Il Presidente: Articoli

Pera lancia un appello al Polo "Basta risse, fate le riforme"

La Repubblica

1 Aprile 2004

ROMA - «E' un momento molto delicato..., Marcello Pera è preoccupato. Lui, laico «popperiano», ha appena ricevuto nel suo ufficio il cardinal Camillo Ruini. Legge i resoconti della polemica tra il premier e il vicepremier sul fisco. Leg­ge i flash di agenzia sulla bagarre scatenata dalla Lega a Montecitorio. E scuote la testa: «Questi scon­tri, queste liti interne alla maggioranza - dice il presidente del Senato - sono un'altra conferma: que­sto paese ha un bisogno urgente delle riforme. Vedo un parallelismo tra la situazione dell Italia e quella dell'Europa. Nella Ue le mancate riforme economiche e la scarsa coesione dipendono anche dalla mancata approvazione della Costituzione europea e dall'assenza di istituzioni "cogenti ". Allo stesso modo, in Italia, le tensioni nella maggioranza del Polo, analoghe a quelle dell'Ulivo che l'aveva preceduto, dipendono anche, e in gran parte, dalla mancata riforma della nostra Costituzione».

Scusi, presidente, ma che c'entra la Costituzione con lo scontro tra Berlusconi e Fini o con il caos scatenato dalla Lega?

«È l'ennesimo esempio degli scarsi poteri istituzionali del premier. Per questo la riforma costituzionale è la condizione necessaria, anche se non sufficiente, per far sì che tutto il sistema politico sia più efficiente e più capace di garantire il cambiamento. Questa occasione della riforma costituzionale non deve essere perduta. E nell'agenda politica da 20 anni, ed è un'esigenza largamente condivisa. Nella passata legislatura si andò vicini al traguardo. Stavolta non si può fal­lire. Le mancate riforme hanno un costo elevatissimo. Tanto salato quanto quello delle riforme sba­gliate».

Ma secondo lei il testo delle riforme uscito da Palazzo Mada­ma è una riforma giusta? O non è un edificio traballante, tenuto in piedi solo dal ricatto della Lega sulla devolution?

«Certo, la Lega ha insistito mol­to su questo tema. Ma va ricordato che la devolution faceva parte del programma di governo sottoscrit­to dalla Cdl. E comunque la svolta federalista non è di oggi. Era già stata compiuta con la riforma del Titolo V varata dal centrosinistra ne12001. Quella riforma, a mio pa­rere, aveva un difetto: estendeva troppo l'area delle competenze "concorrenti" tra Stato e regioni. Da un minimo di 20 a un massimo di 40. E poi era una riforma incom­pleta: non prevedeva il Senato fe­derale».

Adesso la nuova riforma è com­pleta. Peccato che la devolution rischi di sfasciare l'Italia.

«Non lo credo. Nell'insieme, l'impianto della devolution mi pa­re ragionevole. Con un solo ele­mento di ambiguità: la polizia lo­cale. Non è chiaro se si tratti di po­lizia amministrativa o di altra na­tura. Questo è un punto che andrà precisato».

Non è il solo. I punti oscuri del­la riforma sono parecchi. A parti­re dal premierato. Non Ie pare una formula confusa e sbilanciata?

«No, non mi pare. Per altro, al di là delle divergenze emerse tra i po­li, a me sembra che nella sostanza i punti di convergenza sono parec­chi. Proprio il premierato ne è l'e­sempio più eclatante».

A giudicare dalle critiche del centrosinistra non si direbbe. C'è un «super premier» con poteri senza uguali in Europa.

«Non sono d'accordo. Il premierato che esce da questa rifor­ma è addirittura più debole e blan­do di quello proposto dal senatore Salvi in Bicamerale. Il testo appro­vato in Senato mi sembra equilibrato, salvo su un unico punto: c'è un eccesso di rigidità. Si prevede, ad esempio, che se il premier vie­ne sfiduciato, il Parlamento si sciolga così come del resto accade per un consiglio comunale o re­gionale. Potrebbe essere utile una formula più flessibile...».

E le sembra tutto qui? Con i po­teri di scioglimento il premierato all'italiana non vira pericolosa­mente verso il plebiscitarismo?

