SENATO DELLA REPUBBLICA

400a SEDUTA PUBBLICA

RESOCONTO STENOGRAFICO

MARTEDI' 27 MAGGIO 2003

Antimeridiana

Presidenza del vice presidente CALDEROLI

 

 

PRESIDENTE. La seduta è aperta (ore 10,02).

(…)

Seguito della discussione del disegno di legge:

(1545-B) Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Approvato dal Senato e modificato dalla Camera dei deputati)

 

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione del disegno di legge n. 1545-B, già approvato dal Senato modificato dalla Camera dei deputati.

Ricordo che, ai sensi dell'articolo 104 del Regolamento, oggetto della discussione e delle deliberazioni saranno soltanto le modificazioni apportate dalla Camera dei deputati, salvo la votazione finale.

Ricordo che nella seduta antimeridiana del 15 maggio i relatori hanno svolto la relazione orale ed è stata dichiarata aperta la discussione generale.

È iscritto a parlare il senatore Bassanini. Ne ha facoltà.

 

BASSANINI (DS-U). Signor Presidente, signor Ministro, onorevoli colleghi, il tempo che trascorre rende giustizia alle buone riforme e lo fanno anche i provvedimenti del Governo che, sia pure con un ritardo non commendevole, predispongono gli strumenti per attuare una buona riforma.

Quella del Titolo V è stata una grande riforma, non priva di lacune da integrare - lo si disse sin dall’inizio - la più rilevante delle quali riguarda la riorganizzazione del Parlamento nell’ambito dello Stato federale con l’istituzione del Senato federale, e bisognosa, come qualsiasi riforma, di correzioni oltre che di integrazioni.

Nessuna riforma nasce perfetta; tutte le riforme, sulla base dell’esperienza, richiedono aggiustamenti; sarebbe assolutamente irresponsabile irrigidirsi nella difesa di qualunque disposizione o di qualunque virgola. Occorre flessibilità, innanzitutto da parte di chi ha tenuto a battesimo una riforma.

Non c’è dubbio però che quella del Titolo V è stata una riforma di notevole spessore e di notevole dimensione, com’è oggi riconosciuto non soltanto dal disegno di legge che comincia finalmente a predisporre gli strumenti per la sua attuazione, ma in fondo anche, se il signor Ministro me lo consente, dal rincorrersi di provvedimenti, tutti di iniziativa del Governo, che da un lato puntano ad andare più avanti, ma dall’altro, inopinatamente, propongono di introdurre elementi di cautela, di correzione regressiva, di ricentralizzazione del nostro sistema. È il caso del recente schema sottoposto all’esame della Conferenza unificata per la riforma del Titolo V.

Proprio l’inseguirsi di provvedimenti che correggono la revisione del Titolo V in direzioni opposte - qualcuno per andare più avanti, qualche altro, come spiegherò, per andare più indietro - dimostrano che quella riforma, pur bisognosa di aggiustamenti e di correzioni, ha colpito nel segno.

Quella riforma aveva una tara d’origine che fu rilevata fin dall’inizio: la sua approvazione senza le larghe maggioranze che sarebbero sempre fortemente raccomandabili nel caso di riforme costituzionali, soprattutto di grande portata. Ciò ha rappresentato fin dall’inizio il punto debole di questa importante revisione dell’architettura del nostro sistema costituzionale.

Non possiamo dimenticare che, anche se la riforma del Titolo V fu approvata con una maggioranza appena sufficiente per assolvere le condizioni stabilite dall’articolo 138 della Costituzione, essa era tuttavia fortemente sostenuta nel sistema delle istituzioni da uno schieramento largamente bipartisan, composto dalle Regioni e dagli enti locali nel loro insieme, molti dei quali governati da rappresentanti dell’allora opposizione, oggi maggioranza di centro-destra.

Né possiamo dimenticare che, in fondo, il disegno di quella riforma era stato inizialmente configurato dalla Commissione parlamentare per le riforme istituzionali e in quella sede approvato con una larghissima maggioranza, ancora una volta, largamente bipartisan. Quindi, non era una riforma che, ancorché approvata con una maggioranza sicuramente ristretta, si poteva presentare nel suo insieme come l’imposizione di una ristretta maggioranza nei confronti dell’opposizione.

Ma vi è di più: non lo era anche perché in quel momento - e i colleghi che oggi fanno parte della maggioranza e del Governo lo ricordano - l’opposizione non si opponeva frontalmente ad una svolta in senso federalista, ad una riforma in senso federale della nostra forma di Stato, ma la giudicava insufficiente, non adeguata; chiedeva di far di più.

Una riforma di fronte alla quale l’opposizione chiede di fare di più, non può allora essere considerata un’imposizione di una parte nei confronti dell’altra; può essere tranquillamente considerata come un passo in avanti che poi l’altra parte politica, rimasta in quel momento in minoranza, si riserva di completare quando, come poi è successo, diventerà maggioranza.

Siamo esattamente a questo punto, ed essendo a questo punto ci saremmo aspettati fin dall’inizio della legislatura un’azione coerente: da un lato, attuare tutta quella parte della riforma del Titolo V che comunque rappresentava anche agli occhi del centro-destra, alla luce del suo programma di Governo, un cospicuo passo in avanti in direzione di un assetto federale del nostro sistema; dall’altro, un’immediata proposta al Parlamento delle correzioni o delle innovazioni costituzionali che la maggioranza proponeva, in coerenza con un programma che dichiarava di volere più federalismo.

Il disegno di legge di attuazione arriva solo ora, o meglio è stato presentato alcuni mesi fa e solo ora arriva all’approvazione finale. Poiché noi riteniamo che la Costituzione vada applicata sempre, finché non verrà cambiata, siamo favorevoli a varare il più presto possibile questo disegno di legge, diciamo tra oggi e domani, secondo i tempi del calendario parlamentare, senza ulteriori indugi, rinviando al futuro eventuali ulteriori correzioni o modifiche, se qualche parte politica le ritiene necessarie, perché già troppo tempo è passato e ciò rischia di far precipitare il nostro sistema in un "pantano costituzionale", se non in un caos istituzionale.

Infatti, le norme costituzionali del Titolo V, piaccia o non piaccia, ci sono, e in questo Titolo vi sono molte disposizioni che danno poteri importanti e rilevanti ai legislatori regionali e agli amministratori regionali e locali, sottraendoli ai poteri centrali dello Stato. Nella misura in cui i poteri centrali dello Stato ancora li esercitano, dispongono di un potere che costituzionalmente non è più loro; il rischio è che le controversie, che inevitabilmente insorgono di fronte ai vari giudici, fino alla Corte costituzionale, producano una raffica di sentenze di incostituzionalità.

Ora, io ho sempre sottoposto ai colleghi questa ovvia considerazione: è fisiologico in un sistema, in qualunque sistema, tanto più in uno Stato federale, che esista un certo grado di contenzioso. È fisiologico, è inevitabile. Al confine fra le competenze di un livello istituzionale e quelle di un altro, del potere federale o di quello statale, del potere regionale o di quello locale, si creano problemi di definizione dei confini delle competenze che possono finire di fronte al giudice, anche di fronte al giudice della costituzionalità delle leggi.

È fisiologico che questo avvenga; è fisiologico che vi sia un certo numero di sentenze che dichiarano l'incostituzionalità di leggi o di provvedimenti legislativi, ma diventa non fisiologico, diventa difficilmente sopportabile se questo numero cresce troppo; se, invece che un'eccezione, diventa una regola; se il sistema viene attraversato da questi contenziosi, come noi rischiamo che succeda dopo questi primi due anni di mancata attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione; se, appunto, una raffica di provvedimenti dell'autorità giudiziaria, soprattutto della Corte costituzionale, incide fortemente sull'esecutività di provvedimenti adottati, che hanno avuto vigore per un certo periodo, fino all'intervento del giudice, in particolare del giudice della costituzionalità delle leggi.

Quindi, sotto questo profilo è un bene che finalmente si ponga mano agli strumenti di attuazione del Titolo V della Costituzione e sarebbe stato fortemente auspicabile che ciò fosse avvenuto prima, ossia nei mesi immediatamente successivi all'entrata in vigore della riforma costituzionale.

Tuttavia, io penso che anche sotto un altro profilo questa fase finale dell'iter parlamentare della legge possa avere utilità, anche per segnare - spero - attraverso il nostro dibattito e attraverso l'approvazione - finalmente - dei primi provvedimenti di attuazione del Titolo V, in qualche modo un punto fermo.

Consideriamo la riforma intervenuta, e quindi la trasformazione del nostro sistema verso il modello federale, un fatto consolidato e in qualche modo irreversibile, almeno in questa fase della nostra storia politico-costituzionale, o no? Ora, a giudicare dai programmi elettorali delle forze politiche di centro-destra e di centro-sinistra, come sono stati presentati prima delle elezioni del 2001, noi dovremmo dire di sì.

Questi programmi si contrapponevano tra chi sosteneva che il Titolo V andasse integrato su alcuni punti, ma che era comunque ormai la base di una riforma in senso federale che si intendeva attuare, e chi sosteneva che il nuovo Titolo V fosse insufficiente - vero, collega Peruzzotti? - e chiedeva un federalismo più integrale, più avanzato, più rigoroso.

Si può discutere a lungo se i sostenitori di quest'ultima posizione abbiano davvero in mente uno Stato federale o quello che nella dottrina si chiama una confederazione di Stati indipendenti o di macroregioni indipendenti, cioè se abbiano in mente davvero un modello federale o piuttosto un modello confederale, ma è questione che in qualche misura può sembrare addirittura nominalistica.

Quello che è certo è che, nel momento iniziale di questa legislatura, cioè nel momento della presentazione dei programmi agli elettori, la scelta della forma di Stato federale sembrava irreversibile e i due schieramenti si contrapponevano sul tipo di Stato federale. Il centro-sinistra sembrava più per il modello del federalismo cooperativo e solidale; il centro-destra per un modello di federalismo più competitivo, visto che tutti sappiamo che diversi sono i modelli di Stato federale conosciuti nell’esperienza internazionale.

Dico questo perché tutti siamo usi ricordare, non solo nei comizi che abbiamo tenuto anche in queste ultime settimane per le elezioni amministrative, ma anche nei dibattiti televisivi e nelle discussioni parlamentari, che i programmi presentati agli elettori rappresentano il punto di riferimento. Tutti siamo usi dire che la maggioranza ha il diritto di avere gli strumenti per governare, cioè gli strumenti per attuare il programma presentato agli elettori, e tutti siamo usi dire che è bene che l’opposizione si confronti con la maggioranza sul terreno dei programmi e non su altri terreni impropri. Tutti cerchiamo di fare questo; allora guardiamo ai programmi e i programmi andavano in questo senso.

Inopinatamente, lo stesso Governo che ci ha presentato finalmente questo provvedimento per l’attuazione del Titolo V (è un po’ il gioco del dottor Jekill e di mister Hyde, ministro La Loggia) ha messo sul tavolo, fortunatamente per ora non del Parlamento, ma solo della Conferenza unificata Stato-Regioni-Città-Autonomie locali, un altro progetto che sembra avere francamente poco a che fare con i programmi elettorali e anche con l’affermata intenzione, nel programma di Governo di questa maggioranza, di andare più avanti nel senso di un federalismo più spinto rispetto a quello solidale e cooperativo delineato dal Titolo V, e che noi difendiamo salvo gli aggiustamenti necessari. Un progetto, ministro La Loggia, mi consenta, che contiene in sé, in nuce, gli elementi di un forte ritorno al centralismo.

Esso viene presentato con l’intenzione di superare una certa confusione nelle competenze che la categoria della legislazione concorrente consentirebbe. A parte il fatto che la categoria della legislazione concorrente - vorrei ricordarlo ai pochi colleghi presenti - è stata recentemente introdotta nella proposta del Praesidium della Convenzione europea, nella proposta di Trattato costituzionale dell’Unione Europea, proprio per rendere più chiara e più facilmente comprensibile la distinzione tra le competenze normative dell’Unione Europea e quelle degli Stati membri, in modo da rendere chiaro che su molte materie l’Unione Europea si limita a stabilire i princìpi fondamentali, lasciando il resto della normazione agli Stati membri o addirittura, dov’è previsto costituzionalmente, alle Regioni e ai Länder. Quindi a Bruxelles, in sede di Convenzione, sembra che la categoria della competenza concorrente serva a rendere più chiare le competenze e più facilmente identificabile il loro confine; fra l’altro, se andiamo a guardare il contenzioso costituzionale, sicuramente cresciuto in questo ultimo anno e mezzo, vediamo che solo una percentuale compresa fra il quattro e il cinque per cento, ministro La Loggia, delle controversie si deve al problema delle competenze concorrenti, cioè all’identificazione del limite tra la legislazione di principio e la legislazione regionale di dettaglio.

A parte il fatto che anche la proposta del Governo, laddove introduce la categoria delle norme generali, riservate al legislatore statale, nelle materie che per il resto disciplinano le Regioni, arriva a definire con altre parole una forma di competenza concorrente, e già sono cominciate discussioni infinite, alquanto bizantine, sulla differenza tra princìpi fondamentali e norme generali (c’è chi dice che le norme generali siano più invasive della competenza regionale rispetto ai princìpi fondamentali e chi dice meno; chi dice che i princìpi fondamentali possano essere anche desunti dalla legislazione esistente, mentre le norme generali non potrebbero esserlo, e quindi creerebbero forti problemi di diritto transitorio, e così via).

A parte tutto ciò, l’aver introdotto non il principio che tutti devono rispettare l’interesse nazionale - un principio che è contenuto nella Costituzione e che può essere tranquillamente posto come principio generale che riguarda tutto l’insieme delle istituzioni della Repubblica - bensì il principio che nelle materie di loro competenza legislativa le Regioni legiferano nel limite dell’interesse nazionale, ci riporta, ministro La Loggia, ad un’epoca nella quale nessuna competenza regionale era veramente chiara.

I limiti delle competenze regionali sono confusi ed è in realtà la Corte costituzionale che li stabilisce di fronte a qualunque cittadino che si ritenga leso nei suoi diritti o interessi legittimi, e che ottenga dal giudice a quo la rimessione degli atti alla Corte costituzionale, invocando la violazione dell’interesse nazionale da parte di una legge regionale ed invocando quindi un giudizio della Corte su quale sia in materia l’interesse nazionale.

Proprio per questo, signor Presidente, ritengo che sia importante giungere intanto a stabilire un punto fermo: attuiamo il Titolo V. Il disegno di legge in discussione, dopo le modifiche intervenute soprattutto qui al Senato in sede di Commissione, fa questo in modo accettabile anche se esiste una lacuna rilevante che non dobbiamo dimenticare e che concerne tutta la parte finanziaria, una parte che è decisiva.

Le norme sul federalismo fiscale sono essenziali per dare attuazione al Titolo V. Il ministro La Loggia non poteva inserirle in questo testo visto che l’Alta Commissione ha appena cominciato i propri lavori, tuttavia sarebbe il caso che il Parlamento rivolgesse un forte appello affinché l’Alta Commissione ed il Governo lavorino a ritmi serrati e ci sottopongano presto la legge di attuazione dell’articolo 119 della Costituzione. In assenza di ciò lo stesso Titolo V rischia di precipitare in una situazione di sostanziale inapplicabilità perché Regioni, Province, Comuni, comunità montane hanno avuto competenze nuove ma non hanno le risorse per farvi fronte.

È questo un elemento fondamentale, che rischia di intaccare la stessa legittimazione, la stessa credibilità e affidabilità delle istituzioni territoriali, delle istituzioni che costituiscono, insieme allo Stato, il tessuto della Repubblica. (Applausi dai Gruppi DS-U e Mar-DL-U).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Pizzinato. Ne ha facoltà.

