GIUSTIZIA (2ª)

GIOVEDÌ 10 FEBBRAIO 2000
539ª Seduta

Presidenza del Presidente
PINTO

        Interviene il sottosegretario di Stato alla giustizia Ayala.
        La seduta inizia alle ore 9.


IN SEDE CONSULTIVA SU ATTI DEL GOVERNO

Schema di decreto legislativo recante: «Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205» (n. 617)
(Parere al Presidente del Consiglio dei Ministri, ai sensi dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205: seguito e conclusione dell’esame. Parere favorevole con osservazioni)
        Riprende l’esame sospeso nella seduta pomeridiana di ieri.
        Il relatore FOLLIERI presenta ed illustra il seguente schema di parere:
        «La Commissione, esaminato lo schema di decreto legislativo n. 617, recante nuova disciplina dei reati in materia di imposta sui redditi e sul valore aggiunto ai sensi dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205, esprime per quanto di competenza parere favorevole con le seguenti osservazioni:

            A) L’articolo 1, comma 2, dello schema di decreto stabilisce che «le violazioni dipendenti da interpretazioni della normativa tributaria, o di disposizioni da essa richiamate, sono punibili soltanto in caso di palese infondatezza dell’interpretazione adottata».
        Si tratta di una previsione sulla cui portata e sulle cui implicazioni sembra potersi esprimere una condivisione di fondo, anche se probabilmente la formulazione della norma può sollevare alcune incertezze. In particolare si pone il problema di chiarire se l’infondatezza dell’interpretazione adottata da cui dipende la violazione sia da ricondurre all’area dell’errore sulla legge extrapenale che esclude la punibilità quando determina un errore sul fatto che costituisce reato ovvero se essa sia da ricondursi alla problematica dell’errore sulla legge penale, in considerazione del fatto che le norme tributarie sostanziali e formali avrebbero prevalentemente una funzione integratrice dei divieti stabiliti dalle norme penali e sarebbero pertanto, secondo un diffuso orientamento giurisprudenziale, da equiparare a queste ultime.
        Avuto riguardo al primo punto di vista, la mancata riproposizione del disposto dell’articolo 8 del decreto legge n. 429 del 1982 non può comunque mettere in discussione l’applicabilità del terzo comma dell’articolo 47 del codice penale. L’errore sulla legge extrapenale – che si risolvesse in un errore sul fatto che costituisce reato – escluderebbe necessariamente la punibilità per le ipotesi delittuose previste dallo schema di decreto, implicando la mancanza del dolo nel soggetto agente e, a tal fine, sarebbe del tutto irrilevante la palese infondatezza dell’interpretazione della normativa tributaria che ha portato all’errore, purché effettivamente il soggetto si sia rappresentato la propria condotta diversamente da quella vietata dalla legge penale. Una differente conclusione costituirebbe non solo una deroga ai principi generali in tema di responsabilità dolosa, ma sarebbe probabilmente censurabile sotto il profilo della violazione dei parametri di cui all’articolo 27, primo e terzo comma, della Costituzione. Sulla base di quanto precede sembra quindi preferibile riportare l’articolo 1, comma 2, dello schema di decreto in oggetto alla problematica dell’errore sulla norma penale (e sulle norme extrapenali le quali svolgono una funzione integratrice del precetto penale) configurando il disposto in esame come una previsione speciale rispetto a quella di cui all’articolo 5 del codice penale come risultante a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 364 del 1988. In altri termini, in tutte le ipotesi in cui la normativa tributaria viene considerata integratrice del divieto penale l’errore sulla stessa (e cioè l’infondatezza dell’interpretazione adottata) avrebbe sempre efficacia scusante, ed escluderebbe quindi la punibilità, con la sola eccezione dei casi in cui l’interpretazione prescelta risulti palesemente infondata. Si tratterebbe di una previsione che terrebbe conto delle specifiche caratteristiche di complessità della normativa in questione, sviluppando una linea già fatta propria dal legislatore, in tema di sanzioni amministrative, con l’articolo 6, comma 2, del decreto legislativo n. 472 del 1997, e successive modificazioni, e riprendendo alcuni spunti dottrinali volti a valorizzare il disposto dell’articolo 8 del decreto-legge n.429 del 1982 al di fuori della tradizionale area dell’errore su norma extrapenale che abbia determinato un errore sul fatto che costituisce reato. In tale prospettiva la formulazione della disposizione in esame potrebbe forse essere opportunamente completata, in modo da esplicitarne la portata, premettendo all’inizio del comma 2 un periodo così formulato: «Al di fuori dei casi in cui la punibilità è esclusa ai sensi dell’articolo 47, terzo comma, del codice penale,».