«Il premierato è una formula che accompagna l'evoluzione del sistema politico e risponde alle at­tuali esigenze del bipolarismo. C'è una contesa elettorale tra due lea­der. C'è un leader che vince, e di­venta premier grazie a un patto di coalizione tra alleati. C'è un eletto­rato che sceglie e chiede al primo ministro di governare, di attuare il programma e di non cadere vitti­ma dei ribaltoni. La riforma esau­disce ciascuna di queste esigenze. Assicura stabilità».

In compenso riduce il presi­dente della Repubblica a un no­taio.

«Attenzione: se si sceglie il siste­ma del premierato, e se il primo ministro è scelto dai cittadini, non si può immaginare un presidente della Repubblica che conservi cru­ciali funzioni "politiche". Si cree­rebbe una diarchia pericolosa. La cosa importante è che si preservi­no le funzioni di garanzia del Capo dello Stato. E anche in questo la riforma va nella direzione giusta».

Ma che fine fa il sistema di bi­lanciamento dei poteri?

«Nel premierato il bilancia­mento più importante tra i poteri non è con il presidente della Re­pubblica, ma è tra il primo mini­stro e il Parlamento. Da questo punto di vista la riforma è carente: occorre ad esempio una più ac­centuata indicazione del ruolo co­stituzionale del capo dell'opposi­zione. Che questo sia demandato al Regolamento della Camera è importante, ma sí dovrebbe fare un passo ulteriore».

L'altra nota dolente della rifor­ma è il Senato federale.

»È vero. Il testo approvato tra­sforma il Senato federale in un mi-notauro: una testa americana in­nestata su un corpo italiano. Qui l'accoglimento da parte della maggioranza delle proposte dell'opposizione ha prodotto un risultato negativo. Al Senato, anche su richiesta del centrosinistra, so­no state attribuite competenze va­stissime: dall'antitrust alla disci­plina dei mercati, dalla Legge Fi­nanziaria ai diritti dì libertà. Se­condo i primi calcoli, si tratta dei quattro quinti dell'intera legisla­zione. In questo modo si è creata un'assemblea eiettiva molto po­tente, che sfugge alla normale dia­lettica tra governo, maggioranza e opposizione. Al vecchio impianto bicameralista si è aggiunto quello nuovo federalista: un "Senato bi­camerale-federale", un vero para­dosso. Il nuovo Senato, eletto tra l'altro contestualmente alle regio­ni, acquisisce un vero e proprio diritto di veto rispetto all'esecutivo. Rischiamo di trovarci un governo che non può governare, se non ne­goziando ogni volta con il Senato. Una prassi che avrebbe costi enor­mi per il Paese. E che oltre tutto fa­rebbe esplodere i conflitti di attri­buzione tra Stato e regioni sul te­ma centrale dell'interesse nazio­nale. Si finirebbe così per trasferi­re surrettiziamente dal Parlamen­to alla Consulta una funzione impropria di "sindacato politico". E importante la disponibilità di­mostrata dai senatori D'Onofrio e Calderoli su questo punto».

Al di là del merito, resta un pro­blema di metodo. Una «grande riforma», che riscrive 40 articoli della Costituzione, imposta dalla maggioranza «contro» l'opposi­zione, che già minaccia il ricorso al referendum confermativo.

«Io credo che buona parte della conflittualità tra i poli su questa riforma dipenda dalla campagna elettorale, piuttosto che da una ir­riducibile divergenza sul merito. Detto questo, questa è la riforma più importante nella storia della Repubblica. E assolutamente ne­cessario che, dì fronte a un cam­biamento così vasto, i cittadini esprimano il loro giudizio. Il refe­rendum non è affatto una minac­cia incombente, ma piuttosto una garanzia necessaria».

Ma è possibile che in questo Paese non ci sia traccia di quello «spirito costituente» più volte in­vocato da Ciampi? Lei, come seconda carica dello Stato, non si sente a disagio nel vedere una maggioranza che riscrive le rego­le fondamentali a suo piacimen­to?

«Senta, anch'io soffro molto il malessere politico che c'è nel Pae­se. Anch'io avverto la pesantezza dei rapporti tra maggioranza e op­posizione. E non posso non vede­re che il climapolitico, in questa le - gislatura, è peggiorato rispetto al­la precedente. E come se il bipola-rismo, in Italia, fosse vissuto come un conflitto continuo e come una sistematica delegittimazione del­l'avversario. Questa è una patolo­gia tutta italiana: nei sistemi bipo­lari che funzionano nessuno deve temere la vittoria dell'altro. Nes­suno deve pensare che, se vince, il Paese ascende al cielo, mentre, se perde, discende agli inferi».