 

PIZZINATO (DS-U). Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, colleghi, condividendo quanto sottolineava il collega Bassanini, apprezzo il fatto che finalmente ci si avvii verso l’approvazione di una legge che dà attuazione alla riforma del Titolo V della Costituzione, così come modificato nel 2001 e confermato dal voto popolare. Pur se con ritardo, ci si muove in tale direzione.

Onorevoli colleghi, signor Ministro, desidero soffermarmi unicamente su un aspetto, quello concernente la realizzazione delle città metropolitane ed in particolare della città metropolitana di Milano.

Dopo l’approvazione del testo oggi al nostro esame da parte del Senato lo scorso 23 gennaio, mentre era in corso presso la Camera dei deputati l’esame del presente provvedimento, in sede di Commissione affari costituzionali, sulla base di una relazione del senatore Magnalbò, ebbe avvio l’esame di due disegni di legge: il n. 1410, a firma del sottoscritto e dei colleghi milanesi dell’Ulivo, recante norme speciali per la città di Milano; l’altro, il n. 1567, a firma del senatore Del Pennino ed altri, sulla istituzione delle città metropolitane nel nostro Paese.

Queste due proposte di legge, pur nella loro diversità (poiché quella del sottoscritto e degli altri colleghi dell’Ulivo riguarda solo la città di Milano, mentre quella del senatore Del Pennino riguarda l’insieme delle Città metropolitane), sono molto simili nei contenuti.

Nel contempo, però, la Camera dei deputati, introducendo, con un emendamento, l’articolo 2 del testo al nostro esame, affidava al Governo la delega per l’attuazione dell’articolo 117 della Costituzione, e cioè il compito di definire entro un anno, con decreti legislativi, da un lato, l’adeguamento delle disposizioni in materia di enti locali e, dall’altro, anche ciò che concerne le Città metropolitane.

Ora, adeguare le norme, in particolare i Testi unici, anche alla luce della sperimentazione del Titolo V non è complicato, non c’è bisogno di ampie indicazioni. Non è così invece per quanto riguarda la Città metropolitana, perché il disposto all’articolo 2, a nostro parere, è ancora inadeguato, non è sufficientemente puntuale, non dà certezze che finalmente, dopo un trentennio che se ne discute, vi si dia infine attuazione. Infatti alla lettera h) del comma 4 del citato articolo 2, si indica l’esigenza di adeguare i procedimenti di istituzione della Città metropolitana al disposto dell’articolo 114 della Costituzione; alla lettera i) si parla di individuare il sistema elettorale e alla lettera l) di definire le incompatibilità elettive. Questi tre aspetti, sia pure importanti e significativi, a nostro parere, alla luce del dibattito in corso da decenni, assieme a sperimentazioni nelle diverse realtà, sono insufficienti.

Voglio sottolineare, riassumendo i punti comuni delle due proposte di legge incardinate presso la Commissione affari costituzionali del Senato cui prima facevo riferimento, alcuni aspetti che non sono indicati. In primo luogo, se nelle città capoluogo con più di 800.000 abitanti si rende obbligatoria la realizzazione, in tempi certi, della Città metropolitana e non solo genericamente indicata. Il piano intercomunale milanese, che era l’elemento propulsore, fu sottoscritto da oltre 150 comuni, assieme al comune di Milano, oltre trent’anni fa: non basta studiare, bisogna renderlo operativo.

Secondo aspetto: se in quelle città (parliamo nello specifico di quattro città, perché tante sono quelle che superano gli 800.000 abitanti) in cui si realizza la Città metropolitana si superano ruoli e funzioni delle Province, che si trasferiscono assieme ai mezzi alla Città metropolitana.

In terzo luogo, si prevede che le Regioni interessate, oltre a quanto già previsto, trasferiscano determinate funzioni. Ci riferiamo, al riguardo, al Lazio, per quanto concerne Roma, alla Lombardia per Milano, alla Campania per Napoli e al Piemonte per Torino: è evidente, infatti, che, per il peso e il ruolo che hanno, ci deve essere un riequilibrio anche di funzioni.

In quarto luogo, se la città capoluogo (queste quattro città, o comunque, la città di Milano) si suddivide in municipalità, con relativi prosindaci, giunte, bilanci e ruoli.

In quinto luogo, va stabilito che il Consiglio e il Governo metropolitano vengano eletti con un sistema misto; penso a collegi tipo quelli delle Province per l’elezione dei singoli consiglieri e ad un ticket, in analogia a quanto avviene per l’elezione delle Regioni, assieme al sindaco, in modo che ci sia l’espressione del territorio e siano assicurate contemporaneamente la maggioranza e la governabilità.

Infine, sono necessari gli stanziamenti.

Si tratta di un insieme di aspetti non contenuti nel testo dell’articolo 2 introdotto dalla Camera dei deputati. Come è emerso dal dibattito svoltosi in Commissione bilancio in sede di espressione del parere, non sono stanziati in questo articolo i finanziamenti necessari per realizzare le Città metropolitane, tanto più se non si prevede il superamento della Provincia e il trasferimento integrale di funzioni, personale e finanziamenti alla Città metropolitana.

Per tale motivo, insieme al collega Del Pennino, ho presentato due emendamenti molto precisi all’articolo 2; lo abbiamo già fatto in Commissione affari costituzionali, purtroppo senza risultato, e li riproponiamo in Aula.

Il primo riguarda il superamento delle Province, ove si realizzi la Città metropolitana, secondo i criteri, i poteri e la determinazione nell’attuarla. Ciò è necessario e urgente per quattro città, in primo luogo; altre sono le caratteristiche delle ulteriori otto città per le quali è prevista la realizzazione delle Città metropolitane. Il dibattito è in corso da un decennio; si tratta di realtà con peculiarità particolari, dove i processi di trasformazione determinatisi in questi anni sono profondi.

Voglio solo fare un esempio. A Milano mezzo milione e mezzo di abitanti si è trasferito in provincia, e oltre a questo bisogna considerare le ex grandi aree industriali: Bicocca con un’università, Rogoredo con un’altra, e dall’altra parte il Politecnico, mentre la quinta città industriale, Sesto San Giovanni, non c’è più. È evidente che le attività produttive in larga parte sono sul territorio. Diventa decisivo allora soddisfare l’esigenza di un governo, in particolare delle grandi infrastrutture, pena un decadimento di tali realtà, che devono invece divenire città europee, con le medesime caratteristiche che hanno Londra, Parigi e altre città metropolitane d’Europa.

Infine, perché le municipalità? Consideriamo ancora Milano, Quarto Oggiaro, con i suoi 150.000 abitanti e facciamo un confronto con i due comuni che confinano con questo quartiere: Bollate e Novate. I cittadini milanesi, poiché sono in periferia, ricevono meno della metà dei servizi che hanno i cittadini di quei Comuni. Ciò riguarda, in primo luogo, gli anziani; oltretutto, si tratta di quartieri con una popolazione, in molti casi, con prevalenza di nuclei familiari di single, non giovani ma ultrasessantenni o ultrasettantenni, privi di servizi di assistenza. Vi è altresì mancanza di asili nido adeguati al numero degli abitanti, a differenza di Bollate e Novate.

Visto che si è votato ieri, vorrei fare un altro confronto: Bicocca-Gorla-Crescenzago. Che rapporto c’è fra questi tre quartieri e Sesto San Giovanni o Bresso dal punto di vista dei servizi? Fanno tutti parte del parco Nord, il più grande in Italia, ma i territori aventi una propria amministrazione, cioè quelli che costituiscono un comune, forniscono anche dei servizi.

Un solo esempio: a Sesto San Giovanni esistono 143 società sportive e decine di migliaia di cittadini svolgono attività motoria; a fatica ne ritroviamo un paio negli altri quartieri. È stata istituita la nuova università ma non si trovano case; il vecchio pensionato universitario è stato venduto ad un ospedale e quindi 40.000 studenti non possono usufruire di servizi. È evidente che se si lascia tutto in mano al comune di Milano, in modo centralizzato, si tende fondamentalmente a pensare al centro ma non ai quartieri periferici.