            B) In merito all’articolo 3 dello schema di decreto vanno manifestate perplessità innanzitutto per quel che concerne i limiti minimo e massimo della pena edittale ivi prevista. Al riguardo va segnalato come tali limiti siano superiori a quelli previsti dall’articolo 2621 del codice civile per il reato di falso in bilancio, nonché a quelli di cui all’articolo 640 del codice penale per l’ipotesi di truffa ai danni dello Stato, essendo in entrambi questi casi prevista la pena della reclusione da uno a cinque anni. Sotto un diverso profilo deve poi sottolinearsi che, nel sistema delineato nell’articolo 9 della legge n. 205 del 1999, le fattispecie diverse da quelle concernenti l’emissione o l’utilizzazione di documentazione falsa e l’occultamento o la distruzione di documenti contabili sono per definizione da ritenersi di minore gravità, come si desume dal fatto che solo per queste ultime ipotesi il legislatore delegante ha escluso la previsione di soglie di punibilità. Ne consegue che prevedere per una fattispecie diversa un trattamento sanzionatorio – la reclusione da due a sei anni – identico a quello previsto per le fattispecie di maggiore gravità di cui agli articoli 2 e 6 e più afflittivo di quello stabilito per i casi rientranti nell’articolo 10, dove viene prevista la reclusione da uno a cinque anni nonostante si tratti di reato per il quale la delega non consente di fissare alcuna soglia di punibilità, appare inconciliabile con le direttive ricavabili dalla delega stessa.
        Più specificamente, l’articolo 3 dello schema di decreto prevede la reclusione da due a sei anni per chiunque, al di fuori dei casi di cui all’articolo 2, con mezzi fraudolenti, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello reale o elementi passivi fittizi. La disposizione in esame, dopo aver specificato le soglie di punibilità relative al delitto in questione, in ossequio a quanto indicato dall’articolo 9, comma 2, lettere b) e c) della legge delega, stabilisce, al comma 2, che il fatto si considera commesso con mezzi fraudolenti quando «l’indicazione non veritiera si fonda sulla falsa rappresentazione degli elementi attivi o passivi nelle scritture contabili obbligatorie o nel bilancio, conseguente alla violazione degli obblighi di fatturazione o di registrazione dei corrispettivi relativi a cessioni di beni o prestazioni di servizi o ad altri artifici idonei ad ostacolare l’accertamento della falsità».
         Nella relazione di accompagnamento allo schema di decreto, la decisione di includere la violazione degli obblighi di fatturazione e di registrazione fra gli «altri artifici idonei a fornire una falsa rappresentazione contabile» viene giustificata assumendo che la scelta in sede parlamentare di non riportare l’espresso riferimento alla violazione degli obblighi contabili – contenuto nella lettera a) dell’articolo 1 del disegno di legge n. 2979 sul quale è modellata la previsione dell’articolo 9 della legge n. 205 del 1999 – abbia inteso soltanto espungere una previsione pleonastica e suscettibile di creare equivoci sul piano interpretativo, ma non collocare la violazione dei predetti obblighi al di fuori della nozione di «artifici idonei» sopra richiamata.
        Tale esito interpretativo, pur astrattamente compatibile con la lettera della previsione di cui all’articolo 9, comma 2, lettera a), n. 1 della legge delega, deve però essere verificato sia nel complessivo contesto dello stesso articolo 9, sia alla luce del sistema normativo in cui tale disposizione si inserisce, con specifico riferimento soprattutto ai precedenti in tema di frode fiscale rappresentati dalle sentenze della Corte Costituzionale n. 247 del 1989 e n. 35 del 1991, nella misura in cui si ritenga possibile ricavarne indicazioni utili ai fini della ricostruzione del significato della norma di delega.
         Sotto quest’ultimo profilo, va ricordato che con la sentenza interpretativa di rigetto n. 247 del 1989 la Corte Costituzionale, investita della questione di legittimità dell’articolo 4, primo comma, n. 7, del decreto-legge n. 429 del 1982, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 516 dello stesso anno, ebbe a rilevare che per integrare tale ipotesi di frode fiscale, analogamente a quelle contemplate dai numeri da 1 a 6, non era «sufficiente una condotta consistente nel solo omettere la dichiarazione di componenti positivi del reddito e (o) la sola dichiarazione della sussistenza di componenti negativi dello stesso reddito», ma era necessario che la condotta del delitto di cui al citato numero 7 si esprimesse «in forme oggettivamente artificiose, fraudolente». A tali conclusioni la Corte Costituzionale perveniva attraverso il raffronto fra la fattispecie di cui al numero 7 e quelle contravvenzionali di omessa e/o infedele annotazione e fatturazione previste dal secondo comma dell’articolo 1 dello stesso decreto-legge n. 429 del 1982 e, al riguardo, veniva rilevato che «soltanto la predetta interpretazione» – vale a dire quella che richiedeva per il delitto di frode fiscale di cui al numero 7 che la condotta si esprimesse in forme oggettivamente artificiose – «consente di conferire alla condotta ed all’intera fattispecie tipica del delitto in esame il più alto grado possibile di conformità al fondamentale principio di uguaglianza (evitando l’irragionevole disparità di trattamento, consistente nel sanzionare lo stesso comportamento, l’infedele dichiarazione, come semplice contravvenzione oblazionabile, quando ha ad oggetto redditi non soggetti ad annotazione contabile, e grave delitto quando concerne redditi di lavoro autonomo o d’impresa, derivanti da cessione di beni o prestazione di servizi)».
