego, accesso a un'istruzione successiva, recupero di professionalità e titoli pregressi);

7) a valutare l'opportunità di adottare misure anche normative volte a ridurre il tempo di esame delle domande di protezione internazionale, studiando anche l'eventuale istituzione di sezioni ad hoc nei tribunali e una modifica dell'iter che prevede i tre gradi di giudizio per la decisione finale;

8) a promuovere iniziative per una equilibrata distribuzione dei migranti per classe, distribuendo con omogeneità i flussi delle iscrizioni, nel rispetto di quanto previsto dall'articolo 45 del decreto del Presidente della Repubblica n. 399 del 1999;

9) a valutare la possibilità, compatibilmente con le peculiarità dell'ordinamento giuridico italiano, di utilizzare il modello tedesco per i richiedenti asilo, che hanno avuto un diniego ma restano in Italia in una sorta di limbo legale, prevedendo, in caso di non accoglimento della domanda di protezione, uno speciale permesso di residenza per quanti dispongono di un posto di apprendistato aziendale o di una qualificazione iniziale o della conferma concreta di un'azienda e non siano soggetti a divieto di assumere un impiego;

10) per quanto riguarda l'esternalizzazione delle frontiere europee in riferimento anche al Migration compact, a procedere a un'opera attenta di monitoraggio a livello di accordi multilaterali e bilaterali con i Paesi di origine e transito: il rischio, altissimo, è di trovarsi di fronte a sistematiche violazioni dei diritti fondamentali e delle convenzioni internazionali;

11) a farsi promotore di un insieme di iniziative finalizzate a garantire la cooperazione dei principali Paesi di origine e transito, che sappiano al tempo stesso garantire il pieno rispetto dei diritti umani dei migranti e, più in generale, del diritto internazionale nell'ambito di un piano di sviluppo economico e di un quadro di rafforzamento democratico più ampio in quei Paesi;

12) a valutare l'opportunità di abolire definitivamente il reato di immigrazione clandestina;

13) ad intraprendere una forte azione per promuovere il rispetto della parità tra uomo e donna e del rispetto dei diritti umani in quelle comunità di immigrati, in cui il tasso di occupazione delle donne è quasi inesistente e sussiste il timore fondato che molte di queste siano segregate in casa.