Non mi riferisco a tutte le Città metropolitane; in questo caso, però, è necessaria una scelta che consenta una doppia gestione: da una parte, un governo del territorio dei grandi servizi (trasporti, acqua, nettezza urbana e altro) che non può che essere sovracomunale e in grado di cogliere le specificità economico-produttive e infrastrutturali, dall’altra, un governo dal basso, una gestione dei servizi necessari esercitata attraverso le municipalità che mettano in condizione i cittadini di essere direttamente protagonisti di quella stessa gestione. Questi due aspetti, signor Presidente, onorevole Ministro, rappresentanti del Governo, colleghi, non sono presenti nella delega.

Signor Ministro, ho seguito con attenzione la risposta che lei ci ha fornito in Commissione: non è vincolante e chi sta vivendo da più di trent’anni un’esperienza legata alla necessità di realizzare la Città metropolitana di Milano non può limitarsi ad accettare semplicemente impegni generici. Per questo motivo - ripeto - ho presentato insieme al senatore Del Pennino gli emendamenti 2.102 e 2.104.

Come ho già detto all’inizio del mio intervento, sono convinto dell’urgenza di approvare il provvedimento e dare quindi attuazione ad una legge che consenta di realizzare quanto previsto nella riforma del Titolo V della Costituzione; nel contempo, però, vorrei ricordare che le Città metropolitane raccolgono il 20 per cento della popolazione italiana. Pertanto, la loro realizzazione non può essere racchiusa in quei tre commi dell’articolo 2 del provvedimento - da me richiamati - che si presentano generici, imprecisi e oltre tutto privi di finanziamento, come ha ampiamente documentato nei giorni scorsi la Commissione bilancio durante l’esame del testo per l’espressione dei pareri.

Mi auguro, onorevoli rappresentanti del Governo, colleghi, che nelle prossime 24-36 ore vengano fornite risposte a chi da trent’anni attende di avere certezze in merito alla realizzazione delle Città metropolitane nel nostro Paese, a partire dal territorio di Milano. (Applausi del senatore Caddeo).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Petrini. Ne ha facoltà.

 

PETRINI (Mar-DL-U). Signor Presidente, signor Ministro, onorevoli colleghi, giunge finalmente al passaggio conclusivo - ci auguriamo che sia veramente tale - un disegno di legge che, come è stato riconosciuto sia dal Governo che dal relatore, ha ricevuto un valido contributo da parte delle opposizioni.

Pertanto, non possiamo che essere in qualche modo felici di tale conclusione e di questo approdo. Nel contempo, però, non possiamo non rilevare tutti i nodi sottesi alla riforma federalista del nostro Paese, che sono tutt’altro che risolti.

Questo disegno di legge recita nel titolo "Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3". E' la data che mi interessa: il 18 ottobre 2001, con referendum, è stata definitivamente approvata la riforma di stampo federale del Titolo V della nostra Costituzione. Dal 18 ottobre 2001 al maggio 2003 intercorre un lasso di tempo non certo breve, e questo ritardo è sicuramente colpevole, perché si è mancato di dare tempestiva attuazione ad una chiara ed esplicita volontà popolare, che aveva spento qualsiasi polemica che ancora poteva residuare relativamente alla riforma del Titolo V della Costituzione, approvata nella scorsa legislatura da una maggioranza diversa dalla vostra e con i voti di quella sola maggioranza.

Il referendum confermativo avrebbe dovuto spazzare il campo da questa polemica ed avrebbe dovuto imporre come assolutamente prioritaria l'attuazione di quella riforma. Così non è stato; si potrebbe dire che tutto è bene quel che finisce bene e che oggi, finalmente, sia pur con ritardo, ci siamo arrivati. Ma non è così, perché questo ritardo ha delle motivazioni ben chiare, non è casuale, non è soltanto dovuto alle procedure parlamentari. Tutt'altro, è un ritardo che ha una sua logica politica che purtroppo è ancora oggetto di discussione: è l'indirizzo che obiettivamente vogliamo dare alla riforma Costituzionale in questione.

Infatti, mentre la Commissione aveva già concluso i lavori nell'ottobre del 2002, esaminando il disegno di legge che il Governo aveva presentato nell'estate del 2002, all'attenzione di quest'Aula giungeva un'ulteriore riforma del Titolo V, che va sotto il nome di devolution, e veniva imposta nel momento stesso in cui avremmo invece più razionalmente dovuto dare attuazione alla riforma già approvata dal Parlamento e confermata dal referendum popolare, peraltro allorquando l'Aula era già impegnata in un passaggio tradizionalmente difficile, quale quello della legge di bilancio. Quella riforma è stata poi ulteriormente riproposta all'altro ramo del Parlamento ed ha completato il primo ciclo di lettura.

Ci troviamo quindi nella condizione di dettare disposizioni per l'attuazione di una riforma precedentemente approvata e confermata con referendum popolare nel momento in cui il Parlamento sta dibattendo su un'altra riforma. E non basta; ad aggiungere confusione a confusione c'è anche il fatto che il Governo ha approvato in Consiglio dei ministri una terza riforma del Titolo V, che ha un indirizzo addirittura opposto a quello delle precedenti.

Ci è stato rimproverato, quando nella scorsa legislatura abbiamo approvato la riforma del Titolo V, di fare una "riformetta". Il motivo per cui l'allora opposizione fu contraria a quel dispositivo di riforma era perché esso si presentava come ampiamente insufficiente a raccogliere l'istanza federalista del Paese. Questo dicevano la Lega e l'allora Polo delle Libertà. Era quella una "riformetta", assolutamente insufficiente a realizzare le finalità previste.

Ebbene, abbiamo oggi la certezza che si trattava invece di una riforma ponderosa, che pone rilevanti problemi in fase di attuazione e il disegno di legge in esame, alla cui stesura abbiamo collaborato, ne è una conferma. È una normativa difficile, che ha come obiettivo primario l’identificazione di princìpi e norme generali di riferimento per la legislazione regionale, laddove vi sia concorrenza legislativa tra Stato e Regioni. È un tema ponderoso, che incontrerà non poche difficoltà in fase di pratica attuazione e che rende conto di quanto impegnativa fosse quella riforma. Dunque, non di "riformetta" si trattava.

Oggi ci viene detto che la devolution realizzerebbe finalmente quel federalismo di ampio respiro che il Paese si aspetta. Abbiamo replicato che la devolution introduce soltanto elementi di contraddittorietà, di conflittualità e di indeterminatezza che rendono assolutamente imprevedibile il risultato finale. Vi è la certezza che, essendo imprevedibile, il risultato finale sarà caotico.

Ci è stato detto che la devolution non fa altro che riprendere un concetto già ampiamente affermato dall’articolo 116 del Titolo V e che, se destabilizzazione istituzionale doveva esserci nell’attuazione del Titolo V, ciò non è conseguenza della devolution bensì dell’articolo 116, cioè della "riformetta" approvata nella scorsa legislatura.

Ho già avuto modo di spiegare quale sia la rilevante differenza tra la devolution e l’articolo 116: quest’ultimo, lungi dal definire una devolution primaria, come qualcuno ha voluto intendere, definisce semplicemente la possibilità, da parte della Regione, di chiedere allo Stato un trasferimento di poteri nell’ambito di quelle materie che la devolution trasferisce invece in toto, senza alcuna trattativa e con legge costituzionale, anziché con legge ordinaria, alle Regioni stesse.

È evidente la differenza con una legge ordinaria dello Stato che trasferisce poteri relativi ad alcune materie e non necessariamente le materie in toto; una legge ordinaria che dovrà stabilire anche le modalità e i limiti dell’esercizio del potere trasferito alla Regione e che pone in capo al Parlamento l’esigenza di sorvegliare sull’effettiva attuazione e sul risultato di quel trasferimento. Lo Stato è sempre, per Costituzione, il titolare del potere trasferito, che può in qualsiasi momento avocare con una propria legge. Dunque, vi è differenza sostanziale tra l’articolo 116 e la devolution.