        Le considerazioni svolte dalla Corte, sebbene in relazione ad un diverso contesto normativo, appaiono però trasponibili al nuovo, delineato nell’articolo 9 della legge n. 205 del 1999, alla luce del fatto che anche quest’ultimo si caratterizza per la fondamentale distinzione fra l’ipotesi più grave della dichiarazione fraudolenta e quella meno grave della dichiarazione infedele. Infatti, sulla base delle indicazioni contenute nella menzionata sentenza n. 247 del 1989 (indicazioni ribadite dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 35 del 1991 con la quale la Corte confermando la propria posizione di fronte ad un diverso orientamento giurisprudenziale – si veda Cass. pen. Sez. un. 90/13954 – dichiarò costituzionalmente illegittimo l’articolo 4, primo comma, n. 7, del decreto-legge n. 429 del 1982, nella parte in cui non stabiliva che le condotte ivi previste «non bastando il semplice mendacio» dovessero concretizzarsi in forme artificiose) è la stessa previsione delle due distinte fattispecie di dichiarazione fraudolenta e dichiarazione infedele a comportare che a ciascuna di esse debba corrispondere una condotta diversa, caratterizzata da una differente e specifica nota di disvalore sul piano penalistico e se l’infedeltà non può non essere che la conseguenza di un comportamento omissivo o menzognero, ne consegue che per integrare l’ipotesi di dichiarazione fraudolenta deve necessariamente richiedersi, nella condotta del soggetto agente, un
quid pluris che non può che consistere nel carattere oggettivamente artificioso della condotta.
        Più in particolare, va evidenziato come le sentenze in questione equiparino, sotto il profilo del disvalore penalistico, tutti i comportamenti che si concretizzano in una omessa o incompleta indicazione di componenti positivi del reddito o nella falsa esposizione di componenti negativi (si tratti di omesse fatturazioni o sottofatturazioni, di una falsa rappresentazione della realtà comunque realizzata nelle scritture contabili obbligatorie ovvero nel bilancio o nel rendiconto allegato alla dichiarazione, oltre naturalmente delle dichiarazioni non veritiere contenute nella dichiarazione dei redditi) escludendo appunto che questi comportamenti – anche nell’ipotesi in cui tali violazioni fungano le une da riscontro alle altre – possano soddisfare il requisito del
quid pluris necessario per integrare l’ipotesi della frode fiscale (a questo proposito si ricorda, tra l’altro, che, secondo l’interpretazione contenuta nella sentenza delle sezioni unite della Cassazione sopra ricordata e disattesa poi nella sentenza della Corte Costituzionale n. 35 del 1991, per la configurabilità del delitto di frode fiscale di cui al n. 7 dell’articolo 4 del decreto-legge n. 429 sarebbe stata sufficiente «una qualsiasi falsa rappresentazione della realtà, comunque realizzata nelle scritture contabili obbligatorie, ovvero nel bilancio o nel rendiconto allegati alla dichiarazione, la quale agendo da riscontro probatorio alla falsa dichiarazione sia idonea a trarre in inganno il Fisco»).
        Dalle pronunce della Corte si ricava altresì che la circostanza che i percettori di determinati redditi siano soggetti, a differenza di altri, agli obblighi di annotazione contabile non può in alcun modo giustificare un trattamento dei comportamenti omissivi o mendaci di questi più severo di quello previsto per i comportamenti sostanzialmente analoghi posti in essere dai percettori di redditi per i quali non sono previsti tali obblighi di annotazione, in quanto, per questo aspetto, il diverso quadro normativo se, da un lato, implica che il soggetto agente realizzerà, a seconda dei casi, il comportamento omissivo o menzognero con modalità diverse, dall’altro, non può però avere alcuna idoneità a qualificare in termini di maggiore o minore rimproverabilità la sua condotta sul piano penalistico.
        Qualora si condividano le considerazioni che precedono, inquadrando le previsioni di cui all’articolo 9 della legge delega in tale contesto, sembra certamente preferibile ritenere, in mancanza di espresse previsioni in senso contrario, che il legislatore delegante abbia inteso collocarsi nella direzione già indicata dalla Corte Costituzionale, piuttosto che discostarsi da essa. Ciò troverebbe ulteriore conferma nel fatto che già una volta, nello specifico ambito considerato, il legislatore si è orientato in questo senso, con il decreto-legge n. 83 del 1991, convertito con modificazioni dalla legge n.  154 dello stesso anno, che ha sostituito l’intero articolo 4 del decreto-legge n. 429 del 1982. Infatti, la previsione di cui all’attuale lettera f) dell’articolo 4 (che ha preso il posto del precedente n. 7) non configura più tale ipotesi di frode fiscale come un delitto proprio dei percettori di redditi soggetti agli obblighi di annotazione contabile e, inoltre, fa esplicito riferimento a «comportamenti fraudolenti» che non possono concretizzarsi nella pura e semplice violazione degli obblighi contabili.
        È pertanto improbabile che il legislatore nella materia penale tributaria abbia utilizzato, nella legge n. 205 del 1999, la nozione di «fraudolenza» in un’accezione diversa ovvero che abbia voluto consentire al legislatore delegato l’introduzione di una fattispecie di frode fiscale da configurare come un reato proprio dei soggetti tenuti all’obbligo della contabilità (come invece viene definita l’ipotesi di cui all’articolo 3 dello schema nella stessa relazione di accompagnamento), considerato altresì che proprio la Corte Costituzionale ebbe a riconoscere, nella citata sentenza n. 35, la conformità dell’intervento legislativo del 1991 alle linee direttive che già emergevano della precedente sentenza n. 247 del 1989.

