Legislatura 13º - Disegno di legge N. 4064 (I rist.)

SENATO DELLA REPUBBLICA

———–     XIII LEGISLATURA    ———–





N. 4064 I rist.



DISEGNO DI LEGGE




d'iniziativa dei senatori GIOVANELLI, CARCARINO, POLIDORO, MAGGI, BRIENZA, THALER AUSSERHOFER, VELTRI, MANTICA, RESCAGLIO, IULIANO, STANISCIA, CONTE, MICELE, GAMBINI, LARIZZA e BUCCIARELLI

COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 31 MAGGIO 1999

Norme di interpretazione autentica della definizione di rifiuto di cui all'articolo 6, comma 1, lettera a) , del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22






ONOREVOLI SENATORI. - L'articolo 6, comma 1, lettera a) , del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni, relativo alla gestione dei rifiuti, ha trasfuso nel nostro ordinamento la definizione comunitaria di "rifiuto", di cui all'articolo 1, comma 1, lettera a) , della direttiva 91/156/CEE del Consiglio, del 18 marzo 1991. In base a tale definizione, per "rifiuto" si intende "qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell'allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi".
La lettura di tale allegato A denota che esso si compone di due parti:

1) la prima reca 16 categorie di rifiuti, contraddistinte ciascuna con la lettera suffisso "Q" seguita da numeri progressivi da 1 a 16;
2) la seconda reca il catalogo europeo dei rifiuti (CER), vale a dire la nomenclatura per l'identificazione uniforme in tutti i Paesi dell'Unione europea delle singole tipologie di rifiuti.

Con riguardo alla citata prima parte si puó osservare che la categoria "Q 16" é rappresentata da "qualunque sostanza, materia o prodotto che non rientri nelle categorie sopra elencate", cioé le prime quindici. Si é, dunque, in presenza di una categoria che, stanti le sue caratteristiche di residualità rispetto al resto, comprende tutto.
La definizione di rifiuto, dunque, si connota di un'ampiezza tale da renderla piuttosto vaga. Il che rende parimenti vago ed incerto il campo di applicazione della disciplina sui rifiuti dettata dal decreto legislativo n. 22 del 1997.
Il tutto risulta tanto piú grave laddove si pensi alle pesanti conseguenze di natura sanzionatoria (penale e/o amministrativa) che sono previste per la non corretta gestione dei rifiuti. Infatti, la suindicata vaghezza della definizione fa apparire l'apparato sanzionatorio come non rispondente al principio di legalità ( nullum crimen sine lege ). Infatti, non essendo chiaro il precetto, non si puó, senza qualche rischio, ricollegare ad esso una specifica sanzione; salvo il concretarsi della non apprezzabile vigenza di sanzioni penali in bianco.
La suindicata vaghezza si amplifica a fronte della presenza, nell'ambito della definizione in argomento, del termine "disfarsi". Cosa significa esattamente tale termine? La definizione che di esso fornisce il dizionario della lingua italiana consente di individuarla nel "liberarsi di qualcosa di inutile o di qualcuno molesto". Qualcosa di inutile, ma per chi? Dove si colloca tale "liberazione": a monte o a valle dell'utilità di qualcuno o di qualcosa?
