Atto n. 4-09653

Pubblicato il 10 novembre 2005
Seduta n. 895

FORMISANO , DONADI - Al Ministro della salute. -

Premesso che:

ogni anno in Italia, circa 320.000 malati, il 4% degli oltre 8 milioni di ricoverati in ospedali pubblici e privati, subiscono danni evitabili, in seguito alle cure ricevute, per errori medici oppure per eventi avversi correlati alla degenza;

secondo statistiche recenti del Censis, del Cnel e del Tribunale per i diritti del malato, sarebbero 32.000 i morti per errori sanitari, mentre le aree mediche dove maggiori sono i rischi di incorrere in errori diagnostici o terapeutici sono quelle di ortopedia e traumatologia, dove si concentra il 16,5% dei sospetti, seguite da oncologia con il 13,5%, ostetricia e ginecologia con il 10,8%, chirurgia generale con il 10,6%;

agli interroganti è stato segnalato il caso della signora Enza Sardellitti, deceduta in data 23 febbraio 2005 presso il Policlinico Gemelli di Roma, dove esimi specialisti non hanno potuto far nulla per sottrarla alla morte, nonostante i disperati tentativi si siano protratti per oltre venti giorni;

il calvario della signora Sardellitti iniziò circa un mese prima con il ricovero presso la Casa di Cura privata “S. Teresa” di Isola del Liri, provincia di Frosinone, dove, secondo la perizia del prof. Luigi Masoni, professore presso la Scuola di specializzazione in Chirurgia generale dell’Università “La Sapienza” di Roma, sarebbero stati commessi una serie di gravi errori diagnostici, terapeutici e chirurgici che avrebbero condotto la paziente alla morte;

a quanto risulta nella perizia, la paziente venne ricoverata il giorno 21 gennaio 2005 per coliche addominali e venne sottoposta ad ecografia che dimostrò la presenza di liquido libero in addome ed anse distese del liquido;

il giorno successivo al ricovero, un emocromo visualizzò un aumento dei globuli bianchi, da infezione batterica;

venne iniziata una terapia antibiotica empirica con cefalosporine e la paziente fu di nuovo sottoposta ad ecografia con risultato sostanzialmente invariato rispetto al giorno precedente;

in realtà, così come la perizia attesta, un semplice esame RX diretta addome sarebbe stato utile per verificare la presenza di uno stato occlusivo o di aria libera in addome, segno di eventuale perforazione;

nelle due giornate successive non vennero effettuati accertamenti mentre, a distanza di quattro giorni dal ricovero, il 25 gennaio 2005, la paziente venne sottoposta a TAC addome con metodo di contrasto, che confermò la persistenza del versamento addominale e sospetta diverticolosi del sigma;

lo stesso giorno, le condizioni della paziente si aggravarono per l’insorgenza di una reazione allergica ai farmaci, per cui le vennero somministrati cortisonici continuati anche nei giorni successivi;

dal 27 gennaio 2005, ricomparve uno stato sub-febbrile e si riprese la somministrazione di antispastici ed antidolorifici;

il giorno successivo, i globuli bianchi erano di nuovo in aumento e lo stato nutrizionale della paziente cominciava a deteriorarsi;

nei due giorni successivi, nonostante l’aggravarsi delle condizioni generali della paziente, non vennero eseguiti ulteriori accertamenti strumentali, continuando la semplice osservazione clinica;

fino a questo punto, secondo la perizia, la gestione della paziente sembra orientata al semplice trattamento delle situazioni cliniche che man mano si presentarono, senza una linea di condotta programmatica;

a undici giorni dal ricovero, le condizioni generali della paziente si aggravarono ulteriormente, tanto che si decise di effettuare un intervento chirurgico esplorativo;

durante l’operazione, si evidenziò una peritonite diffusa con pus ed un segmento di ansa intestinale necrotico di 15 centimetri, che venne correttamente resecato;

l’esame istologico del segmento asportato depose per infarto intestinale e i depositi fibrinosi sulla parte deposero per un evento non recente;