        Dai rilievi ora svolti sembra quindi doversi desumere che un’interpretazione dell’articolo 9, comma 2, lettera a) numero 1, della legge n. 205 del 1999 sistematicamente raccordata al disposto di cui al successivo numero 3 e al contesto ordinamentale in cui esso viene ad inserirsi porti alla conclusione che il legislatore delegante ha inteso escludere che le violazioni degli obblighi contabili possano di per sé concorrere a integrare la fattispecie delittuosa della dichiarazione fraudolenta e che la mancata riproduzione del riferimento esplicito alle predette violazioni contenuto nell’originario disegno di legge n. 2979 fornisca, in questa prospettiva, una significativa conferma sul piano testuale di tale esito interpretativo.
         Ne consegue che la formulazione del comma 2 dell’articolo 3 dello schema di decreto, in particolare laddove qualifica come «mezzi fraudolenti» la «falsa rappresentazione degli elementi attivi o passivi nelle scritture contabili obbligatorie o nel bilancio, conseguente alla violazione degli obblighi di fatturazione o di registrazione dei corrispettivi relativi a cessioni di beni o prestazioni di servizi», risulterebbe con tutta probabilità censurabile sia sotto il profilo dell’eccesso di delega, sia, anche a prescindere dalla violazione dei parametri di cui agli articoli 76 e 77, primo comma, della Costituzione, sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza di cui all’articolo 3, primo comma, della Costituzione.
        Inoltre, poiché l’esclusione delle dichiarazioni non veritiere fondate su violazioni degli obblighi contabili dall’area delle dichiarazioni fraudolente non fa venir meno la rilevanza penale di tali comportamenti che rientrano naturalmente fra quelli sanzionabili ai sensi dell’articolo 4 dello schema di decreto, in quanto dichiarazioni infedeli, la soluzione proposta non appare neanche incompatibile con l’ordine del giorno 9/1850 – B/1, presentato alla Camera dei deputati e accolto dal Governo, che impegna quest’ultimo a includere le violazioni degli obblighi contabili fra le fattispecie punibili ai sensi dell’articolo 9, comma 2, lettera a) della legge n. 205 del 1999, che contempla tanto le ipotesi di dichiarazione fraudolenta quanto quelle di dichiarazione infedele.
        Sempre sulla base delle considerazioni che precedono si suggerisce quindi che il legislatore delegato riformuli la previsione di cui al citato comma 2 dell’articolo 3 non più nei termini di un reato proprio dei soggetti obbligati alla tenuta della contabilità (e ciò, si ripete, al fine di evitare una disparità di trattamento che risulterebbe difficilmente giustificabile e non troverebbe nessun sostegno nella lettera dell’articolo 9 della legge n. 205), ma piuttosto definendo una fattispecie incriminatrice rispetto alla quale possono essere soggetti attivi i possessori di redditi di qualsiasi tipo e che, per le ragioni già esposte, risulti incentrata sul requisito di una condotta fraudolenta e oggettivamente artificiosa, necessariamente contraddistinta da un
quid pluris, rispetto alla ipotesi di mendace o omessa indicazione di componenti positivi o negativi del reddito.
        Nel corso dell’esame in Commissione, in alcuni interventi, la scelta del Governo di inserire le violazioni degli obblighi contabili fra gli artifici idonei ad ostacolare l’accertamento della falsità di cui al comma 2 dell’articolo 3 è stata giustificata rilevando che:

                1) l’omessa fatturazione o la sottofatturazione a sostegno di una dichiarazione dei redditi non veritiera costituirebbero comportamenti speculari a quelli previsti dall’articolo 2 consistenti nell’utilizzazione di fatture o altri documenti emessi a fronte di operazioni in tutto o in parte inesistenti. Proprio il carattere «speculare» delle due tipologie di comportamento considerate spiegherebbe la scelta di ricondurle entrambe nell’ambito della nozione di dichiarazione fraudolenta individuata dal citato articolo 9, comma 2, lettera a) n. 1 della legge n. 205;
                2) la violazione degli obblighi contabili risulta, in concreto, suscettibile di integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta solo se essa assume carattere sistematico, in quanto solo in presenza di comportamenti di questo genere è possibile che, siano superate le soglie di punibilità previste dalle lettere a) e b) del comma 1 dell’articolo 3 dello schema;
                3) le sentenze della Corte Costituzionale n.  247 del 1989 e n. 35 del 1991 non impedirebbero al legislatore di costruire una fattispecie di dichiarazione fraudolenta fondata sulla violazione degli obblighi contabili, purché vengano chiaramente definiti gli elementi differenziali rispetto all’ipotesi di dichiarazione infedele.

            Al riguardo si osserva che:
                1) l’argomento che fa leva sul fatto che l’omessa fatturazione o la sottofatturazione sarebbero condotte speculari all’uso di fatture o altre documenti per operazioni in tutto o in parte inesistenti non spiega quale differenza vi sia, ad esempio, fra il lavoratore autonomo e l’imprenditore che omettono di fatturare e dichiarano di meno e il proprietario di appartamenti che omette di indicare nella dichiarazione dei redditi tutti gli affitti percepiti in nero, denunciando così un reddito complessivo inferiore. Si tratta di comportamenti omissivi sostanzialmente identici cui fanno seguito dichiarazioni dei redditi non veritiere e che assumono una diversa configurazione soltanto perché diverse sono le norme che disciplinano le categorie reddituali considerate: un loro trattamento sanzionatorio differenziato appare pertanto privo di qualsiasi giustificazione;

                2) il carattere sistematico della condotta descritta dal comma 2 dell’articolo 3, desunto dalla necessità che venga superata la soglia di punibilità ivi indicata, non costituisce un elemento differenziale rispetto alle ipotesi di dichiarazione infedele di cui all’articolo 4, in quanto una soglia di punibilità – peraltro più elevata – è prevista anche da quest’ultima fattispecie;
                3) la costruzione dell’articolo 3 come un reato proprio dei soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili determina inevitabilmente per costoro un maggior rischio penale e quindi una disparità di trattamento nei confronti dei percettori di redditi per cui tali obblighi non sono previsti. Tale disparità di trattamento, come già osservato, sembra dar luogo proprio a quella ipotesi di violazione del principio di uguaglianza delineata dalla Corte Costituzionale nel paragrafo 6 dei «Considerato in diritto» della sentenza n. 247 del 1989.

        C) In merito all’articolo 6 dello schema in esame – che esclude la configurabilità del tentativo nei delitti di dichiarazione fraudolenta – va sottolineato come si tratti di una previsione ampiamente condivisibile e apprezzabile sia per la puntualità sotto il profilo tecnico, sia per la sua aderenza ai principi e criteri direttivi della legge delega. Si sottopone peraltro alla valutazione del legislatore delegato la possibilità di un ulteriore ampliamento di tale previsione volto ad escludere l’applicabilità dell’articolo 56 del codice penale in riferimento non solo alle fattispecie delittuose di cui agli articoli 2 e 3, ma anche a quelle di cui agli articoli 4 e 5 dello schema di decreto, al fine di evitare il rischio di eventuali censure di legittimità costituzionale, nel caso in cui si ritenga che possa dar luogo ad un’irragionevole disparità di trattamento mantenere la configurabilità del tentativo nelle ipotesi di cui agli articoli 4 e 5, essendo questa esclusa nelle più gravi ipotesi di cui agli articoli 2 e 3, e considerato altresì che tali previsioni incriminatrici tutelano il medesimo bene giuridico. La disposizione potrebbe essere riformulata nel seguente modo: «Gli atti diretti a commettere i delitti di cui agli articoli 2, 3 ,4 e 5 non sono comunque punibili ai sensi dell’articolo 56 del codice penale, se ad essi non segue l’omessa presentazione della dichiarazione o la presentazione della dichiarazione non veritiera».
        
D) Relativamente all’articolo 7, la 6ª Commissione permanente, nel formulare le proprie osservazioni sullo schema di decreto in titolo, ha evidenziato l’opportunità di un intervento volto ad escludere del tutto le valutazioni estimative presenti nelle scritture contabili o nel bilancio dal novero dei comportamenti penalmente sanzionabili ai sensi degli articoli 3 e 4 dello schema; al riguardo la Commissione giustizia ritiene pienamente condivisibile tale suggerimento e auspica che l’articolo venga modificato in tale direzione. Deve infatti sottolinearsi come le valutazioni in questione presentino elevati margini di opinabilità e come pertanto, in relazione alle stesse, risulterebbe estremamente difficile definire con chiarezza la linea di demarcazione fra valutazioni penalmente lecite e valutazioni penalmente illecite. Ne conseguirebbe un quadro normativo che, per gli aspetti considerati, potrebbe risultare incompatibile con il principio di determinatezza delle norme penali e suscettibile di implicare dubbi di legittimità costituzionale.
        Appare quindi preferibile una soluzione diversa che limiti la sanzionabilità delle valutazioni estimative all’area dell’illecito amministrativo (si veda l’articolo 6 del decreto legislativo n. 472 del 1997 per alcuni aspetti della disciplina in materia), escludendo che esse possano concorrere ad integrare le figure di reato previste dagli articoli 3 e 4 dello schema. Al riguardo, sembra opportuno sottolineare inoltre che tale soluzione coincide con quella già fatta propria dalla legislazione vigente, in quanto il riferimento ai «fatti materiali», contenuto nell’attuale articolo 4, comma 1, lettera f) del decreto-legge n. 429 del 1982, è diretto appunto ad escludere che le ipotesi di falsità inerenti a mere valutazioni possano essere ricomprese in tale fattispecie. Da questo punto di vista non sembra priva di rilievo la circostanza che nell’articolo 9 della legge n. 205 non è contenuto alcun espresso criterio di delega sulla base del quale fondare l’inclusione delle valutazioni estimative nell’area dei fatti penalmente rilevanti, dovendosi ribadire che – come ricordato dallo stesso legislatore delegato nella relazione di accompagnamento allo schema di decreto che dava attuazione alla delega contenuta nell’articolo 1 della legge n. 205 – alla stregua di un criterio in più occasioni recepito dalla Corte costituzionale, allorquando una legge delega demanda all’esecutivo la revisione di un intero istituto o comparto normativo, la valenza dei criteri di delega va apprezzata anche alla luce del panorama normativo esistente, laddove non consti una sicura intenzione parlamentare di innovare al medesimo.
        E) Per ciò che concerne l’adeguamento al parere del Comitato per l’applicazione delle norme antielusive, previsto dall’articolo 15 dello schema di decreto, si fa presente che il provvedimento richiama esplicitamente la procedura stabilita dai commi 9 e 10 dell’articolo 21 della legge 30 dicembre 1991 n. 413: i due commi citati consentono la richiesta di un parere preventivo alla direzione generale del Ministero delle finanze ovvero, sia in caso di mancata risposta sia qualora il contribuente non intenda uniformarsi alla risposta, al Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive, organismo incardinato, anche per la propria composizione, all’interno dell’Amministrazione finanziaria. Appare plausibile, alla luce di tale meccanismo procedurale, immaginare che il contribuente possa anche adeguarsi direttamente alla risposta della direzione generale del Ministero delle finanze, tralasciando un’ulteriore richiesta al Comitato, senza poter fruire della non punibilità del proprio comportamento; diversamente tale previsione scatterebbe in caso di adeguamento alla risposta del Comitato consultivo. Nonostante la disciplina della legge delega faccia espresso riferimento al parere del Comitato consultivo, appare logico riferire tale disposizione ad entrambe le fasi in cui si articola la procedura dell’interpello di cui all’articolo 21 della legge n. 413, e non esclusivamente al parere reso dal Comitato consultivo stesso. Ragion per cui, recependo una delle osservazioni formulate dalla 6ª Commissione permanente, si suggerisce di modificare l’articolo 15 equiparando, per ciò che concerne gli effetti di natura penale, il parere reso dalla direzione generale delle entrate, ovvero il silenzio-assenso di questa, a quelli del Comitato consultivo.
        