C’è però in campo una terza possibilità, cioè una nuova riforma del Titolo V che eliminerebbe la cosiddetta legislazione condivisa, concorrente, tra Stato e Regioni e riaffermerebbe un principio, alquanto indefinito e di portata pericolosa, che è quello dell’interesse nazionale. Non che l’interesse nazionale sia pericoloso, è però pericoloso affermarlo in modo così indistinto, impreciso, sicché potrebbe essere esercitato in qualunque momento e per qualsivoglia motivazione.

Ebbene, signor Ministro, è chiaro che noi a questo punto le domandiamo qual è l’indirizzo del Governo: quello che lei rappresenta in questo momento nel quale si cerca di dare attuazione ad una riforma costituzionale, che è stata confermata anche da un referendum popolare, o invece quello di chi sostiene che questa riforma non può trovare attuazione perché è una "riformetta", e quindi non avrebbe nessuna incidenza reale, o ancora quello di chi ritiene che è una riforma destabilizzante, come si evincerebbe dal nuovo articolo 116 della Costituzione, e quindi dobbiamo rivederla?

Ma se dobbiamo rivederla, secondo quale indirizzo, signor Ministro? Secondo l’indirizzo di chi sostiene che quella è una "riformetta", e quindi dobbiamo andare oltre, o quello di chi afferma che essa è destabilizzante e creerà un’infinita conflittualità tra Stato e Regioni per effetto della legislazione concorrente, e quindi dobbiamo arretrare? Non lo abbiamo ancora capito, ma questo è un problema fondamentale.

Siamo chiamati ad un voto su una legge che dovrebbe definire in modo risolutivo un indirizzo già espresso e non sappiamo ancora quali saranno gli effetti dell’azione riformatrice del Governo, che, paradossalmente, si incarna in due personalità così diverse nell’approccio: il cortese Ministro per gli affari regionali, con il quale interloquiamo questa mattina, e il Ministro per le riforme istituzionali, molto più assente dalle sedute parlamentari di quanto non lo sia il ministro La Loggia e con il quale abbiamo quindi più difficoltà ad interloquire.

Signor Ministro, quale di questi scenari è quello che ci aspetta? Credo che abbiamo il diritto di saperlo, quali legittimi rappresentanti di questa Nazione. Andiamo verso un federalismo solidale, che vede una concorrenza legislativa ricca e complessa fra Stato e Regioni, che lei oggi qui rappresenta con il disegno di legge in esame, o invece andiamo in tutt’altra direzione?

E se la direzione è diversa, andiamo verso un federalismo più estremo, con tutti i rischi di destabilizzazione che lo stesso comporterebbe, o andiamo invece verso un federalismo molto più all’acqua di rose, con freni e vincoli centralistici molto prudenti?

Queste sono le domande che le poniamo nel momento in cui ci accingiamo ad approvare questo disegno di legge, che naturalmente ci vede favorevoli se rappresentasse quel che dovrebbe, cioè l’approdo di un lungo e difficile cammino, come naturalmente non poteva non essere poiché, impegnativa e ambiziosa è la riforma che abbiamo affrontato.

Se questo è l’approdo definitivo il nostro voto è favorevole. Ma, poiché non abbiamo assolutamente certezza di tale approdo, né di quello che eventualmente sarà il nuovo approdo, rivolgiamo a lei questa cortese domanda nella speranza che sappia darci una risposta convincente. (Applausi del senatore Mancino. Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Caddeo. Ne ha facoltà.

 

CADDEO (DS-U). Signor Presidente, signor Ministro, onorevoli colleghi, Emilio Lussu, uno dei pochi federalisti dell’Assemblea costituente, una volta conquistata la Carta costituzionale e, per la sua isola, l’autonomia, paragonò quest’ultima alla forza di un gatto. Per il suo popolo, una Nazione fallita che per realizzarsi ha scelto liberamente di confluire in quella italiana, avrebbe voluto l’energia di un leone, cioè il federalismo.

Con l’attuazione della devoluzione stiamo concretizzando l’aspirazione di Lussu? Stiamo dando a Regioni e Comuni gli artigli del leone? Potranno così affrontare meglio le sfide della nuova Europa?

A questi interrogativi la discussione odierna non dà risposte; anzi, ingigantisce dubbi e preoccupazioni. Eppure stiamo affidando alle Regioni l’esercizio operativo di amplissime competenze, anche sul piano internazionale, e deleghiamo il Governo a trasferire alle autonomie locali le risorse finanziarie, umane e strumentali per esercitare indefinite, ma comunque molto estese funzioni amministrative.

Si vuole attuare così la nuova Costituzione, che voi avete osteggiato e su cui si registrano diffusi ripensamenti tra noi, che l'abbiamo voluta. Il Governo, per di più, ha già varato un'ulteriore revisione del Titolo V, che contrasta radicalmente con la proposta che stiamo oggi discutendo, mentre alla Camera avete approvato in seconda lettura una devolution ancora più spinta. Signor Ministro, vi muovete come chi ha in testa uno sciame d'api inferocite. Così rendete irrecuperabile l'errore fatto dal centro-sinistra.

Anche oggi allarma il modo con cui si procede: al buio, con una delega in bianco; autorizzando il Presidente del Consiglio ad operare per decreto; escludendo e raggirando persino il Parlamento, senza alcuna valutazione dell'impatto finanziario e senza alcun impegno reale a garantire le risorse a quelle comunità locali che non le hanno.

Non sarà più il bilancio dello Stato a fronteggiare l'esercizio di compiti delicati e vitali per i cittadini, ma ogni realtà dovrà fare da sé con il proprio bilancio, con le risorse fiscali reperite nel proprio territorio. Si persegue la riduzione della tassazione statale, ma si consegue l'esplosione della spesa e dell'imposizione locale.

Ma dove ci condurrà questa strada? Le autonomie locali sono chiamate a gestire il più possibile dell'amministrazione, e le Regioni sono caricate anche del trasferimento del personale e degli edifici scolastici, dell'organizzazione della sanità, dell'assistenza, dei trasporti, dell'insieme, cioè, dello Stato sociale, oltre che della responsabilità del governo del territorio e della sua economia.

L'ISAE ha stimato che, se avessimo già realizzato questo scaricabarile fiscale, nel 2001 avremmo dovuto decentrare entrate fiscali per 110 miliardi di euro, al fine di consentire alle autonomie locali di esercitare le nuove competenze. Il decentramento, sommato al preesistente, sarebbe arrivato a 205 miliardi, cioè il 56 per cento del gettito fiscale.

Per apprezzare le dimensioni di questo fenomeno è sufficiente ricordare che gli Stati Uniti d'America riservano agli Stati e alle alte autonomie locali non più del 30 per cento del gettito tributario. In Italia abbiamo disegnato, quindi, un sistema sconosciuto altrove, impropriamente chiamato federalismo: il decentramento più spinto e più radicale del mondo, più di quello svizzero, di quello americano, di quello canadese. E non è federalismo. È separatismo, destinato, cioè, a realizzare la separazione dei beni e dei destini delle terre più ricche da quelle più povere, ad approfondire le differenze attuali dei modi di vivere e di lavorare. Avanziamo su questa strada a tappe forzate, senza valutare implicazioni e conseguenze per lo Stato, per i Comuni e per le Regioni, e soprattutto per i cittadini.

Lo Stato, in una fase storica di volatilità e di erosione delle basi imponibili, viene privato del 56 per cento delle entrate fiscali, ma resta responsabile dell'enorme debito pubblico, di quello previdenziale, oltreché, in ultima istanza, di quello degli enti locali.

È evidente come l'Italia rischi di perdere il controllo della finanza pubblica e di non poter rispettare i Trattati europei. La si sta privando della possibilità di utilizzare le entrate e le spese per garantire la stabilità macroeconomica della produzione, dell'occupazione, dei redditi. Le si ridurranno le attuali già limitate capacità di promozione della crescita. Le Regioni non hanno in sé, infatti, la capacità di sostituirsi allo Stato in questi compiti. Se anche qualcuna lo fosse, si creerebbe una segmentazione del mercato antistorica, in contrasto con l'attuale livello di sviluppo delle forze produttive, che devono confrontarsi non con la cantonalizzazione, ma con la globalizzazione dell'economia.

Per la maggioranza dei Comuni e delle Regioni le conseguenze saranno devastanti. Siccome le differenze di sviluppo economico, di ricchezza e di capacità fiscale sono assai accentuate, è facile prevedere un progressivo appesantimento della tassazione nelle autonomie locali più deboli, accompagnato da alleggerimenti da parte delle realtà più ricche.

Le aree montane non turistiche, quelle collinari, il settanta per cento dei comuni con più del cinquanta per cento del territorio della penisola, come documenta la discussione sul disegno di legge in favore dei piccoli comuni, non ce la faranno. La concorrenza dei ricchi toglierà ai poveri la possibilità di attrarre investimenti e risorse umane e di costruire quindi il loro sviluppo. Mezza Italia, privata dell'autonomia finanziaria e di quella politica, sarà ridotta come i relitti di un vascello dopo il naufragio, dispersi ed in preda ai marosi della competizione globale.

Il divario tra Nord e Sud diventerà irrecuperabile. È stato stimato che al Meridione verrebbe infatti a mancare il 50 per cento delle risorse finanziarie oggi disponibili. Si afferma spesso che occorre valorizzare la risorsa del Mezzogiorno per far crescere tutto il Paese. Il nuovo Titolo V gli riserva interventi straordinari, che poco potranno perequare con le esigue risorse rimaste in mano allo Stato.

Da un decennio il pensiero e l’iniziativa meridionalisti chiedono meno compensazioni, meno assistenza e più politiche generali, riforme buone per tutta l'Italia. Si risponde con un nuovo quadro costituzionale che mira a spezzar le reni al Mezzogiorno, a soggiogarlo definitivamente.

Il principio di uguaglianza tra cittadini, così forte nella Costituzione della prima Repubblica, viene in sostanza rovesciato. Non solo non c’è più parità tra chi è abbiente e chi è povero, ma anche tra chi paga le stesse tasse, con le stesse aliquote, i diritti saranno differenziati a seconda delle realtà territoriali. Se con le risorse fiscali riferite al territorio ognuno dovrà gestire la propria organizzazione sanitaria e assistenziale, stiamo dicendo che l'Italia non deve più curarsi dei casi in cui il mercato o la sfortuna personale creano bisogno e sofferenza.

Nei fatti si stanno costruendo grandi disuguaglianze e inumane povertà. Se faremo così anche per l'organizzazione della scuola vuol dire che si vuole che l'Italia diventi l'unico Paese sviluppato privo di meccanismi di redistribuzione di accettabili opportunità di vita. Ma la società italiana così non sarà governabile. Anche il più debole, se calpestato, si rivolta.

Ma quale visione ispira questo progetto? C'è ancora qualcosa dell'Italia costruita dopo la guerra di liberazione? Un grande italiano, Federico Chabod, nei mesi successivi all’8 settembre del 1943 ricostruì, per i suoi allievi e per le nuove classi dirigenti, l'idea di nazione, vista come "un fatto culturale" che diventa "fatto politico" e che viene concepita, purtroppo in modo intermittente, "in indissolubile connessione con la libertà e l'umanità". Quella ispirazione si rivelò condivisa e feconda. Con quel cemento è stata edificata una Repubblica forte, che ha reso gli italiani più sani, più istruiti, artefici di una delle più grandi potenze economiche del mondo. Oggi un progetto spietato di devoluzione sta smontando quell'edificio, sta sciogliendo ancora una volta quella connessione della nazione con la libertà e con l'umanità.

L'Italia così è già più debole e non è difficile scorgere un futuro minato da inevitabili e acuti conflitti sociali, territoriali, politici. L'idea di preservare dal declino enclave limitate rappresenta un'illusione autolesionista. In un'Europa che si allarga, in cui si definiscono i doveri e i diritti dei cittadini europei, è un errore clamoroso pensare di fare a meno di una coesa individualità nazionale capace di influire sulla qualità di quei diritti e di quei doveri.

Certo, non si può pretendere che voi conservatori abbiate dell'Europa una visione progressiva e volontaristica, che pensiate con noi ad una federazione (questa, sì, una federazione!) come l'esperienza più avanzata del governo della globalizzazione, ma almeno ispiratevi all'idea di chi, dai tempi del Risorgimento, ha guardato all'Italia unita come elemento di equilibrio e di stabilizzazione del vecchio continente.

La via per sconfiggere il declino non è quella di ridurre per pochi i danni causati dal liberismo, ma di riformare e ammodernare le nostre strutture economiche e sociali ormai obsolete, di rinnovare il clima civile e culturale al fine di restituire vigore al genio italiano.

Questo tipo di devoluzione non realizzerà quindi le idee di federalisti come Lussu, non farà spuntare gli artigli all'Italia e alle sue comunità locali. Si presenta confusa e caotica. Suscita persino noia. In quest'Aula molti dicono di non condividerla, ma è palpabile il rischio che prevalgano distacco e fastidio.

Non è facile ammettere di aver sbagliato e correggere criticamente scelte errate, ma chi si riconosce nel socialismo europeo e non si rassegna alle ingiustizie sociali, i liberali che tengono alla libertà delle persone, i democratici che guardano all'uguaglianza non possono rassegnarsi all'indifferenza. Hanno in mano la possibilità di fermare il declino, le nuove povertà, le disuguaglianze, i conflitti che si affacciano all'orizzonte. Possono assieme costruire una prospettiva di valori comuni e di libertà degna di una grande Nazione. (Applausi dal Gruppo DS-U).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore Manzella. Ne ha facoltà.

 

MANZELLA (DS-U). Onorevole Presidente, signor Ministro, pur dando, in prima lettura, un giudizio positivo su questo disegno di legge di attuazione costituzionale, segnalavamo la necessità di colmare una sua evidente lacuna.

Riguardava, questa, l’impostazione della disciplina per il funzionamento di comuni, province e città metropolitane: un po’ il cuore del nostro regionalismo. Se c’è infatti una specificità italiana del sistema dei governi territoriali, essa riguarda la centralità dei Comuni: sì che ogni Regione deve piuttosto configurarsi come una federazione dei Comuni che la compongono. Questa lacuna è stata colmata dalla Camera dei deputati in una maniera che ci sembra, almeno in questa fase, soddisfacente. E dunque non cambia, anzi si rafforza, il giudizio che allora si dette.

Tuttavia, signor Ministro, come hanno rilevato altri colleghi che mi hanno preceduto, sarebbe ipocrisia, a lei certo non gradita, dimenticare il contesto a dir poco bizzarro in cui questo progetto si colloca. Licenziato dal Consiglio dei ministri, ora in laborioso e accigliato esame da parte di Conferenze che avrebbero dovuto esserne prima investite, incombe infatti un provvedimento di "nuove modifiche" al Titolo V della Costituzione.

Mentre c’è un generale consenso sul disegno di legge che oggi esaminiamo, vi è dunque la minaccia che questo risultato di consenso cada presto per molta parte nel nulla: "Pene d’amor perdute", avrebbe detto, se si fosse interessato del nostro federalismo, il grande Shakespeare. E dunque, l’esame del presente testo non può prescindere dal suo futuro.

Niente di male, signor Ministro, se le modifiche alle modifiche riguardassero miglioramenti definitori di materie e competenze, sempre possibili e auspicabili in una così complessa manovra istituzionale, ove una certa dose di sperimentalismo e di precauzione è inevitabile. Molto di male, signor Ministro, se venissero intaccati gli equilibri di fondo su cui la vigente Costituzione ha articolato i rapporti Stato-autonomie territoriali.

Per essere più precisi, vi sono nel provvedimento tre punti che riteniamo indisponibili a modifiche. Primo: noi consideriamo che il meccanismo che regge la competenza legislativa concorrente, con la definizione da parte del Parlamento nazionale dei "princìpi fondamentali" che la reggono, sia un meccanismo del tutto appropriato.

La legislazione concorrente è un procedimento normale, esattamente cooperativo, di tutti gli Stati regionali e federali. È stato ora accolto, nel progetto di Costituzione dell’Unione Europea, all’articolo 11, nella versione delle competenze condivise, dove la cooperazione avviene su un piano strettamente paritario.

Non è assolutamente vero - le statistiche sono disponibili presso la nostra Corte costituzionale - che la concorrenza sia fonte prevalente di liti. Al contrario, l’idea di "esclusività" per fonti legislative di enti sub-nazionali è un’idea concettualmente errata e praticamente insostenibile. Tutto poi assumerebbe contorni poco seri se a competenza cosiddetta esclusiva delle Regioni corrispondesse però la previsione nelle stesse materie di "norme generali" statali, cioè di una legislazione statale assolutamente più invasiva di quella che si limiti - come è ora previsto - a fissare "princìpi fondamentali".

Secondo: noi riteniamo che l’"interesse nazionale" del vecchio articolo 117, cancellato come formula, non sia però scomparso nella Costituzione vigente e in questo testo che ci accingiamo a varare. L’interesse nazionale vive, infatti, non in astratto principio, ma in specificazione di azioni concrete che non avrebbero altrimenti altra base di legittimazione politico-democratica.

Lo Stato che pone i princìpi fondamentali della legislazione concorrente; lo Stato che determina e garantisce i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali "su tutto il territorio nazionale"; lo Stato che tutela l’unità giuridica e l’unità economica dell’ordinamento; insomma, lo Stato che adempie ai criteri direttivi che gli stiamo dando al comma 6, lettera b), dell’articolo 1 di questo disegno di legge; che altro fa, lo Stato, in ognuna di tali azioni se non perseguire e tutelare l’interesse nazionale? Ma lo fa nel quadro di una casistica precisa, di specificazioni puntuali, non in base ad una formula generica che colpirebbe al cuore, per la sua ampiezza multiuso, la stessa autonomia costituzionale delle Regioni.

D’altra parte, se per particolari aspetti si ritiene preferibile una formula più flessibile, che cos’è se non "interesse nazionale" quell’interesse pubblico che, in base al comma 4 dell’articolo 9 di questo disegno di legge, consente alla Corte costituzionale, e dunque al massimo organo di garanzia costituzionale, di sospendere, in attesa di giudizio, l’efficacia di leggi regionali?

Terzo: noi riteniamo essenziale che i rappresentanti delle autonomie territoriali possano entrare al più presto in Parlamento, integrare la Commissione bicamerale per le questioni regionali e pronunciarsi su ogni ipotesi d'intersecazione tra legislazione statale (e comunitaria) e legislazione regionale.

Consideriamo una manomissione di questo diritto acquisito - con la norma transitoria dell’articolo 11, confermata dal referendum popolare del 7 ottobre 2001 - ogni ipotesi di restrizione della partecipazione parlamentare delle autonomie. Perché, se per dannata ipotesi i "princìpi fondamentali" dell’attuale articolo 117 fossero sostituiti per effetto delle cosiddette "nuove modifiche" da "norme generali", la ragione di questa partecipazione sarebbe ancor più forte a causa della maggiore penetratività della nuova formula: quali che fossero gli schermi terminologici adottati.

Onorevole Presidente, signor Ministro, ecco i tre punti che consideriamo irreversibili una volta adottato questo progetto di attuazione costituzionale. Le "nuove modifiche" - che pur contengono elementi positivi, come il tentativo di incorporare in un disegno organico quello che per ora è uno scombinato progetto di devolution (che magari, per rispetto del presidente Calderoli chiamerò un progetto avulso) e come la costruzione di uno speciale status per la Capitale d’Italia - non dovrebbero dunque recare lesione in alcun modo a questi tre punti. E il terzo di questi punti, quello riguardante la Commissione per le questioni regionali, apre il discorso su uno scenario assai preoccupante di ritardi che rischiano ormai di essere qualificati come ostruzionismo.

A quasi due anni di distanza dal referendum del 7 ottobre 2001, non siamo ancora riusciti ad integrare quella Commissione bicamerale. Sembra che il ritardo maggiore sia ora imputabile alla Camera. È bene, però, che il nostro Senato faccia da naturale battistrada in una materia come questa. E che, all’unanimità, come sarebbe auspicabile, o con la maggioranza costituzionale dell’articolo 64, definisca intanto la sua posizione regolamentare e solleciti la necessaria intesa con Montecitorio. Ci permettiamo di richiamare su questo aspetto la personale attenzione del Presidente del Senato.

Dicevamo: quasi due anni dal referendum del 2001. Ed è già passata metà legislatura. Ma della riforma parlamentare "promessa" nella stessa norma transitoria dell’articolo 11 non vi è traccia. Eppure, è unanime la richiesta dal mondo delle autonomie, dalle università, dall’opinione pubblica attraverso i media, dall’opposizione che ha presentato apposita iniziativa per la trasformazione di questo Senato della Repubblica, secondo la significanza che ha ora il termine Repubblica sulla base dell’articolo 114 della Costituzione.

Le "nuove modifiche" si limitano ad un memorandum tralaticio nella relazione, quasi una clausola di stile, ma non vanno più in là. Eppure, se noi indugiamo ancora, sarà chiaro a tutti che il "nuovo Senato" non potrà vedere la luce che nel 2011, essendo politicamente impensabile la dissoluzione "tecnica" dell’Assemblea che sarà eletta nel 2006.

Sappiamo che la materia è spinosa e delicata. Sappiamo che una soluzione definitiva non sarebbe possibile per il 2006. E che la prima elezione del "nuovo" Senato della Repubblica dovrà essere verosimilmente accompagnata, per comprensibili ragioni, da norme elettorali transitorie valide una tantum, come fu per la storica prima elezione del 18 aprile 1948.

Sappiamo però anche che, se non apprestiamo subito - per la prossima scadenza elettorale, che è ormai alle porte, considerati i tempi di una riforma costituzionale come questa - il naturale sbocco al centro dello Stato del sistema delle autonomie, noi avremo un sistema monco, sbilanciato, ibrido e, in definitiva, rischioso per la Repubblica. Cioè un sistema in cui la peggiore versione concettuale di devolution, con la rottura dei legamenti con la compagine repubblicana, sarebbe un risultato generalizzato.

A questa urgenza assoluta per il "nuovo" Senato della Repubblica si accompagna, signor Ministro, l’altra urgenza di equilibrio del sistema: che è la pratica attuazione dell’articolo 119 della Costituzione sul cosiddetto "federalismo fiscale". Questione per la quale la posizione nella gerarchia d’urgenza è solo di ordine formale, dato che la sua soluzione non richiede ricorso a revisione costituzionale, ma la cui incidenza politica e sociale è di vastità grande, toccando il nervo più delicato di ogni sistemazione federalistica, in condizioni di diseguaglianza economica e territoriale, com’è la sistemazione federalistica nel nostro Paese.

È perciò assurda ogni ipotesi di rinvio che è stata adombrata sul nodo del federalismo fiscale, che è certo nodo tecnicamente e politicamente arduo, ma su cui l’istruttoria scientifica è già sufficientemente matura e di cui forse l’Alta Commissione dovrebbe tirare le fila, più che pensare a nuove ricerche.

Mentre confermiamo il nostro consenso a questo disegno di attuazione del Titolo V della Costituzione, sono queste, signor Presidente, signor Ministro, le preoccupazioni di contesto di un’opposizione responsabile. (Applausi dai Gruppi DS-U e Mar-DL-U e del senatore Colombo. Congratulazioni).

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la discussione generale.

Ha facoltà di parlare il relatore, senatore Magnalbò.

 

MAGNALBO', relatore. Signor Presidente, intervengo in replica soltanto per esporre una sintesi di quanto si è detto e di quanto si farà.