Dalla combinazione di questi elementi, come é evidente, deriva la impossibilità di individuare l'esatto campo di applicazione della disciplina. Tra tali due elementi, quello relativo al "disfarsi" presenta, per giunta, un tasso di incertezza che (a parte la definizione che di esso fornisce il vocabolario della lingua italiana) alligna nella mancanza di elementi interpretativi di fonte giurisprudenziale. Al riguardo, si ricorda che la Corte europea di Lussemburgo, con sentenza del 18 dicembre 1997 (procedimento C-129/96), riteneva che "Dal tenore dell'articolo 1, lettera a) , della direttiva 75/442, come modificata, discende in primo luogo che l'ambito di applicazione della nozione di rifiuto dipende dal significato del termine "disfarsi"". Nonostante tale ricognizione positiva sulla centralità del problema, la Corte non forniva alcuna interpretazione del termine "disfarsi". Tale individuazione risulta ancora piú fondamentale laddove si pensi che nella medesima sentenza la Corte europea proseguiva ritenendo che ".... pos sono costituire rifiuti ai sensi dell'articolo 1, lettera a) , della direttiva 75/442, come modificata, sostanze che fanno parte di un processo di produzione. Tale conclusione non pregiudica la distinzione, che occorre fare, come giustamente hanno sostenuto i governi belga, tedesco, olandese e del Regno Unito, tra il recupero dei rifiuti ai sensi della direttiva 75/442, come modificata, e il normale trattamento industriale di prodotti che non costituiscono rifiuti, a prescindere peraltro dalla difficoltà di siffatta distinzione".
La Corte europea, dunque, dà esplicito atto della centralità del termine "disfarsi" ed é proprio lí dunque, che é necessario venga puntata l'attenzione del legislatore.
Il rifiuto, in quanto rivesta una utilità economica e formi oggetto di specifici diritti (proprietà, possesso), é un bene e come tale va concepito. D'altro lato, nulla che abbia un valore economico (pur minimo) sarà gettato in discarica.
Oggi al concetto di "disfarsi" si puó attribuire il significato di "distogliere la materia da un ciclo produttivo per farla confluire in un altro": é il caso classico dei mercuriali (di cui all'allegato 1 al decreto del Ministro dell'ambiente 5 settembre 1994, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 212 del 10 settembre 1994, che ex articolo 49, comma 2, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, diventeranno rifiuti a tutti gli effetti dal 1º luglio 1999). Oppure quello di "riportare la materia dentro la catena di utilità potenziale". É evidente che la certezza del rientro della materia nella catena di utilità dipende dalla convenienza economica. Quindi, non tanto dal fatto che qualcuno "se ne disfi" quanto dal fatto che qualcun altro la "utilizzi".
Certamente, in ragione dell'emergenza ambientale (salvaguardia delle fonti di approvvigionamento) possono essere attuate delle forzature, incentivando processi di recupero non convenienti affinchè vengano comunque realizzati. Ma il risultato, in termini di processo economico, non cambia: il recuperatore, col supporto dell'incentivo, agisce in regime di convenienza. Il concetto di "disfarsi", quindi, si declina in funzione dell'opportunità economica. E quando il "disfarsi" si orienta a consolidate prospettive di recupero, esso assume sempre di piú la valenza di "transazione economica".
Per la difficoltà di calare la definizione "rifiuto" nel mondo del reale é appena il caso di ricordare che la VIII Commissione della Camera (Ambiente, territorio e lavori pubblici) é addirittura giunta ad approvare, il 29 settembre 1998, la risoluzione n. 7-00525 con la quale ha impegnato (tra l'altro) il Governo a:

elaborare, sentite le competenti Commissioni parlamentari, una proposta del nostro Paese che contenga chiari criteri per la definizione di "rifiuto" e del termine "disfarsi", nonchè per la distinzione tra "rifiuto-prodotto";
attivarsi presso le competenti sedi dell'Unione europea perchè siano discusse e definitivamente emanate linee guida chiare per la soluzione conclusiva dei problemi suddetti, riconosciuti da tempo dal Consiglio, dal Parlamento, dalla Corte di giustizia e dalla Commissione, al fine di evitare distorsioni intracomunitarie della concorrenza e barriere al commercio interno, a causa di divergenti interpretazioni della definizione di "rifiuto" da parte degli Stati membri.

A tutt'oggi, peró, il Governo non ha assunto iniziative in proposito, ed é altresí giusto rilevare che la materia, trattandosi di questione non di dettaglio, ma di principio e fondativa di un ampio corpus normativo, é di precipua competenza parlamentare.
Per dare una idea della urgenza e della concretezza del problema della definizione di rifiuto, basta per esempio ricordare il fatto che l'articolo 4, comma 21, della legge 9 dicembre 1998, n. 426, ha dovuto espressamente stabilire che gli scarti di lavorazione dei metalli preziosi avviati in conto lavorazione per l'affinazione presso banchi di metalli preziosi non rientrano nella definizione di rifiuto e, quindi, non sono soggetti al de creto legislativo n. 22 del 1997. Il Parlamento, dunque, viene spesso chiamato a misurarsi con la definizione caso per caso.
La situazione non é congrua anche a fronte della previsione della definizione di nuove figure tipiche di reato che si propongono per il settore della tutela ambientale (si veda l'atto Senato n. 3960). É diritto degli operatori e dei cittadini sapere meglio in quale ambito muoversi; sapere meglio dove finisce un bene e dove, invece, comincia un rifiuto. Questo puó essere fatto solo attraverso l'interpretazione autentica del termine "disfarsi" contenuto nella definizione di "rifiuto" di cui all'articolo 6, comma 1, lettera a) , del decreto legislativo n. 22 del 1997.
A tale interpretazione il legislatore ha il dovere di fornire un contenuto tipicamente normativo (non storico o ricognitivo), perchè deve servire a misurare l'ambito ed il modo di applicazione della disciplina dettata con quella specifica disposizione. Ció al fine di consentirne la concreta attuazione nelle varie situazioni che si verificano.
Oggetto dell'interpretazione autentica che si propone, dunque, é solo e soltanto il termine "disfarsi" contenuto nel testo dell'articolo 6, comma 1, lettera a) , del decreto legislativo n. 22 del 1997, la cui esatta portata va determinata considerando la disposizione in sè e per sè, come parte dell'ordinamento in cui é inquadrata, come elemento costitutivo della totale disciplina da cui il consorzio civile é retto in un determinato momento storico e nel suo sviluppo (principio sistematico ed evolutivo dell'interpretazione).
Come tale, l'interpretazione autentica ha valore retroattivo, ma non incide sul giudicato formatosi sotto la vigenza della legge priva di interpretazione autentica. Non é possibile ricorrere a linee-guida; infatti, in tal senso l'OCSE ha già cercato di cimentarsi con risultati pari allo zero. L'esito é stato quello di un documento disconosciuto in sede di Unione europea. Dal canto suo la Commissione delle Comunità europee é alla ricerca di soluzioni caso per caso, ma ancora non si é addivenuti ad alcuna proposta concreta di direttiva (si pensi agli abiti usati o alla carta).
Laddove si pensi di mutare la definizione contenuta nell'articolo 6, comma 1, lettera a) , del decreto legislativo n. 22 del 1997, la Commissione europea avvierebbe nei confronti del nostro Paese procedura di infrazione. Del resto la Commissione continua ad imputarci una definizione di rifiuto "all'italiana", nonostante che numerosi Stati membri interpretino il "disfarsi" come "abbandonare" (ad esempio Gran Bretagna e Francia): a tali Stati, peró, nulla viene eccepito.
Il Parlamento, dunque, viste le gravi ripercussioni sui settori produttivi della mancata individuazione della linea di demarcazione tra "prodotto" e "rifiuto" (scarsa accettazione del bene prodotto con il rifiuto da parte del pubblico, quindi decremento dei prezzi; oneri amministrativi e gestionali ingiustificati a carico delle imprese e conseguente loro "disaffezione" nei confronti del recupero con privilegio della discarica), deve prendere una iniziativa seria che ponga l'Italia al riparo da ripercussioni europee ed esercitare il suo potere sovrano di definire cosa sia un "rifiuto" in modo che, lasciando immutata la definizione comunitaria, se ne interpretino meglio i contenuti. É questo l'unico modo per dare a tale definizione un senso, calandola nella realtà senza far vivere piú i destinatari della norma nell'amletico dubbio tra "rifiuto sí-rifiuto no" che equivale a dire "sanzione sí-sanzione no" e consentendo una tutela dell'ambiente migliore, perchè favorita dal piú rapido e piú facile riutilizzo di beni e materiali che diversamente rischiano di finire in discarica o in altre forme di distruzione o abbandono, che non possono avere certo un impatto ecologico migliore del riutilizzo.





DISEGNO DI LEGGE



Art. 1.

1. Il termine "disfarsi", di cui all'articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni, si interpreta nel senso che:

a) in caso di smaltimento, si intende per disfarsi l'atto con il quale il detentore del rifiuto se ne libera consegnandolo ad un impianto di smaltimento, direttamente o indirettamente e nel rispetto delle prescrizioni di cui al medesimo decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni;
b) in caso di recupero, si intende per disfarsi l'atto con il quale il detentore del rifiuto se ne libera consegnandolo ad un impianto di recupero, direttamente o indirettamente e nel rispetto delle prescrizioni di cui al medesimo decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni.

2. Non ricorre l'atto del disfarsi nei confronti di quei materiali residuali di produzione o consumo che possono essere utilmente riutilizzati in un ciclo di produzione o di consumo:

a) senza che per essere trasferiti nel medesimo o in un analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo sia necessario alcun preventivo intervento;
b) previo trattamento analogo a quello cui sono sottoposti anche i prodotti industriali, senza necessità di alcuna operazione di recupero di cui all'allegato C del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni.