DISEGNO DI LEGGE
d'iniziativa dei senatori GIOVANELLI, CARCARINO, POLIDORO, MAGGI, BRIENZA,
THALER AUSSERHOFER, VELTRI, MANTICA, RESCAGLIO, IULIANO, STANISCIA, CONTE,
MICELE, GAMBINI, LARIZZA e BUCCIARELLI
COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 31 MAGGIO 1999
Norme di interpretazione autentica della definizione di rifiuto di cui all'articolo 6, comma 1, lettera a) , del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22
ONOREVOLI SENATORI. - L'articolo 6, comma 1, lettera a) , del
decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni,
relativo alla gestione dei rifiuti, ha trasfuso nel nostro ordinamento la
definizione comunitaria di "rifiuto", di cui all'articolo 1, comma 1,
lettera a) , della direttiva 91/156/CEE del Consiglio, del 18
marzo 1991. In base a tale definizione, per "rifiuto" si intende "qualsiasi
sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'allegato A e
di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi".
La lettura di tale allegato A denota che esso si compone di due parti:
1) la prima reca 16 categorie di rifiuti, contraddistinte ciascuna con la
lettera suffisso "Q" seguita da numeri progressivi da 1 a 16;
2) la seconda reca il catalogo europeo dei rifiuti (CER), vale a dire la
nomenclatura per l'identificazione uniforme in tutti i Paesi dell'Unione
europea delle singole tipologie di rifiuti.
Con riguardo alla citata prima parte si puó osservare che la
categoria "Q 16" é rappresentata da "qualunque sostanza, materia o
prodotto che non rientri nelle categorie sopra elencate", cioé le
prime quindici. Si é, dunque, in presenza di una categoria che,
stanti le sue caratteristiche di residualità rispetto al resto,
comprende tutto.
La definizione di rifiuto, dunque, si connota di un'ampiezza tale da
renderla piuttosto vaga. Il che rende parimenti vago ed incerto il campo di
applicazione della disciplina sui rifiuti dettata dal decreto legislativo n.
22 del 1997.
Il tutto risulta tanto piú grave laddove si pensi alle pesanti
conseguenze di natura sanzionatoria (penale e/o amministrativa) che sono
previste per la non corretta gestione dei rifiuti. Infatti, la suindicata
vaghezza della definizione fa apparire l'apparato sanzionatorio come non
rispondente al principio di legalità ( nullum crimen sine
lege ). Infatti, non essendo chiaro il precetto, non si puó,
senza qualche rischio, ricollegare ad esso una specifica sanzione; salvo il
concretarsi della non apprezzabile vigenza di sanzioni penali in bianco.
La suindicata vaghezza si amplifica a fronte della presenza, nell'ambito
della definizione in argomento, del termine "disfarsi". Cosa significa
esattamente tale termine? La definizione che di esso fornisce il dizionario
della lingua italiana consente di individuarla nel "liberarsi di qualcosa di
inutile o di qualcuno molesto". Qualcosa di inutile, ma per chi? Dove si
colloca tale "liberazione": a monte o a valle dell'utilità di
qualcuno o di qualcosa?
Dalla combinazione di questi elementi, come é evidente, deriva la
impossibilità di individuare l'esatto campo di applicazione della
disciplina. Tra tali due elementi, quello relativo al "disfarsi" presenta,
per giunta, un tasso di incertezza che (a parte la definizione che di esso
fornisce il vocabolario della lingua italiana) alligna nella mancanza di
elementi interpretativi di fonte giurisprudenziale. Al riguardo, si ricorda
che la Corte europea di Lussemburgo, con sentenza del 18 dicembre 1997
(procedimento C-129/96), riteneva che "Dal tenore dell'articolo 1, lettera
a) , della direttiva 75/442, come modificata, discende in primo
luogo che l'ambito di applicazione della nozione di rifiuto dipende dal
significato del termine "disfarsi"". Nonostante tale ricognizione positiva
sulla centralità del problema, la Corte non forniva alcuna
interpretazione del termine "disfarsi". Tale individuazione risulta ancora
piú fondamentale laddove si pensi che nella medesima sentenza la
Corte europea proseguiva ritenendo che ".... pos sono costituire rifiuti ai
sensi dell'articolo 1, lettera a) , della direttiva 75/442, come
modificata, sostanze che fanno parte di un processo di produzione. Tale
conclusione non pregiudica la distinzione, che occorre fare, come
giustamente hanno sostenuto i governi belga, tedesco, olandese e del Regno
Unito, tra il recupero dei rifiuti ai sensi della direttiva 75/442, come
modificata, e il normale trattamento industriale di prodotti che non
costituiscono rifiuti, a prescindere peraltro dalla difficoltà di
siffatta distinzione".
