Atto n. 3-02635 (con carattere d'urgenza)

Pubblicato il 22 giugno 2021, nella seduta n. 339

DI MICCO , GRANATO , ANGRISANI , GIANNUZZI , LEZZI , ABATE , CORRADO - Ai Ministri della giustizia e dello sviluppo economico. -

Premesso che:

nel corso degli anni, la trasmissione "Report", che va in onda su RAI 3, ha suscitato un sempre crescente interesse da parte del pubblico con i suoi servizi di giornalismo di inchiesta. Al contempo si sono moltiplicati, a carico della medesima trasmissione, gli attacchi politici, come è accaduto dopo le inchieste sulla sanità campana e sui fondi della Lega. In alcune interviste il conduttore Sigfrido Ranucci ha più volte dichiarato che non solo è aumentato il rischio di incorrere in questioni legali, ma che addirittura alla redazione sarebbero pervenute anche minacce, tra cui minacce di morte dirette al conduttore;

a ottobre 2020 la trasmissione "Report" aveva mandato in onda un servizio intitolato "Vassalli, valvassori e valvassini", che indagava sugli appalti pubblici in Lombardia e citava alcune consulenze delegate all'avvocato amministrativista Andrea da enti locali;

il medesimo Mascetti aveva in seguito presentato ricorso al TAR del Lazio chiedendo l'accesso alla documentazione in possesso dei giornalisti di "Report", da cui essi avevano estrapolato le informazioni esposte nel servizio;

il Tribunale amministrativo regionale (TAR) del Lazio - Sezione Terza, con la sentenza 7333/2021 ha ordinato a "Report" di rivelare le sue fonti, dando ragione all'esposto dell'avvocato Mascetti, in relazione all'inchiesta della trasmissione sugli appalti lombardi;

il TAR chiede alla RAI di provvedere "all'ostensione degli atti, documenti, dati e informazioni richiesti dal ricorrente, nessuno escluso, ai sensi degli artt. 22 e segg. della L. n. 241/1990 o ai sensi dell'art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 33/2013". Le suddette, però, sono leggi valide per gli atti amministrativi. La sentenza del TAR del Lazio, de facto, degrada l'informazione pubblica, equiparandola ad atti amministrativi. Secondo i giudici del tribunale amministrativo, quindi, i giornalisti della RAI non potrebbero tutelare le proprie fonti, determinando lo scardinamento di uno dei capisaldi del diritto all'informazione dei cittadini italiani;

nel caso in questione si è pienamente nel territorio della libertà di espressione e del diritto di cronaca, previsto e tutelato dall'articolo 21 della Costituzione. La RAI è una società per azioni e, secondo un'antica e costante giurisprudenza, non può essere omologata alla pubblica amministrazione. Appare contraddittoria quindi una sentenza emessa in conseguenza di una richiesta basata sulla legge n. 241 del 1990, che regola l'accesso ai documenti della pubblica amministrazione, ma immaginata per tutelare cittadine e cittadini nei procedimenti inerenti proprio all'amministrazione e ai diversi attori che ne sono la struttura portante;

considerato che:

nel nostro ordinamento la tutela del segreto professionale viene tradizionalmente fatto risalire all'articolo 622 del Codice penale del 1930 (in vigore), che punisce la rivelazione del segreto professionale. Il divieto di divulgare la fonte della notizia è, invece, un principio giuridico. Giornalisti ed editori, in base all'articolo 2 (comma 3) della legge professionale n. 69 del 1963, "sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse". Tale norma consente al giornalista di ricevere notizie, mentre le fonti sono "garantite". Anche l'articolo 13 (V comma) della legge sulla privacy (n. 675 del 1996) tutela il segreto dei giornalisti sulla fonte delle notizie, quando afferma che "restano ferme le norme sul segreto professionale degli esercenti la professione di giornalista, limitatamente alla fonte della notizia". La violazione della regola deontologica del segreto sulla fonte fiduciaria comporta responsabilità disciplinare (articolo 48 della legge n. 69 del 1963);

anche la Convenzione europea dei diritti dell'Uomo protegge le fonti dei giornalisti. Un giudice (mai un pubblico ministero) può ordinare, come riferito, a un giornalista professionista, in base all'articolo 200 del Codice di procedura penale, di "indicare la fonte delle sue informazioni se le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato e la loro veridicità può essere accertata solo attraverso l'identificazione della fonte della notizia". Bisogna sottolineare che in sede giurisprudenziale è affiorato un orientamento più favorevole alle ragioni dei giornalisti: "La norma di cui al comma 3 dell'art. 200 Cpp deve intendersi riferita all'accertamento della fondatezza della notizia pubblicata, in quanto funzionale all'esame della sua veridicità che può trovare l'unico strumento nella identificazione della fonte fiduciaria. Solo in tale circostanza quindi il giudice, al fine di verificare la rispondenza della notizia indispensabile per la prova di un reato per cui si procede, potrebbe ordinare al giornalista di indicare la sua fonte, purché sia l'unico strumento investigativo a disposizione" (Pret. Roma, 21 febbraio 1994);

il segreto professionale è salvaguardato anche dall'articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo. L'articolo 10 ("Libertà di espressione"), ripetendo le parole della Dichiarazione universale dei diritti dell'Uomo del 1948 e del Patto sui diritti politici di New York del 1966, recita: "Ogni persona ha diritto alla libertà d'espressione. Tale diritto include la libertà d'opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiere". La libertà di ricevere le informazioni comporta, come ha scritto la Corte dei diritti dell'Uomo di Strasburgo, la protezione assoluta delle fonti dei giornalisti;

tenuto conto che:

a lanciare l'allarme sulla vicenda sono stati gli organismi sindacali, la Federazione della Stampa e l'Usigrai, i quali hanno pubblicato su "Facebook" il testo della sentenza, che in pratica assimila la RAI alla pubblica amministrazione imponendole le stesse regole di trasparenza;

la RAI ha annunciato il ricorso al Consiglio di Stato e il conduttore Sigfrido Ranucci ha assunto una posizione netta dichiarando che "non rivelerà le sue fonti". La direzione di RAI 3 inoltre ha comunicato di schierarsi al fianco dei suoi giornalisti: la sentenza, così riporta una nota della stessa direzione, "è un precedente gravissimo, un attacco all'indipendenza e all'autonomia dell'informazione",

si chiede di sapere:

fermo restando il rispetto incontestabile per gli atti della magistratura, quali azioni concrete i Ministri in indirizzo ritengano di dover adottare al fine di contrastare l'ennesimo tentativo di imbavagliare la trasmissione della RAI "Report", programma d'inchiesta pagato dai contribuenti e fiore all'occhiello della tv pubblica;

se non ritengano necessario mettere in atto azioni che chiariscano in che modo si sia giunti ad una sentenza che, applicando leggi del diritto amministrativo, finisce per contrastare con diritti sanciti dalla Costituzione della Repubblica italiana. Gli effetti collaterali e devastanti di una simile decisione, infatti, inciderebbero in modo pesante sull'offerta dell'informazione pubblica in Italia;

se non ritengano doveroso intervenire per impedire che la decisione della sezione terza del TAR del Lazio al complesso dei fenomeni mediali, qualora applicata, riduca la facoltà del giornalismo di inchiesta di operare in libertà e finanche di esistere. A parte, infatti, il tema del segreto professionale, verrebbero messi in causa i fondamenti medesimi della cronaca;

in che modo intendano intervenire per garantire la tutela delle fonti giornalistiche, cardine della professione giornalistica stessa esercitata in nome del diritto della collettività ad essere informata attraverso il prezioso lavoro di inchiesta.