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Immagine dal catalogo della mostra: Il Mediterraneo dei fotografi

J. P. Sebah
Inaugurazione del Canale di Suez, 1869
Egitto
Stampa originale all’albumina, cm 26x33,5
Museo di Storia della Fotografia
Fratelli Alinari – collezione Favrod, Firenze

Il Mediterraneo dei primi fotografi

di Charles-Henri Favrod

Soltanto la fotografia ha permesso di esaminare il Mediterraneo nel suo insieme, da Siviglia a Costantinopoli,  dallo Stretto di Gibilterra all’Istmo di Suez.

A partire dal marzo 1839, in Francia, Prosper Merimée e la Commissione dei Monumenti Storici riconobbero che la fotografia, appena inventata, poteva essere messa al servizio dell’archeologia. E nella sua comunicazione all’Accademia delle Scienze e delle Belle Arti, rivelando il nuovo procedimento, il chimico Arago insiste su un punto: “Per copiare le migliaia di geroglifici che coprono i grandi monumenti di Tebe, di Memphis, di Karnak, sarebbero necessari una ventina d’anni e legioni di disegnatori. Con il dagherrotipo, un solo uomo potrà portare a buon fine e senza errori questo immenso lavoro”.

Il 6 novembre 1839 già il pittore Horace Vernet arriva in Egitto con Fréric Goupil-Fesquet e comincia subito la prima campagna di rilievo. Prima della fine dell’anno, anche Gerusalemme è dagherrotipata, poi Nazareth e San Giovanni d’Acri. Queste vedute, incise su legno, si trovano nelle Excursions daguérriennesche l’ottico Lérebours comincia a pubblicare nel 1841 a Parigi.

Il Grand Tour, il viaggio che cominciava in Italia o in Spagna, proseguiva in Grecia, nella Turchia ottomana, in Terra Santa, in Egitto, era già largamente praticato anche nell’Africa del Nord.

La fotografia, non appena i progressi tecnici lo permisero, divenne poco a poco il miglior mezzo per rivelare il Mediterraneo, la sua diversità, ma anche la sua profonda unità. Fino ad allora se ne era avuta una visione molto frammentaria per non dire fantasiosa. Infatti un’incisione inglese della fine del XVIII secolo presentava il luogo di Giza con venti grandi piramidi. La fotografia rappresenta una riproduzione inconfutabile della realtà, ripresa d’après nature. Non sono solo i luoghi ad essere riprodotti, ma anche la luce del momento. Ed è con stupore che lo spettatore scopre che può vedere queste immagini sia altrove, sia in tempi diversi.

Nel 1851, il francese Eugène Piot pubblica un volume fotografico, L’Italie Monumentale che suscita grande sensazione. Numerosi sono dopo di lui i fotografi stranieri che viaggiano da Venezia alla Sicilia, senza dimenticare la Sardegna, dove lo svizzero Edouard Delessert nel 1854 realizza un pionieristico viaggio. Nello stesso periodo l’inglese Calvert Jones, in compagnia del suo compatriota George Wilson Bridges, compie un interessante giro turistico da Firenze a Napoli, prima di proseguire poi per Palermo e Malta. L’Accademia di Francia a Villa Medici accoglie i fotografi che si ritrovano nel vicino Caffè Greco: Constant, Normand e soprattutto il padovano Giacomo Caneva, geniale calotipista e il suo allievo Tuminello.

Non bisogna dimenticare la Spagna, dove i pionieri della fotografia furono attivi dal 1839. Qui lavorò il grande fotografo inglese Charles Clifford, legato alla corte della regina Isabella dal 1852, il quale realizzò numerose e superbe vedute, esaminando il paesaggio così come il dettaglio vegetale, e proponendo ciò che si può oggi chiamare una eccezionale modernità di visione e una perfezione tecnica precoce per i suoi tempi.

Tornando in Italia, dieci anni più tardi, a Napoli, Giorgio Sommer e Robert Rive cominciano il censimento sistematico dei monumenti e della vita quotidiana raccogliendo un insieme fantastico di informazioni sulla Campania e sulla Sicilia. E’ allora che si moltiplicano le immagini del Vesuvio e dell’Etna che si aggiungono alle vedute fino ad allora così apprezzate dai turisti. L’Italia costituisce incontestabilmente il trampolino del Grand Tour. Ma, ben presto, è verso l’Oriente che il viaggio continua. Daguerre aveva detto nel 1839: “Quel che necessita di almeno venti minuti di posa a Parigi, il sole dell’Egitto lo accelera di dieci volte”.

Nel 1849 Maxime du Camp sbarca ad Alessandria e Gustave Flaubert è il primo compagno di viaggio di un fotografo a descrivere per iscritto e con umorismo le attese interminabili che erano necessarie alla posa e allo sviluppo. E’ Gustave Le Gray ad insegnare i rudimenti del calotipo a Maxime du Camp, come ad Alexis de Lagrange, trasmettendo loro gli ultimi perfezionamenti apportati dallo stampatore di Lille, Blanquart-Evrard.

Diviene molto presto calotipista anche John Bulkley Greene, autore di una ricerca ammirevole e precoce, poiché muore a ventiquattro anni nel 1856, dopo aver rinnovato il metodo e la maniera di vedere, fotografando da dietro i Colossi di Mennone, in un’epoca in cui tutto era visto frontalmente. Altri britannici sono presenti in Oriente: il reverendo George Bridges, già ricordato in Italia, John Shaw Smith, Francis Bedford che accompagna il principe di Galles nel 1862, e soprattutto Francis Frith. Quest’ultimo, con il suo assistente Frank Mason Good compie numerosi viaggi realizzando il rilievo completo dell’Egitto, così come farà fino al 1900 il veneziano Antonio Beato, stabilitosi al Cairo, poi a Luxor, dopo aver collaborato con suo fratello Felice e con James Robertson, che diventerà poi suo cognato, incontrato a Malta al ritorno da un viaggio in Crimea e a Costantinopoli.

Anche i francesi fanno la loro parte, allestendo una galleria di personaggi parallelamente al panorama dei monumenti: Henri Béchard; Hippolyte Arnoux, frequentatore abituale del cantiere del canale di Suez; Auguste-Rosalie Bisson e Adolphe Braun, invitati ai festeggiamenti dell’inaugurazione del 1869, così come Félix Teynard che aveva fatto il viaggio in Egitto già nel 1851 come calotipista; Gustave Le Gray che arriva dalla Sicilia per lì stabilirsi e finirvi i suoi giorni; Emile Brugsch, conservatore aggiunto del museo di Boulak, assistente di Auguste Mariette e di Gaston Maspéro, il primo a fotografare le mummie dei faraoni. Bisogna citare ancora gli italiani Carlo Naya, Francesco Quarelli e Alessandro Brignoli, il greco Peridis, l’armeno Lekegian, il turco Pascal Sebah, che si associa al francese Polycarpe Joaillier. Altri greci come i fratelli Zangaki, altri turchi come i fratelli Horsep, Vichen e Kevork, Abdullah, fotografi ufficiali del sultano a Costantinopoli e, a questo titolo, attivi in Egitto e nelle province orientali dell’impero ottomano.

Questo elenco, non esauriente, può sembrare ozioso, ma rinunciarci sarebbe ignorare l’opera dei pionieri. Girault de Prangey, con i suoi Monumenti arabi d’Egitto, della Siria e dell’Asia minore, precede di cinque anni Egitto, Nubia, Palestina e Siriadi Maxime du Camp, superbamente pubblicato con le prove originali di Louis-Désiré Blanquart-Evrard nel 1852. Diversi fotografi rappresentano contemporaneamente la Siria e la Palestina: Ernest Benecke nel 1852, James Graham e Auguste Salzmann nel 1854, il reverendo Albert Augustus Isaacs nel 1856, John Anthony nel 1857, Wilhelm Hammerschmidt nel 1859.

La spedizione del duca di Luynes nel 1864 riunisce diversi fotografi, tra cui Jardin e Vignes, che realizzano numerose immagini del Mar Morto e del Giordano. Ma George Skene Keith era stato il primo a dagherrotipare Petra, venti anni prima, nel 1844. Da segnalare soprattutto una spedizione che da sola rappresenta l’itinerario del Grand Tour. Nobile russo stabilito a Losanna in Svizzera, Gabriel de Rumine accompagna il Granduca Costantino, figlio di Nicola I, in un viaggio che durò dall’ottobre del 1858 al luglio del 1859, iniziato a Nizza, proseguito a Genova, Napoli, Palermo, Malta “Ombelico del Mediterraneo”, Atene, Costantinopoli, infine Gerusalemme. De Rumine realizzò delle immagini ammirabili, di cui alcune apparvero successivamente a fascicoli nel giornale parigino La Gazette du Nord da lui finanziato.

