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Minerva Web
Rivista online della Biblioteca "Giovanni Spadolini"
A cura del Settore orientamento e informazioni bibliografiche
n. 54 (Nuova Serie), dicembre 2019

Testimonianze

In ricordo di Remo Bodei

Lo scorso 7 novembre, all'età di 81 anni, è scomparso Remo Bodei, filosofo e storico della filosofia, professore alla Normale di Pisa e in varie università europee e americane, statunitensi e non.

Perfezionatosi in Germania, aveva approfondito la filosofia classica tedesca e l'idealismo, ma anche il pensiero utopistico del Novecento e il neo-marxismo della Scuola di Francoforte. Dal 2015 socio corrispondente dell'Accademia dei Lincei per la classe di Scienze Morali, Storiche e Filosofiche, nella sua lunga carriera accademica Remo Bodei ha contribuito alla conoscenza in Italia di pensatori quali Adorno, Bloch, Foucault, Hegel, curandone edizioni e traduzioni. Attento all'estetica come agli studi sulla memoria, alle implicazioni etico-politiche del contrasto tra la ragione e le passioni umane e al modo in cui influiscono sulla sfera pubblica, Bodei si è interessato anche di poesia e psicoanalisi ed è intervenuto nel dibattito filosofico-politico italiano con una laicità, pur dialogante col cristianesimo, che puntava all'utopia della felicità futura dell'essere umano.

Tra le sue principali opere disponibili nel catalogo del Polo bibliotecario parlamentare - alla cui consultazione rinviamo per estendere la ricerca - segnaliamo Scomposizioni: forme dell'individuo moderno (presente alla Biblioteca della Camera nella prima edizione Einaudi del 1987 e in quella del Senato nell'edizione Il Mulino del 2016), Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico (alla Biblioteca della Camera nelle edizioni Feltrinelli del 1992 e del 2010), Destini personali: l'età della colonizzazione delle coscienze (Milano, Feltrinelli, 2009); infine il suo ultimo libro, Dominio e sottomissione: schiavi, animali, macchine, intelligenza artificiale (Bologna, Il Mulino, 2019, consultabile nelle biblioteche del Senato e della Camera).

Con piacere ricordiamo la partecipazione di Remo Bodei a due recenti incontri presso la Biblioteca del Senato.

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Venerdì 16 febbraio 2018, nella ricorrenza del primo anno dalla scomparsa di Gerardo Marotta, fondatore dell'Istituto italiano per gli Studi Filosofici, Remo Bodei svolse presso la Sala Atti parlamentari della Biblioteca del Senato una lectio magistralis dal titolo Trasformazioni del lavoro. Macchine, intelligenza artificiale, educazione, densa di riflessioni sulle prospettive del lavoro, dell'etica, dell'educazione, in un futuro in cui le macchine potrebbero essere in grado non solo di obbedire passivamente, ma anche di sostenere una continuing education, di elaborare informazioni e di prendere decisioni. L'iniziativa era stata promossa dall'allora Presidente della Commissione per la Biblioteca e l'Archivio storico, sen. Sergio Zavoli.

Il video integrale della lectio magistralis è disponibile sulla WebTv del Senato.

Il giorno prima, il 15 febbraio 2018, Bodei aveva partecipato alla sessione dedicata a Il diritto alla felicità tra ricerca individuale e dimensione sociale nell'ambito del seminario L'uomo e la ricerca della felicità, sempre promosso dal sen. Zavoli, con una relazione dal titolo Attese di felicità, in cui aveva svolto un excursus sulle concezioni di felicità sviluppatesi nel pensiero occidentale.

Di quel seminario MinervaWeb ha pubblicato un resoconto nel n. 44 (aprile 2018) e il testo completo degli Atti nel n. 49 (febbraio 2019), insieme a qualche considerazione su analoghe iniziative editoriali del Senato.

Omaggiamo dunque la memoria del Prof. Bodei riproponendo qui di seguito il testo di questa relazione.

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Attese di felicità. "Luomo e la ricerca della felicità", sala degli Atti Parlamentari, 15 febbraio 2018

Una lunga tradizione letteraria, religiosa e filosofica considera vane e irrealizzabili le attese di felicità. Ricordo alcune delle voci più autorevoli. Il coro dell'Edipo re di Sofocle proclama solennemente l'impossibilità per gli uomini di essere felici:

Povere generazioni dei mortali

per me la vostra esistenza è uguale al nulla.

Quale uomo, quale uomo mai

conosce altra felicità

se non quella che si immagina

e che declina dopo l'illusione.

Se prendo come esempio il tuo destino,

il tuo destino, il tuo, Edipo

sventurato, non posso ritenere felice

nessuna cosa umana

(vv. 1190-1197)

Lo stesso sostiene l'ignoto autore dell'Ecclesiaste o Qoèlet biblico:

Vanità delle vanità, dice Qoèlet,

vanità delle vanità, tutto è vanità.

Quale utilità ricava l'uomo da tutto l'affanno

per cui fatica sotto il sole?

Una generazione va, una generazione viene

ma la terra resta sempre la stessa […]

Non resta più ricordo degli antichi,

ma neppure di coloro che saranno

si conserverà memoria

presso coloro che verranno in seguito

(1-4 e 11)

In Parerga e paralipomena Schopenhauer sostiene: «La maggior parte delle persone, se alla fine guarderanno indietro, troveranno di aver vissuto per tutta la vita ad interim, e si meraviglieranno di vedere che proprio ciò che hanno lasciato passare senza considerarlo e senza goderlo è stato la loro vita, ed è stato proprio quello nell'attesa di cui hanno vissuto».

Tralasciando i numerosi passi sul tema che possono trovarsi in Leopardi, ecco un altro espressivo testo di Schopenhauer da Il mondo come volontà e rappresentazione: «Ogni volere scaturisce da bisogno, ossia da mancanza, ossia da sofferenza. A questa dà fine l'appagamento; tuttavia per un desiderio che venga appagato, ne rimangono almeno dieci insoddisfatti; inoltre, la brama dura a lungo, le esigenze vanno all'infinito, l'appagamento è breve e misurato con mano avara. Anzi, la stessa soddisfazione finale è solo apparente: il desiderio appagato dà tosto luogo a un desiderio nuovo: quello è un errore riconosciuto, questo un errore non conosciuto ancora. Nessun oggetto del volere, una volta conseguito, può dare appagamento durevole, che più non muti: bensì rassomiglia soltanto all'elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento. Quindi finché la nostra coscienza è riempita dalla nostra volontà; finché siamo abbandonati alla spinta dei desideri, col suo perenne sperare e temere; finché siamo soggetti del volere, non ci è concessa durevole felicità né riposo».

Potrei continuare a lungo e spegnere ogni ragionevole attesa di felicità. Eppure la nostra esistenza non è fatta solo di infelicità, che peraltro non si potrebbe neppure concepire se non fosse illuminata da lampi o periodi di felicità.

Certo, la felicità non si può ottenere a comando. Non si può dire «sii felice!», così come non si può dire «sii spontaneo!». Come diceva Cechov, «la felicità è una ricompensa che giunge a chi non l'ha cercata». Inseguita troppo, con parossismo e con insistenza, essa finisce per produrre effetti negativi. Quando qualcuno ottiene il risultato cui aspirava, spesso conclude con un «Tutto qui?» Kant lo ha spiegato a uno storico russo: «Quando uno cerca la felicità e la raggiunge, si accorgerà che tutto non è tutto», cioè che qualcosa manca. La felicità è quella che non abbiamo cercato e arriva come un dono accolto con gratitudine.

La felicità non somiglia alla calma piatta e al cielo azzurro, alla semplice, ma gradevole serenità dell'animo. È piuttosto paragonabile ai vertici o ai picchi di un diagramma vitale. Noi viviamo in una realtà fatta di momenti, per così dire, spiccioli, mentre la felicità è una specie di moneta d'oro che si trova intera e non si sminuzza in piccole parti. La felicità è un modo di incontrare sé stessi, con il nodo che noi siamo, e noi siamo dei nodi di relazione. Già da bambini l'io non esiste, lo ritagliamo dalla madre e poi dai compagni, dai maestri di scuola. Il nostro io è semplicemente un cantiere in costruzione e allora l'errore, l'infelicità, deriva dal ritagliare dentro questo nodo di relazioni un presunto io in maniera narcisistica, dimenticando che noi siamo fatti dagli altri. La felicità consiste semplicemente in questo riannodare tutti i nostri legami, e nel riscoprire appunto una ricchezza di questi fili che si dipartono e convergono in noi stessi.