F) L’articolo 25 dello schema di decreto reca un articolato insieme di norme transitorie che, pur ispirate dal condivisibile intento di facilitare il passaggio dal vecchio al nuovo regime restringendo comunque in maniera significativa l’area del penalmente rilevante anche rispetto ai fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della emananda normativa, sembrano però sollevare alcune perplessità.
        Va preliminarmente ricordato che, in attuazione della previsione di cui all’articolo 6, comma 1, lettera d) della legge n. 205 del 1999, l’articolo 24 del decreto legislativo n. 507 del 1999 ha disposto l’abolizione del principio di ultrattività delle norme penali tributarie previsto dall’articolo 20 della legge n. 4 del 1929. Ne consegue che la successione nel tempo delle leggi penali tributarie è ora regolata dalle previsioni di cui all’articolo 2 del codice penale e che pertanto disciplinare mediante disposizioni ad hoc tale fenomeno in relazione ad ipotesi specifiche, pur rientrando nella discrezionalità del legislatore, è scelta che va comunque attentamente valutata, al fine di verificare se essa non possa determinare conseguenze incompatibili con il principio di uguaglianza in quanto proprio tale principio costituisce, come è noto, la ratio ispiratrice delle previsioni circa la retroattività delle norme penali più favorevoli al reo (apparendo contraddittorio e fonte di un’irragionevole disparità di trattamento continuare a punire o continuare a punire più severamente comportamenti che, alla luce di una valutazione del legislatore successiva alla loro commissione, o non sono più ritenuti meritevoli di pena ovvero sono considerati meritevoli di un trattamento sanzionatorio attenuato). In tale prospettiva occorre verificare se la disciplina che, ai sensi dell’articolo 25 dello schema, si applicherebbe ai fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della nuova normativa, risponda alla fondamentale esigenza di uguaglianza sopra delineata.
        Al riguardo deve evidenziarsi che, nelle ipotesi di cui ai commi 2 e 3 dell’articolo 25, l’applicazione delle disposizioni previgenti, escludendo l’operatività del principio di specialità e delle circostanze attenuanti speciali di cui agli articoli 13 e 14 dello schema, potrebbe comportare, in concreto, un trattamento sanzionatorio complessivo talora più severo di quello che verrebbe inflitto sulla base delle nuove disposizioni. Tale rischio appare poi estremamente elevato nelle ipotesi di cui al comma 4 dell’articolo 25, con riferimento ai fatti ricompresi nell’attuale lettera d) dell’articolo 4 del decreto-legge n. 429 del 1982, qualora ricorrano i presupposti per l’applicazione della circostanza attenuante di cui al comma 3 dell’articolo 8 dello schema di decreto, circostanza che ha un ambito di operatività ben più ampio di quella prevista dall’attuale comma 2 dell’articolo 4 del predetto decreto-legge n. 429. Infatti, qualora l’emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti riguardi un importo non rispondente al vero compreso fra 50 e 300 milioni, ciò comporterebbe, trovando applicazione la normativa previgente, la possibilità di infliggere la pena della reclusione da sei mesi a cinque anni, mentre, se trovassero applicazione le nuove disposizioni e quindi la circostanza attenuante di cui al citato comma 3 dell’articolo 8, la pena irrogabile andrebbe da sei mesi a due anni di reclusione.
        Per quel che concerne poi il comma 5 dell’articolo 25, prevedere che continuino ad applicarsi le disposizioni di cui al decreto-legge n. 429 implica un trattamento sanzionatorio deteriore nei casi – fose non numerosi ma non per questo trascurabili – in cui il fatto sia stato commesso da soggetti percettori di redditi non soggetti ad annotazione contabile, qualora rimanga fermo il disposto dell’articolo 3 dello schema che, come si è detto, configura il reato di dichiarazione fraudolenta come un reato proprio dei contribuenti soggetti agli obblighi di annotazione contabile (a differenza dell’attuale articolo 4, comma 1, lettera f) del decreto-legge n. 429). Da ciò infatti consegue che, nell’ipotesi considerata per i contribuenti non rientranti in quest’ultima categoria, qualora si applicassero le regole dell’articolo 2 del codice penale, ci si troverebbe in presenza di un’ipotesi di vera e propria
abolitio criminis.
        Nello stesso senso le osservazioni della 6ª Commissione permanente hanno evidenziato che le soglie di cui ai commi 2, 3 e 5 dell’articolo 25 sono commisurate all’ammontare dei componenti di reddito non dichiarati o dichiarati in misura non corrispondente al vero, e non all’ammontare dell’imposta evasa. Data la diversità dei parametri di riferimento, non può escludersi che, in concreto, il superamento, ad esempio, della soglia di trecento milioni di componenti reddituali non dichiarati, previsto dal comma 2, lettera b) dell’articolo 25, non implichi il superamento del limite di cento milioni di imposta evasa, individuati come soglia di punibilità dall’articolo 5 per la corrispondente ipotesi di omessa dichiarazione. Anche in questo caso, applicando l’articolo 2 del codice penale, la successione delle leggi penali nel tempo darebbe luogo ad un fenomeno di vera e propria abolitio criminis che invece viene esclusa dalla norma transitoria.
        Sulla base dei rilievi che precedono la normativa transitoria di cui all’articolo 25 dello schema di decreto sembra poter comportare, in alcuni casi, conseguenze applicative contraddittorie con le esigenze di parità di trattamento sottese al principio di retroattività delle disposizioni penali più favorevoli e tali conseguenze si produrrebbero inoltre in una maniera del tutto casuale. Per tali ragioni apparirebbe pertanto preferibile sopprimere l’articolo 25 dello schema di decreto, così da lasciare interamente alle previsioni dell’articolo 2 del codice penale l’individuazione delle norme penali da applicare ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore dell’emanando decreto legislativo».

        Prende quindi la parola il senatore RUSSO, il quale premette di aver preso conoscenza dello schema di parere redatto dal relatore e di averne apprezzato l’organizzazione sistematica e l’ampiezza delle argomentazioni. Esprime, tuttavia, alcune rilevanti perplessità a riguardo di alcune opinioni riportate nella stessa bozza.
        In primo luogo, condivide l’impostazione del Governo relativamente al livello delle pene previste nel Titolo II dello schema di parere e dichiara la propria contrarietà alla proposta del relatore di differenziare il livello delle pene previste dall’articolo 2 dello schema di decreto, con riferimento alla dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, da quello previsto dall’articolo 3 con riferimento alla dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici. Ricorda poi che nella seduta pomeridiana di ieri ha già manifestato perplessità sul fatto che, mentre l’articolo 2 dello schema prevede in ogni caso la punibilità della dichiarazione fraudolenta commessa mediante l’uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, l’articolo 3 prevede una soglia di punibilità pari a 100 milioni per le dichiarazioni fraudolente poste in essere mediante altri artifici. La diversa previsione normativa potrebbe risultare difficilmente giustificabile, in quanto, al di sotto della soglia indicata nell’articolo 3, si esclude la punibilità di condotte consistenti nell’uso di documentazione falsa – diversa dalle fatture e dagli altri documenti rappresentanti operazioni in tutto o in parte inesistenti – che potrebbero in concreto risultare più gravi di alcune condotte rientranti nell’ambito di applicazione dell’articolo 2 ed in riferimento alle quali la punibilità non sarebbe mai esclusa. A tal riguardo, sarebbe a suo avviso preferibile costruire un’unica ipotesi di reato e prevedere l’operatività della soglia di punibilità, fatta eccezione per i casi in cui vi sia documentazione falsa, in riferimento ai quali la fissazione di una soglia è esclusa dalla legge delega.
        Anche con riferimento alle violazioni di obblighi contabili, ritiene di non poter condividere la proposta del relatore di escludere la previsione in base alla quale le stesse possono di per sé concorrere ad integrare la fattispecie delittuosa della dichiarazione fraudolenta. Osserva, infatti che le sentenze della Corte Costituzionale n. 247 del 1989 e n. 35 del 1991, dalle quali il relatore trae argomentazioni a sostegno della proposta da lui formulata, si riferiscono ad un impianto sistematico-normativo diverso da quello sul quale si trova ad operare l’attuale legislatore delegato.
        Per quanto attiene, infine, alla norma transitoria contenuta nell’articolo 25 dello schema di decreto, pur condividendo le osservazioni del relatore circa i possibili inconvenienti derivanti da tale disposizione, ritiene eccedente la proposta, contenuta nello schema di parere, di mera soppressione dello stesso articolo 25, che dovrebbe però, a suo avviso, essere opportunamente modificato al fine di evitare ogni rischio di disparità di trattamento.