Il senatore Bassanini, in sostanza, ci ha rimproverato di non aver dato immediata attuazione, appena conclusa la legislatura, alla riforma del Titolo V della Costituzione attraverso la legge La Loggia e di non avere operato subito - se avessimo dovuto farlo - in senso costituzionale per una modifica dello stesso Titolo V. Vorrei far riflettere il senatore Bassanini e gli altri senatori, di cui ho apprezzato gli interventi, su questa circostanza.

Una volta entrata in vigore la riforma del Titolo V, abbiamo ritenuto di svolgere una lunghissima serie di audizioni in 1a Commissione per cercare di comprendere il vero senso della riforma e di capire quali fossero i punti cui dare attuazione e quali quelli la cui realizzazione si rivelava impossibile, al fine di modificare la normativa, così come lo stesso ministro La Loggia dichiarò in quella sede.

Il Ministro, infatti, si accorse, come tutti noi, di alcune anomalie e capì che qualcosa andava effettivamente cambiato in senso costituzionale, poiché una legge di attuazione non era sufficiente. Pertanto, ritengo che le critiche sollevate si possano respingere, dal momento che ora abbiamo le idee più chiare, per quanto una simile riforma possa consentirlo.

In tal senso, abbiamo provveduto non solo ad emanare un provvedimento di attuazione, quanto anche a modificare il Titolo V della Costituzione, così come era stato concepito dalla sinistra. Ricordo, peraltro, che tale modifica fu sì molto condivisa, ma al di fuori del Parlamento. Le leggi, però, sono fatte dal Parlamento e non all’esterno e quella riforma fu approvata dalle Camere, dalla maggioranza di allora, con pochi voti di scarto.

Attraverso il provvedimento in esame, abbiamo cercato di chiarire il più possibile. Per quanto riguarda la modifica del Titolo V, invece, essa è ancora qualcosa in fieri, uno schema, un memorandum tralaticio, come l’ha definito il senatore Manzella, anche se io ritengo che il provvedimento abbia una dignità maggiore. Con quel memorandum abbiamo cercato anche di chiarire le competenze e di definire la legislazione concorrente, che già aveva creato diversi problemi sotto il profilo costituzionale e della conflittualità.

Noi stiamo compiendo il nostro dovere, stiamo facendo la nostra parte. In merito al disegno di legge in esame, ritengo lo si possa approvare così come licenziato dalla Camera dei deputati, avendo un occhio di riguardo a tutto quello che è stato chiesto sia in via emendativa che attraverso gli ordini del giorno. Per vari motivi tecnici, non credo si possano approvare gli emendamenti presentati, ma, senatore Pizzinato, in futuro faremo tesoro delle sue indicazioni sulle città metropolitane, che aboliscono le province - a volte fa comodo - ma danno luogo ad un sistema più vasto e articolato, ristretto a quattro ipotesi in ambito nazionale.

Infine, ringrazio i senatori intervenuti e il ministro La Loggia e suggerisco di approfondire il merito della questione nel dibattito che si svolgerà in sede di esame dell’articolato.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

 

LA LOGGIA, ministro per gli affari regionali. Signor Presidente, intervengo solo per confermare un sentito apprezzamento per la pacatezza e l’approfondimento cui ha dato luogo il dibattito sul disegno di legge in esame, tanto tra le file della maggioranza, quanto tra quelle dell’opposizione, che hanno mostrato particolare attenzione all’argomento.

Ci siamo trovati dinanzi ad una serie di problemi. È stato detto più volte - lo voglio sottolineare - che la Costituzione va attuata. Con grande senso di responsabilità, pur non condividendo totalmente quella riforma, ci siamo accinti ad attuarla. Abbiamo impiegato il tempo necessario, ma certamente, se c'è stato un ritardo (sicuramente si sarebbe potuto fare prima), è perché si è dovuto tener conto del calendario parlamentare e di una serie di approfondimenti in Commissione, nei vari passaggi tra Senato e Camera, che se, da un lato, hanno indubitabilmente migliorato la formulazione del testo, dall’altro, hanno fatto sicuramente accusare un ritardo nella conclusione dell’esame, con il rimpianto di non aver potuto fare prima rispetto alle nostre intenzioni.

Vi è poi il problema di una nuova riforma. Mi è stato chiesto più volte, anche questa mattina, qual è la linea del Governo. È questa, puramente e semplicemente espressa nella maniera più chiara ed elementare: stiamo dando attuazione alla riforma costituzionale attualmente vigente per senso di responsabilità e per rispetto verso le istituzioni. Ci siamo accinti ad una nuova riforma costituzionale; siamo all'inizio del percorso, ma tenteremo di trovare soluzioni migliori, più chiare ed utili per la nostra comunità nazionale.

Il problema non è quello di fare una somma aritmetica - o, peggio ancora, algebrica - tra la quantità delle competenze dello Stato e quelle delle Regioni; francamente, non mi sembrerebbe opportuno scendere ad una contesa meramente numerica nell'Aula del Senato.

Abbiamo tentato di riscrivere soprattutto l'articolo 117 della Costituzione secondo la seguente impostazione: cercare di capire cosa è più utile per i cittadini, se è più opportuno che determinate cose le faccia lo Stato e determinate altre le Regioni.

C'è una seconda impostazione coerente con questa: è possibile tagliare il nodo della legislazione concorrente? Ci siamo dati una risposta; abbiamo considerato anche la valutazione, avanzata da molti, secondo la quale sarebbe utile, quando non addirittura necessario, attribuire alcune materie alla legislazione concorrente. Abbiamo fatto tesoro di questo tipo di impostazione e nello scegliere il percorso abbiamo tentato di attribuire allo Stato, con chiarezza, alcune funzioni e, con altrettanta chiarezza, di affidare alle Regioni altre funzioni.

Abbiamo poi tentato una terza via, diversa dalla legislazione concorrente e da quella esclusiva: quella della ripartizione tra norme generali dello Stato e norme di dettaglio in ambito regionale. È una soluzione congrua, accettabile ed è forse possibile trovarne delle migliori. Possiamo continuare a studiare su questo argomento in tempi ragionevolmente brevi? Non siamo in condizioni, oggi, di dare una risposta, perché, rispettosi come siamo della vita delle istituzioni e dei suoi rappresentanti, abbiamo affidato questo compito alla Conferenza Stato-Regioni, che quanto prima esprimerà il suo parere, del quale terremo conto anche con modificazioni, miglioramenti e integrazioni.

Torneremo, per una valutazione politica e tecnica, in Consiglio dei ministri e verremo poi in Parlamento per un ampio confronto, che mi auguro sia aperto, franco, costruttivo come quello che si è svolto in occasione dell’esame di questo disegno di legge attuativo.

Mi auguro che il testo sia licenziato in un brevissimo lasso di tempo. Siamo in attesa di conoscere le decisioni della Conferenza dei Capigruppo. Questa legge ci consentirà in ogni caso - so che mi comprendete bene - di attendere con minore affanno e con minori problemi la nuova riforma costituzionale, la cui data di entrata in vigore né il Governo né il Parlamento sono al momento in condizione di prevedere.

Nel frattempo, abbiamo adempiuto ad un obbligo costituzionale; ci siamo assunti questo onere e andiamo avanti in tal senso per senso di responsabilità e rispetto delle istituzioni, pur con qualche riserva personale rispetto ad alcune scelte operate con la riforma della scorsa legislatura, attualmente in vigore. Il resto appartiene all’avvenire e spetta dunque a noi costruirlo, con un confronto che mi auguro quanto più possibile aperto e costruttivo. (Applausi dei senatori Magnalbò e Vanzo).

 

PRESIDENTE. Mi sia consentito ringraziare il collega Manzella per la sua cortesia; in ogni caso, in ragione della minore sensibilità di altri colleghi, ho ormai acquisito una pelle di elefante!

Come convenuto, rinvio il seguito della discussione del disegno di legge in titolo ad altra seduta.

(…)

La seduta è tolta (ore 11,35).

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