Lo si capisce meglio leggendo una splendida poesia del Premio Nobel caraibico Derek Walcott, Love after love, Amore dopo amore, che si trova nella raccolta Mappa del nuovo mondo:

Tempo verrà

in cui, con esultanza,

saluterai te stesso arrivato

alla tua porta, nel tuo proprio specchio,

e ognuno sorriderà al benvenuto dell'altro,

e dirà: Siedi qui. Mangia.

Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io.

Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore

a se stesso, allo straniero che ti ha amato

per tutta la tua vita, che hai ignorato

per un altro e che ti sa a memoria.

Dallo scaffale tira giù le lettere d'amore,

le fotografie, le note disperate,

sbuccia via dallo specchio la tua immagine.

Siediti. È festa: la tua vita è in tavola.

Il nucleo centrale di questa poesia è che siamo stranieri perfino a noi stessi, ma che vi è la speranza di rincontrare noi stessi, di poter accogliere quella parte di noi che ci è sempre stata estranea, che ci accompagna come un'ombra. Non vi è una tecnica specifica che mi permetta di sentire e scoprire questo io nascosto. La speranza, che anche la poesia di Walcott ci trasmette, è quella di una rivelazione in cui vedremo noi stessi faccia a faccia, in cui bisognerà però «sbucciare» (peel) dallo specchio l'immagine immediata e superficiale, narcisistica, rattrappita nelle sue possibilità e sostituirla con la nostra di maggior spessore e profondità. Un modo per poter festeggiare questo incontro con noi stessi e con lo straniero che è in noi è proprio quello di sederci al banchetto della vita e di alzarci non dico sazi, però almeno riconoscenti.

Festeggiare la vita significa, inoltre, facilitare l'avvento della felicità anche rendendosi conto che siamo anelli di una catena che è più grande di noi, che si prolunga nel corso delle generazioni. Ciascuno di noi dovrebbe ricordare che viene da una lunga sequenza di viventi, che comprende non solo i miliardi di nostri antenati umani, ma persino quelle forme di vita elementare non umana, come i virus che il nostro DNA ha inglobato al suo interno. L'estraneità a noi stessi si può così, paradossalmente, convertire nel luogo d'accoglienza dell'estraneità di tutti gli altri che fanno però intimamente e involontariamente parte di noi. Chi ha paura e angoscia può, opportunamente guidato, trovare aiuto e conforto per affrontare meglio la propria vita se la «sbuccia» dalla sua immediata e meschina immagine e la inserisce in vicende più grandi di lui.

Conoscere noi stessi per uscire da un io limitato, vuol dire, quindi, sciogliere - per esaminarlo e poi ricomporlo - quel nodo di relazioni a partire dal quale abbiamo costruito e continuiamo a costruire noi stessi. Vuol dire ricordarsi degli altri che sono in noi e che siamo noi, rendendoci conto della complessità della storia che ci ha plasmato (lo scavo nell'interiorità non è, dunque fine a sé stesso, ma è una sorta di trampolino per riportarci all'esterno, al mondo comune). Questo esame rivela la nostra natura plurale perché ci permette di riconoscere che la vita di ciascuno è essenzialmente solidale con quella degli altri, partecipa e riceve significato e aiuto dalle loro esigenze e dalle loro speranze. Anche questo dovrebbe darci una forza supplementare per elaborare e chiarire progetti condivisibili non appiattititi sulla contingenza, per non essere ospiti ingrati ed egoistici della nostra stessa vita.

Vi sono tuttavia dei modi per facilitare l'arrivo della felicità (del resto tutta la filosofia antica non ha pensato che a questo, dato che la ricerca della conoscenza non mira che al piacere d'organo della nostra ragione, posseduta solo dalla specie umana).

Non ignara delle difficoltà, si è a lungo interrogata sul come far rifluire i desideri insaturi di illimitata felicità entro il tempo della vita irrimediabilmente chiusa, spesso miserabile, di chi si scopre candidato al nulla. Amare la conoscenza, mantenere la tranquillità dell'animo, cercare i piaceri in giusta misura, temperare gli affetti, compiere esercizi fisici o spirituali: a questo tendono le terapie dell'anima elaborate da Socrate a Seneca.

Alla fine del V secolo a. C., il sofista Antifonte aveva perfino aperto nell'agorà di Corinto una specie di consultorio, dove, con il solo uso della parola, curava le malattie dell'anima, secondo un metodo da lui definito techne alipias, arte o tecnica di alleviare il dolore psichico.