        Il senatore FASSONE condivide le perplessità del senatore Russo, rilevando come, relativamente alla problematica della violazione degli obblighi contabili, il relatore dia conto nello schema di parere delle contrarie opinioni manifestate nel corso della discussione, ma svolga alcune personali controdeduzioni che tolgono rilievo alle predette contrarie opinioni.
         A proposito della problematica delle valutazioni estimative di cui all’articolo 7 dello schema di decreto, osserva poi come tale disposizione sancisca, al primo comma, la non punibilità in via ordinaria delle valutazioni estimative rispetto alle quali i criteri concretamente applicati siano stati comunque indicati nel bilancio o nei documenti ad esso allegati. Nondimeno, qualora le valutazioni estimative presentino uno scostamento particolarmente rilevante rispetto a quelle ritenute corrette, non vi è ragione di non ritenerne il carattere penalisticamente rilevante, atteso che le stesse possono costituire un facile ed utile strumento per realizzare gravi condotte delittuose di evasione.
        Il relatore FOLLLIERI sottolinea che la proposta contenuta nello schema di parere per quel che concerne il tema delle valutazioni estimative recepisce anche le osservazioni sul punto della 6ª Commissione permanente.
        Ha di nuovo la parola il senatore RUSSO, il quale avanza la proposta che il parere sia formulato in maniera più neutrale, limitandosi a riportare le opinioni espresse da una parte politica o da singoli componenti della Commissione e le opinioni contrarie manifestate da altre parti politiche o da singoli senatori.
        Il senatore Antonino CARUSO dà atto al relatore Follieri di aver presentato uno schema di parere intellettualmente onesto, che riporta fedelmente anche le opinioni divergenti rispetto a quelle del relatore espresse da alcuni componenti della Commissione, pur formulando naturalmente delle controdeduzioni rispetto a queste ultime.

        Ritiene quindi che la Commissione debba assumere una posizione definita e propone che si ponga ai voti il conferimento del mandato al relatore nei termini risultanti dallo schema di parere illustrato.
        Il senatore CENTARO, intervenendo nel merito dello schema di decreto legislativo, rileva alcune incongruità relative al coordinato disposto degli articoli 8 e 9. In particolare, sottolinea il rischio di alcune contraddizioni sistematiche che potrebbero determinarsi con particolare riferimento alle ipotesi di connessione di procedimenti.
        Il relatore FOLLIERI, in riferimento alle osservazioni testé avanzate dal senatore Centaro, sottolinea che le disposizioni di cui all’articolo 9 sono volte a raccordare sistematicamente la fattispecie di cui all’articolo 8 con quella di cui all’articolo 2.
        Il presidente PINTO propone che la Commissione deliberi di dare mandato al relatore di elaborare un parere favorevole sullo schema di decreto legislativo, tenendo conto delle osservazioni emerse nel corso del dibattito.
        Il senatore RUSSO si dichiara disponibile nei confronti della proposta testé formulata dal presidente Pinto, ma chiede che nel parere si dia conto in maniera oggettiva delle diverse opinioni emerse nel corso del dibattito sui singoli punti, senza una esplicita presa di posizione in favore dell’una o dell’altra opinione.
        Il senatore Antonino CARUSO si dichiara favorevole al conferimento del mandato al relatore a redigere un parere nei termini rappresentati nello schema dallo stesso relatore predisposto.
        Concordano con il senatore Antonino Caruso, i senatori CENTARO, CALLEGARO, GASPERINI e MILIO.
        Il relatore FOLLIERI prospetta una modifica dello schema di parere da lui predisposto, da inserire subito dopo il punto in cui sono riportate le opinioni, emerse nel corso dell’esame in Commissione, a sostegno della scelta del Governo di inserire le violazioni degli obblighi contabili tra gli artifici idonei ad ostacolare l’accertamento della falsità, di cui al comma 2 dell’articolo 3 dello schema di decreto. In particolare, sostituisce l’espressione «Al riguardo si osserva che:» con l’altra: «Al riguardo un’altra parte della Commissione, tra cui il relatore, osserva che:».
        Interviene quindi il senatore SENESE il quale propone che la Commissione conferisca mandato al relatore di formulare un parere favorevole sullo schema di decreto legislativo con osservazioni che, relativamente ai punti che hanno maggiormente costituito oggetto di dibattito, diano anche conto delle diverse tesi emerse e, con riferimento alle tesi del relatore medesimo, puntualizzino che le stesse sono riportate nel parere come tesi di una parte della Commissione.
        Dopo che il presidente PINTO ha accertato la sussistenza del numero legale, la Commissione conferisce infine mandato al relatore FOLLIERI a redigere un parere favorevole con osservazioni, nei termini emersi dal dibattito secondo le indicazioni da ultimo avanzate dal senatore SENESE.


        
La seduta termina alle ore 9,30.