nella perizia si legge che “l’intestino non era perforato né vi è descrizione di perforazione sul registro operatorio. L’infarto intestinale può determinare peritonite anche purulenta per traslocazione batterica attraverso la parete malacica anche prima che avvenga una vera e propria perforazione. In mancanza di descrizione dello stato dei vasi mesenterici del segmento asportato, vista la congestione vasale e gli stravasi, è ipotizzabile quale causa dell’evento una trombosi venosa oppure una NOMI (non occlusive menseterica ischemia)”;

non si capisce quindi perché, dice la perizia, nonostante la descrizione dell’intervento parli correttamente di necrosi segmentarla di ansa ileale, successivamente la paziente venga classificata come operata di perforazione di diverticolo di Meckel, evento che prevede ben altra patogenesi e ben altre implicazioni;

l’identificazione preoperatoria di una necrosi di un segmento così breve di piccolo intestino prima della perforazione è clinicamente assai improbabile e pressoché impossibile con le tecniche strumentali d’immagine quali TAC, ecografia, Risonanza magnetica nucleare (RMN) e, volendo, anche con angiografia;

solo il ragionamento, sostiene la perizia, sulla persistenza dei dolori addominali con diarrea e vomito, l’aumento dei globuli bianchi, in assenza di altri reperti a livello addominale, può portare al sospetto di una sofferenza ischemica addominale che impone una rapida verifica laparotomica o laparoscopica;

nella cartella clinica, le condizioni dell’addome della paziente, successivamente alla prima visita al ricovero, non furono più annotate, fino al giorno 31 gennaio 2005 quando si verificò “l’addome acuto”;

per quanto riguarda l’atteggiamento seguito nel decorso postoperatorio è quanto meno peculiare che, in una paziente operata per peritonite purulenta, l’infezione venisse trattata con una monoterapia antibiotica (gentamicina endovena) assolutamente insufficiente nel caso in questione;

inoltre, la scarsa quantità di secrezione raccolta dai drenaggi fin dalla prima giornata postoperatoria (da 0 ad un massimo di 50 cc) avrebbe dovuto far nascere il sospetto circa la pervietà o la correttezza del posizionamento degli stessi;

le condizioni della paziente continuarono invece a deteriorarsi e la conta dei globuli bianchi deponeva per la persistenza di uno stato infettivo. L’aumento della bilirubina diretta, registrato già nella prima giornata postoperatoria, rappresentava un’alterazione assolutamente poco comune dopo un intervento di resezione intestinale, che vede, tra le poche cause possibili, l’assorbimento diretto della bile attraverso una perforazione intestinale libera in addome;

nessun accertamento strumentale, dice la perizia, veniva invece eseguito, anche soltanto per giustificare la mancata ripresa della paziente dopo un intervento che doveva e poteva essere risolutivo;

inoltre, l’ipotesi eziopatogenetica dell’infarto intestinale della signora Sardellitti (da trombosi venosa) avrebbe imposto una terapia con eparine a basso peso molecolare, non solo per prevenire un’eventuale trombosi venosa profonda, visto che la paziente aveva già subito un allettamento prolungato (10 giorni) ed aveva una peritonite diffusa, ma anche per prevenire le condizioni predisponenti l’infarto intestinale stesso;

l’uso di questi presidi, sostiene la perizia, nelle condizioni della paziente in oggetto, rappresenta una delle più elementari norme di prevenzione degli eventi trombotici postoperatori;

il 3 febbraio 2005, venne aggiunto un altro antibiotico (Ceftriazone) in monosomministrazione. Il giorno 4, la paziente venne trasfusa, nonostante il valore dell’emoglobina pari a 11,3 gr. % non lo richiedesse, senza che si somministrasse mai un supporto nutrizionale supplementare ed albumina, visto che nella paziente il valore era ormai inferiore ai 2 gr. %;

l’équipe medica si limitò a richiedere trasferimento in terapia intensiva per stato dismetabolico postoperatorio senza specificarne la natura, né la causa;