La Corte europea, dunque, dà esplicito atto della
centralità del termine "disfarsi" ed é proprio lí
dunque, che é necessario venga puntata l'attenzione del legislatore.
Il rifiuto, in quanto rivesta una utilità economica e formi
oggetto di specifici diritti (proprietà, possesso), é un bene
e come tale va concepito. D'altro lato, nulla che abbia un valore economico
(pur minimo) sarà gettato in discarica.
Oggi al concetto di "disfarsi" si puó attribuire il significato di
"distogliere la materia da un ciclo produttivo per farla confluire in un
altro": é il caso classico dei mercuriali (di cui all'allegato 1 al
decreto del Ministro dell'ambiente 5 settembre 1994, pubblicato nel
supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale
n. 212 del 10 settembre 1994, che ex
articolo 49, comma 2, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, diventeranno
rifiuti a tutti gli effetti dal 1º luglio 1999). Oppure quello di
"riportare la materia dentro la catena di utilità potenziale".
É evidente che la certezza del rientro della materia nella catena di
utilità dipende dalla convenienza economica. Quindi, non tanto dal
fatto che qualcuno "se ne disfi" quanto dal fatto che qualcun altro la
"utilizzi".
Certamente, in ragione dell'emergenza ambientale (salvaguardia delle
fonti di approvvigionamento) possono essere attuate delle forzature,
incentivando processi di recupero non convenienti affinchè vengano
comunque realizzati. Ma il risultato, in termini di processo economico, non
cambia: il recuperatore, col supporto dell'incentivo, agisce in regime di
convenienza. Il concetto di "disfarsi", quindi, si declina in funzione
dell'opportunità economica. E quando il "disfarsi" si orienta a
consolidate prospettive di recupero, esso assume sempre di piú la
valenza di "transazione economica".
Per la difficoltà di calare la definizione "rifiuto" nel mondo del
reale é appena il caso di ricordare che la VIII Commissione della
Camera (Ambiente, territorio e lavori pubblici) é addirittura giunta
ad approvare, il 29 settembre 1998, la risoluzione n. 7-00525 con la quale
ha impegnato (tra l'altro) il Governo a:
elaborare, sentite le competenti Commissioni parlamentari, una
proposta del nostro Paese che contenga chiari criteri per la definizione di
"rifiuto" e del termine "disfarsi", nonchè per la distinzione tra
"rifiuto-prodotto";
attivarsi presso le competenti sedi dell'Unione europea perchè
siano discusse e definitivamente emanate linee guida chiare per la soluzione
conclusiva dei problemi suddetti, riconosciuti da tempo dal Consiglio, dal
Parlamento, dalla Corte di giustizia e dalla Commissione, al fine di evitare
distorsioni intracomunitarie della concorrenza e barriere al commercio
interno, a causa di divergenti interpretazioni della definizione di
"rifiuto" da parte degli Stati membri.
A tutt'oggi, peró, il Governo non ha assunto iniziative in
proposito, ed é altresí giusto rilevare che la materia,
trattandosi di questione non di dettaglio, ma di principio e fondativa di un
ampio corpus
normativo, é di precipua competenza parlamentare.
Per dare una idea della urgenza e della concretezza del problema della
definizione di rifiuto, basta per esempio ricordare il fatto che l'articolo
4, comma 21, della legge 9 dicembre 1998, n. 426, ha dovuto espressamente
stabilire che gli scarti di lavorazione dei metalli preziosi avviati in
conto lavorazione per l'affinazione presso banchi di metalli preziosi non
rientrano nella definizione di rifiuto e, quindi, non sono soggetti al de
creto legislativo n. 22 del 1997. Il Parlamento, dunque, viene spesso
chiamato a misurarsi con la definizione caso per caso.
La situazione non é congrua anche a fronte della previsione della
definizione di nuove figure tipiche di reato che si propongono per il
settore della tutela ambientale (si veda l'atto Senato n. 3960). É
diritto degli operatori e dei cittadini sapere meglio in quale ambito
muoversi; sapere meglio dove finisce un bene e dove, invece, comincia un
rifiuto. Questo puó essere fatto solo attraverso l'interpretazione
autentica del termine "disfarsi" contenuto nella definizione di "rifiuto" di
cui all'articolo 6, comma 1, lettera a) , del decreto legislativo
n. 22 del 1997.