Da Cartesio in poi la filosofia ha abbandonato - credendolo forse impossibile - il compito di offrire la felicità e si è dedicata alla conquista della conoscenza e del potere. Secondo la definizione di Hobbes, la felicità è ad fines semper ulteriores minime impedita progressio, un progredire che incontra un minimo di impedimenti al conseguimento di obiettivi sempre più avanzati. Riformulando la frase hobbesiana si potrebbe anche dire che la felicità del pensiero è anche quella che conduce a oltrepassare confini sempre più remoti del sapere, ad andare alla ricerca dell'ignoto, dell'avventura, a dire, con le parole di Cromwell che «nessuno sale tanto in alto come quando non sa dove va».

Se continua a essere vero che per molti la vera, completa, felicità si trova soltanto in Paradiso, in età moderna gli uomini hanno cercato di rivalutare questa vita e di trasformare il mondo da «valle di lacrime» o squallido albergo in casa avita che si deve trasmettere più bella e ospitale ai pronipoti.

Hanno così trasformato lo sguardo verso il cielo, verso l'alto in uno sguardo in avanti, verso il futuro, hanno suscitato un patriottismo del mondo, hanno puntato sulla storia e sulla politica (spesso intesa come rivoluzione o trasformazione progressiva) quali strumenti di felicità collettive in questa terra. Hanno così sostituito la ricerca del Regno dei cieli sia con utopie, sia con progetti di lungo respiro. Hanno scoperto che l'eternità non è un tempo senza fine di godimenti, ma una pienezza vitale che può durare un attimo, ma qui, nell'unico nostro mondo. Essa è un momento in cui il tempo, che è come sabbia che fugge, si sospende. Noi siamo abituati a considerare l'eternità come un tempo lunghissimo, e quindi sulla base della durata, mentre da Plotino e Boezio in poi significa 'pienezza di vita' e può, appunto, durare un attimo (da 'atomo'). In questo senso, felicità ed eternità coincidono: sono al di fuori del tempo, e dalla dimensione malinconica e depressiva della caducità, per cui tutto passa e muore. In momenti culminanti la felicità ci fa sentire ed essere in sintonia e in amicizia con sé stessi.

Per dirla con una vecchia canzone di fine Settecento, sanno che plaisir d'amour ne dure qu'un moment, mentre chagrin d'amour dure toute la vie. Hanno abbassato le loro richieste e godono del possibile. Conservano quella indimostrabile speranza espressa da Borges nella Storia dell'eternità per cui «è vero che essa non è concepibile, ma non lo è neppure l'umile tempo successivo. Negare l'eternità, sopportare il vasto annientamento degli anni carichi di città, di fiumi, di gioie, non è meno incredibile che immaginare la loro completa salvazione […] La vita è troppo povera per non essere anche immortale».

Oggi, tuttavia, è giunto a conclusione un ciclo bicentenario di pensiero e di prassi che aveva attribuito alla politica una funzione salvifica, promettendo a popoli o classi una felicità futura grazie al suo innesto nel corso della storia. Inserendosi nella corrente degli eventi, cavalcandone la cresta dell'onda, sintonizzandosi su processi già in atto, seguendone la 'meccanica razionale', la politica pensava di fruire dell'energia ascensionale del movimento storico per giungere felicemente alla meta.

Ora pare che questo obiettivo non sia più conseguibile, che la ricerca della felicità individuale si sia ulteriormente staccata da quella della felicità collettiva, che ciascuno voglia pensare solo a sé stesso o ai suoi familiari e amici. L'avvenire, che appare sostanzialmente incerto, o addirittura pauroso (esaurirsi delle risorse, riscaldamento globale, fame per centinaia di milioni di persone, terrorismo) sembra sfuggire al controllo degli uomini e riporsi di nuovo, per molti, nelle mani di Dio. La contrazione delle attese e delle speranze di largo respiro spinge le persone a concentrarsi sul presente. Questo significa, però, una desertificazione del futuro o una sua privatizzazione. Ciascuno si ritaglia una propria fetta di cielo. Si accorciano, così, i piani di vita dei singoli e si attenua la forza propulsiva delle istituzioni.

Se l'esistenza degli individui e delle comunità è improgrammabile nei tempi lunghi, se le promesse di paradisi terrestri illuminati dal sole dell'avvenire non si possono mantenere, la consapevolezza (o almeno il presentimento) di una vita migliore in comune spinge gli individui, schiacciati sul quotidiano, a perseguire soltanto una fragile felicità, che - per quanto effimera - può riempire ugualmente i momenti culminanti dell'esistenza.

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