la sera del 4 febbraio 2005, la paziente giunse al pronto soccorso del Policlinico universitario Agostino Gemelli di Roma, dove al medico di guardia fu subito evidente il grave quadro addominale della paziente, compatibile con una condizione, invero mai cessata, di addome acuto con peritonite;

venne richiesta d’urgenza una TAC all'addome che dimostrò la presenza abbondante di liquido raccolto in addome con aria libera, segno inequivocabile di perforazione intestinale;

la paziente venne trasferita d’urgenza in sala operatoria dove l’équipe chirurgica, una volta rimosse le garze a copertura, assistette alla fuoriuscita spontanea di liquame (materiale purulento misto a feci liquide) dalla pregressa incisione chirurgica;

da notare, invece, che dai drenaggi, come annotato dal medico di guardia del Pronto Soccorso del Policlinico Gemelli, continuava a fuoriuscire materiale sieroso, segno evidente di una loro ostruzione o dislocazione;

alla riapertura dell’addome, la peritonite risultò essere gravissima, fecaloide, con raccolte plurime in tutti i recessi declivi dell’addome e causata dalla parziale deiscenza (cioè riapertura) della cucitura eseguita in precedenza sull’intestino tenue (anastomosi);

ulteriore segno dell’infezione addominale non recente era rappresentato dal fenomeno di necrosi dei tessuti sottocutanei e muscolari raggiunti dall’infezione che addirittura impediva la chiusura della parte addominale che non potè mai essere richiusa per il persistere dell’infezione;

il 23 febbraio 2005, per il sopraggiungere di complicanze vascolari (trombosi vena mesenterica superiore) e respiratorie, la signora Enza Sardellitti morì;

le conclusioni della perizia del prof. Luigi Masoni parlano di negligenza nell’approfondimento diagnostico, imprudenza nel gestire con la sola osservazione clinica una condizione di dolore addominale persistente, carenza di accertamenti strumentali eseguiti, gravoso ritardo nella decisione di sottoporre la paziente ad intervento chirurgico, negligenza nell’essersi limitati ad osservare, senza eseguire alcun accertamento strumentale, il continuo decadere delle condizioni della paziente nonostante l'intervento eseguito potesse, in linea teorica, considerarsi risolutivo e, infine, negligenza nella gestione globale del decorso postoperatorio dove sono stati negati alla paziente, che pure li necessitava, gli elementari principi antinfettivi e di supporto nutrizionale atti a superare la fase peritonitica;

infine, in occasione della richiesta di trasferimento al Policlinico Gemelli, errata classificazione della paziente in grave fase settica, come affetta da “disturbi metabolici postoperatori da pregresso intervento per diverticolo di Meckel perforato”, quasi che l’équipe della clinica “S. Teresa” non avesse presenziato l’intervento chirurgico o non avesse gestito la paziente per ben 2 settimane:

si chiede di sapere:

se il Ministro in indirizzo non ritenga opportuno avviare un’indagine per verificare se quanto riportato nell’accurata perizia del prof. Luigi Masoni corrisponda al vero;

se, visto il ripetersi di casi analoghi, non intenda istituire un osservatorio sui rischi sanitari ed un database nazionale degli errori medici, strumenti ancora assenti in Italia, per evitare morti inutili, e non criminalizzare una categoria professionale come quella medica, che oggi giorno, con grande sacrificio della propria vita, si prende cura della salute degli italiani;

se non ritenga opportuno valutare una serie di iniziative per favorire la segnalazione spontanea degli errori, per creare la cultura della sicurezza basata sulla prevenzione, e realizzare un sistema di individuazione e correzione delle situazioni a rischio errori (personale, strutture, turni);

se non concordi sul fatto che, nell'ambito della gestione del rischio, il Clinical risk management (CRM), possa rappresentare un efficace sistema organizzativo che possa contribuire a definire l'insieme delle regole aziendali e il loro funzionamento il cui scopo principale è quello di creare e mantenere la sicurezza dei sistemi assistenziali.