Perfetto. Ma non crede che questa patologia dipenda soprat­tutto dalle troppe forzature di Berlusconi?

»È un problema di cultura poli­tica e di disabitudine all'alternan­za. Ci coinvolge tutti, non solo Ber-lusconi. Certo, la tensione è au­mentata da quando governa Ber-lusconi, accusato di essere il "pa­drone" di tutto, dalle televisioni al calcio...».

«Accusato», dice lei? Che Berlusconi sia proprietario di Mediaset come persona fisica, e azionista della Rai come capo del governo, è un dato di fatto, non un'opinio­ne.

«Certo. Ma la portata del feno­meno, e gli effetti che ha sul siste­ma, sono di gran lunga inferiori al tono di chi lo denuncia. Vorrei ri­cordare che Berlusconi, con le stesse tv che possiede oggi, ha per­so le elezioni nel '96...».

Insomma, lei sta dicendo che il conflitto di interessi è un'inven­zione della sinistra?

«Niente affatto. Il conflitto di in­teressi esiste, e la legge all'esame del Parlamento, che a mio parere è il meglio che sì possa immaginare nelle condizioni date, va approva­ta al più presto. Ma ritengo che il conflitto di interessi, sul piano po­litico, non sia così decisivo come molti si ostinano a credere».

A parte l'errore di chi, da sini­stra, continua a evocare il «regi­me», lei non crede che l'esempio più nefasto di «delegittimazione sistematica dell'avversario» sia rappresentato dalla campagna del Cavaliere contro i «comunisti»?

»"Regime", "comunismo": siamo sempre all'interno dello stesso circolo vi­zioso, fatto di accuse che, co­me forze newto-niane, sono uguali e contra­rie. Il guaio è che in questo Paese manca una cul­tura laica: siamo ancora som­mersi di ideolo­gia...».

Ma il centrosinistra riformista riconosce a Berlusconi il diritto di governare. È Berlusconi che continua a ripetere che se questa opposizione governasse sarebbe la fine della libertà.

«Gli eccessi ideologici ci sono in tutti e due i poli. Mi chiedo spesso, e tanto più in campagna elettorale, come facciano i cittadi­ni a scegliere e a capire le differen­ze tra un programma politico e l'altro, distratti come sono dalle continue polemiche e dagli insulti intollerabili. Per questo rinnovo il mio appello ai poli: il Paese ha bi­sogno urgente di riforme incisive. Da quelle istituzionali, da cui tutto discende, a quelle più specifiche: pensioni, scuola, mercato del la­voro, risparmio. Si facciano in fret­ta, e basta con le risse. Gli esami li faranno alla fine gli elettori, libera­mente».

Tremonti, su certe riforme cru­ciali e «no-partisan», aveva pro­posto un «metodo repubblica­no». Lei ci crede?

«Da vecchio liberale, faccio fati­ca a capire cosa sia il "metodo re­pubblicano". E comunque penso che gli accordibipartisan, che pos - sono funzionare per la riscrittura delle regole, su riforme specifiche non servano necessariamente a migliorare la democrazia. Certo, se ci sono è meglio. Ma se non ci so­no, non ci si deve fermare. Venia­mo da una lunga stagione in cui il principio che oggi viene chiamato "bipartisan" si declinava come "consociativismo". Non vorrei che nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica si fosse solo passati dal nostro dialetto all'in­glese, senza cambiare niente».

Berlusconi, del cambiamento, è stato il simbolo dopo la clamo­rosa vittoria del 2001. Lei non cre­de che i risultati modesti dell'a­zione di governo, sommati ai con­tinui dissidi nella maggioranza, dimostrino che la spinta propul­siva di quel «nuovo centrode-stra», modernista, efficientista e liberista, si è ormai esaurita?

«Sì, vedo anch'io il rischio di un affievolimento della proposta po­litica della Cdl. Ma, ahinoi, è spe­culare all'affievolirsi della pro­spettiva politica che, sull'altro fronte, è rappresentata dal rifor­mismo: fintanto che questa cultu­ra sarà "prigioniera" delle ambi­guità e dei ricatti della sinistra massimalista e girotondista, non ci saranno passi avanti significati­vi nella democrazia dell' alternanza».



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