Occorre soffermarsi sul lavoro di Félix Bonfils poichè le sue fotografie sono all’origine di una larga diffusione iconografica. Protestante delle Cévennes, nativo di Saint-Hippolyte-du-Fort, ha ventinove anni quando nel 1860 partecipa alla spedizione condotta da Napoleone III per proteggere i cristiani maroniti contro i drusi. Con sua moglie, Lydie Cabanis e suo figlio Adrien si stabilisce a Beirut nel 1867 e apre, nel quartiere di Bab el Driss, uno studio fotografico che diventerà uno dei più importanti dell’Oriente. Nel 1871, Félix Bonfils invia una comunicazione alla Société Française de Photographieper far sapere che ha già realizzato “591 negativi fatti in Egitto, Palestina, Siria e Grecia, e anche 9000 stereoscopie”. Il suo catalogo del 1876 precisa che le sue copie sono state fatte in almeno “tre formati differenti”, prova che ha utilizzato più apparecchi anche quando si è avventurato in posti pericolosi come Baalbek o Palmira.

Nel 1878 Félix Bonfils prova nostalgia del suo paese, torna in Francia e si stabilisce ad Alès. Sua moglie con il figlio restano a Beirut e mantengono per quarant’anni l’attività del laboratorio con tre assistenti: Rombeau, Sabounji e Hakim. Dopo la morte di Lydie nel 1918, un armeno, Guiragossian, ricompra l’archivio e ne trae profitti fino alla vigilia della seconda guerra mondiale. Malgrado il suo protestantesimo, Félix Bonfils aveva allacciato eccellenti rapporti con la Chiesa cattolica romana e, in particolare, con tutti gli Arcivescovati e Vescovati della Francia che lui riforniva di immagini utilizzate per proiezioni educative. Il suo gigantesco lavoro è motivato da una volontà d’inventariare tutti i luoghi biblici ed evangelici.

Ed è l’interesse per la storia che lo animava. Adrien manifestava più proselitismo: i testi che lui ha redatto provano una fede ardente ed ha spesso aggiunto didascalie alle fotografie di suo padre, ad esempio “Contadini drusi del Monte Carmelo” diventa “Gente somigliante ai dodici apostoli dell’Ultima Cena”. In una delle sue prefazioni agli album pubblicati scrive: “Si direbbe che niente è cambiato sotto questo cielo che ha visto levarsi i primi raggi del Sole della giustizia”. L’importanza della ricerca di Félix Bonfils è soprattutto nel sistematico censimento durato oltre dieci anni, dello stato di conservazione dei luoghi, lavoro proseguito in seguito da Lydie e Adrien. Bisogna ricordare ancora un volta che fino a quel momento solo incisioni approssimative falsavano l’idea di queste regioni più che documentarle.

Il lavoro dei fotografi e l’apertura del canale di Suez rese più agevole il viaggio e cambiò profondamente la conoscenza di questi paesi. Dal 1869 Thomas Cook propose degli itinerari ai turisti ricchi: la valle del Nilo, poi la Palestina e la Siria. A Beirut, come indicava l’insegna dello studio Bonfils, si potevano comprare “fotografie, curiosità di tutto l’Oriente”. Non insisteremo mai troppo su ciò che fu il lavoro dei pionieri, le difficoltà a cui furono sottoposti e i rischi che corsero. La cartolina, la stampa, il cinema, la televisione, l’inflazione della fotografia a colori hanno massificato dei luoghi altrimenti difficili da raggiungere, e resa comune la conoscenza di popoli inizialmente diffidenti della stessa fotografia e non favorevoli ad essere ritratti.

Questa esposizione e questo catalogo mostrano il momento miracoloso della scoperta del Mediterraneo attraverso la fotografia che ha dimostrato l’unità di un patrimonio naturale e culturale.