A tale interpretazione il legislatore ha il dovere di fornire un
contenuto tipicamente normativo (non storico o ricognitivo), perchè
deve servire a misurare l'ambito ed il modo di applicazione della disciplina
dettata con quella specifica disposizione. Ció al fine di consentirne
la concreta attuazione nelle varie situazioni che si verificano.
Oggetto dell'interpretazione autentica che si propone, dunque, é
solo e soltanto il termine "disfarsi" contenuto nel testo dell'articolo 6,
comma 1, lettera a) , del decreto legislativo n. 22 del 1997, la
cui esatta portata va determinata considerando la disposizione in sè
e per sè, come parte dell'ordinamento in cui é inquadrata,
come elemento costitutivo della totale disciplina da cui il consorzio civile
é retto in un determinato momento storico e nel suo sviluppo
(principio sistematico ed evolutivo dell'interpretazione).
Come tale, l'interpretazione autentica ha valore retroattivo, ma non
incide sul giudicato formatosi sotto la vigenza della legge priva di
interpretazione autentica. Non é possibile ricorrere a linee-guida;
infatti, in tal senso l'OCSE ha già cercato di cimentarsi con
risultati pari allo zero. L'esito é stato quello di un documento
disconosciuto in sede di Unione europea. Dal canto suo la Commissione delle
Comunità europee é alla ricerca di soluzioni caso per caso, ma
ancora non si é addivenuti ad alcuna proposta concreta di direttiva
(si pensi agli abiti usati o alla carta).
Laddove si pensi di mutare la definizione contenuta nell'articolo 6,
comma 1, lettera a) , del decreto legislativo n. 22 del 1997, la
Commissione europea avvierebbe nei confronti del nostro Paese procedura di
infrazione. Del resto la Commissione continua ad imputarci una definizione
di rifiuto "all'italiana", nonostante che numerosi Stati membri interpretino
il "disfarsi" come "abbandonare" (ad esempio Gran Bretagna e Francia): a
tali Stati, peró, nulla viene eccepito.
Il Parlamento, dunque, viste le gravi ripercussioni sui settori
produttivi della mancata individuazione della linea di demarcazione tra
"prodotto" e "rifiuto" (scarsa accettazione del bene prodotto con il rifiuto
da parte del pubblico, quindi decremento dei prezzi; oneri amministrativi e
gestionali ingiustificati a carico delle imprese e conseguente loro
"disaffezione" nei confronti del recupero con privilegio della discarica),
deve prendere una iniziativa seria che ponga l'Italia al riparo da
ripercussioni europee ed esercitare il suo potere sovrano di definire cosa
sia un "rifiuto" in modo che, lasciando immutata la definizione comunitaria,
se ne interpretino meglio i contenuti. É questo l'unico modo per dare
a tale definizione un senso, calandola nella realtà senza far vivere
piú i destinatari della norma nell'amletico dubbio tra "rifiuto
sí-rifiuto no" che equivale a dire "sanzione sí-sanzione no" e
consentendo una tutela dell'ambiente migliore, perchè favorita dal
piú rapido e piú facile riutilizzo di beni e materiali che
diversamente rischiano di finire in discarica o in altre forme di
distruzione o abbandono, che non possono avere certo un impatto ecologico
migliore del riutilizzo.
DISEGNO DI LEGGE |
Art. 1.
1. Il termine "disfarsi", di cui all'articolo 6, comma 1, lettera
a),
del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni,
si interpreta nel senso che:
a) in caso di smaltimento, si intende per disfarsi l'atto con il quale il detentore del rifiuto se ne libera consegnandolo ad un impianto di smaltimento, direttamente o indirettamente e nel rispetto delle prescrizioni di cui al medesimo decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni;b) in caso di recupero, si intende per disfarsi l'atto con il quale il detentore del rifiuto se ne libera consegnandolo ad un impianto di recupero, direttamente o indirettamente e nel rispetto delle prescrizioni di cui al medesimo decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni.
2. Non ricorre l'atto del disfarsi nei confronti di quei materiali
residuali di produzione o consumo che possono essere utilmente riutilizzati
in un ciclo di produzione o di consumo:
a) senza che per essere trasferiti nel medesimo o in un analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo sia necessario alcun preventivo intervento;b) previo trattamento analogo a quello cui sono sottoposti anche i prodotti industriali, senza necessità di alcuna operazione di recupero di cui all'allegato C del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni. |